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06/10/2024
IL MITO DI FEDERICO II |
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di Antonia Flaminia Chiari |
"Stupor mundi" fu detto dai contemporanei Federico II di Svevia, l'unico degli imperatori germanici del medioevo, insieme al Barbarossa, che occupi un posto riconosciuto nella nostra storia e subito ci rimandi a immagini evidentissime: la disfatta inflittagli nel 1248 dai popolani di Parma, la città di quel Salimbene che lo paragonava a un drago funesto; gli splendori della corte di Sicilia, consacrati dalla lirica della "prima scuola", di cui il sovrano medesimo era mecenate; i castelli di Puglia, gli arcieri musulmani, le donne dell'harem, le cacce col falcone illustrate nel suo trattato, il più ricco che ci resti in materia. Immagini romantiche, però.
Dante collocò Federico II di Svevia tra gli eretici nel canto X dell’Inferno, probabilmente a motivo di una crociata particolare e di una scomunica.
La sesta crociata fu infatti diversa da tutte le altre, e su questa diversità si sofferma Fulvio Delle Donne nel suo libro Federico II e la crociata della pace. Diversa perché il termine “crociata” non appartiene al vocabolario delle fonti antiche; solo nel XIV secolo appare il termine “bolla”, con la quale il Papa concedeva indulgenze in cambio di sostegno finanziario nella lotta contro i nemici della cristianità. Anche la numerazione delle crociate è fantasiosa perché, scrive Delle Donne, i numeri inducono a <<distinguere in maniera netta fenomeni storici dai contorni indefiniti>>.
Federico II tra 1228 e 1229 guidò una crociata eccezionale e unica per almeno due aspetti. Primo motivo: non ci fu alcun combattimento, sebbene potenzialmente le truppe di entrambe le parti fossero pronte, né alcuno spargimento di sangue. Al contrario, si concretizzò un accordo diplomatico tra l’imperatore e il sultano d’Egitto, al-Malik al-Kāmil (1179-1238), della dinastia curdo-musulmana ayyubide. Così per più di 10 anni Gerusalemme e la Terra Santa tornarono alla Cristianità, con il diritto dei musulmani (e degli ebrei) a svolgere nella stessa terra i loro culti e a viverci. Il secondo motivo: sorprendentemente la crociata fu portata a termine con successo, senza morti sacrificati sull’altare delle religioni e della geopolitica, da un sovrano scomunicato.
In realtà – come chiarisce lo stesso professor Delle Donne – né l’imperatore Federico II né il sultano al-Kāmil, nel XIII secolo, erano pacifisti o tolleranti. In primo luogo perché il concetto di tolleranza, come lo intendiamo noi oggi, si è sviluppato sotto l’influenza dell’Illuminismo, movimento politico, sociale, culturale e filosofico che si sviluppò in Europa nel corso del XVIII secolo. In secondo luogo, perché il pacifismo – inteso come insieme di dottrine, idee e movimenti d’opinione che rifiutano la guerra come mezzo per risolvere i conflitti – è nato ancora più tardi, nel XIX secolo. Insomma, nonostante tanti fans di Federico oggi adorino definirlo un anticipatore di pacifismo e tolleranza, egli era un sovrano medievale estraneo a quei concetti; anzi, come i potenti di oggi, era attento soprattutto alla conservazione e all’estensione del suo dominio, con qualsiasi mezzo e se necessario con estrema brutalità.
Il libro scritto da Delle Donne è ricco di dettagli su tutte queste circostanze storiche. Tuttavia ha anche il pregio – e l’intenzione, dichiarata dall’autore – di raccontare la storia della crociata pacifica guardando all’oggi e alle tante guerre che si potrebbero evitare se le doti della diplomazia prevalessero su quelle delle armi.
In momenti di crisi e di incertezza come quelli che stiamo vivendo a livello globale negli ultimi tempi, diventa difficile prevedere cosa possa riservarci il futuro. I conflitti in atto e la divisione cui assistiamo tra grandi blocchi contrapposti minacciano la pace e la giustizia nel mondo. Quei diritti individuali e collettivi che davamo per scontati perché tutelati dalle nostre Costituzioni, rischiano di non essere più garantiti come prima. I valori etici passano in secondo piano rispetto all’economia e al “progresso”. Il pensiero critico perde terreno e l’ignoranza dilaga…
Tuttavia è proprio nei momenti più critici che occorre armarsi di coraggio per resistere e per superare il senso d’impotenza che ci coglie, evitando di cadere nella trappola dell’inazione.
Come semi di pace rimasti a lungo sotto terra, e pronti a germogliare al momento opportuno, alcuni eventi dimenticati del nostro passato possono riemergere dall’oblio e indicarci il cammino da intraprendere.
Uno di questi “semi” destinati a germogliare, ci fu lasciato in eredità otto secoli fa da un uomo santo che scelse di vivere come Gesù, un cavaliere figlio di un mercante che scelse di seguire alla lettera il Vangelo e per questo rinunciò a possedere qualsiasi bene terreno e fece voto di Povertà. So che non ha bisogno di presentazioni e che avrete già intuito il suo nome: Francesco, o meglio Franciskus come lo volle soprannominare suo padre. Spogliandosi delle cose mondane egli divenne spiritualmente più ricco di chiunque altro, poiché la sua scelta estrema e radicale lo rese completamente libero da vincoli terreni e materiali. Quest’uomo di fede, nato ad Assisi e vissuto a cavallo tra il XII e il XIII secolo, divenne così simile a Gesù al punto che dopo la sua morte cominciò ad essere venerato come l’“Alter Christus”.
Sempre otto secoli fa un secondo “seme” di pace ci fu lasciato in eredità da un grande sovrano medievale: l’imperatore Federico II Hohenstaufen. Con il suo smisurato potere e la sua vasta cultura questo sovrano “illuminato” riuscì a sottoscrivere una pace duratura tra popoli di etnia e di religione diversa.
Il suo disegno di pace si concretizzò nel 1229 , dopo il fallimento della quinta Crociata, allorché Federico II sottoscrisse una tregua di dieci anni con il Sultano d’Egitto (lo stesso Al Kamil che aveva incontrato Francesco dieci anni prima). A quel tempo i Franchi combattevano contro i Saraceni, chiamati dai cristiani gli “infedeli”, e si viveva in un clima di guerre, lotte di potere, carestie, epidemie. Un’epoca in fondo non troppo diversa dall’attuale!
L’accordo di pace siglato da Federico II e dal Sultano suo amico a Giaffa, nel febbraio del 1229, permise al sovrano svevo di riunire Oriente e Occidente e di entrare a Gerusalemme da vincitore, senza bisogno di usare le armi, evitando scontri, distruzioni e saccheggi. Il trattato diplomatico fu siglato tra due sovrani davvero “illuminati” che provarono a cambiare il mondo credendo negli stessi valori: la cultura, la spiritualità, l’onore, l’amicizia, la fede, la giustizia, il dialogo, la diplomazia, la pace.
Non è una storia a lieto fine, purtroppo, poiché la pace raggiunta da Federico II e Al-Kamil non fu duratura.
Ma oggi, a distanza di otto secoli, quei due “semi” rimasti sepolti sotto terra, il primo lasciato da san Francesco nel 1219, e il secondo da Federico II una decina di anni dopo, possono finalmente germogliare trasformandosi in azioni di speranza e di pace, in pensieri positivi e costruttivi utili a superare le guerre e l’incertezza del nostro presente.
Se pensiamo al dramma della guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, ci viene in mente il sovrano normanno-svevo Federico II, e immaginiamo avvenimenti che potrebbero evitare massacri e tragedie. Ma nel nostro mondo reale non ci sono accordi e non si sa mai come va a finire. Ed è qui che entra in gioco Federico II e la sua “crociata della pace”. Dove la storia la vediamo come il filosofo Benedetto Croce (1866-1952): è il fatto, il documento dell’epoca studiata, e, al tempo stesso, è la narrazione che di quel documento fa il giudizio dello storico: quindi è sempre “storia contemporanea”, perché “è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato”. Ebbene, Delle Donne ha scritto il suo libro sull’impresa dell’imperatore normanno-svevo proprio con questa logica.
Forse le guerre oggi in corso – da quella che stiamo vivendo in diretta web e tv tra russi e ucraini alle tante altre, più o meno dimenticate, nel mondo – non sarebbero mai iniziate, o sarebbero già finite, se i potenti fossero riusciti a pensare (come fecero lo scomunicato Federico e il bistrattato al-Kāmil) che alla violenza possono esserci alternative. Non resta che confidare nelle lezioni della storia (e ovviamente nella voglia di studiarla).
L’evento pacifico si colloca in un teatro mediterraneo di belligeranza cronica all’epoca fra Europa cristiana e il Vicino Oriente islamico. L’accordo diplomatico tra Federico II e al-Kamil è una lezione per il presente. Certo, per essere davvero efficace, quella lezione andrebbe adeguata ai mutati contesti della nostra epoca.
Se i contesti di oggigiorno sono difficili e complessi, dʼaltronde quelli tardomedievali contemporanei con gli eventi in oggetto non erano semplici né elementari.
E quel Medioevo fu estremamente fecondo, sia che si guardi alla civiltà europea prevalentemente cristiana, sia a quella arabo-islamica confinante e per così dire dirimpettaia. Prendere in considerazione soltanto la conflittualità, che pure ci fu e fu accanita, anziché lʼinterazione da cui in qualche rilevante misura scaturirà quella che noi chiamiamo modernità, sarebbe un miope e fuorviante errore storiografico.
Non resta che attendere e sperare, nei nostri sconfortanti tempi, in leader politici con un po’ di buon senso, almeno pari a quello degli antenati medievali. Nell’attesa, ricordiamo quanto scrisse lo storico Fernand Braudel: <<La storia non è altro che una continua serie di interrogativi rivolti al passato in nome dei problemi e delle curiosità – nonché delle inquietudini e delle angosce – del presente, che ci circonda e ci assedia>>.
Antonia Flaminia Chiari
Centro Studi Leone XIII
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