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28/01/2024

Cosa rimane se seccano le radici?
di Michele Lacava

 

<<Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti>>. Chi conosce queste parole, con una buona probabilità, avrà letto il libro dal quale provengono: La luna e i falò. Si tratta del capolavoro di Cesare Pavese, il testamento letterario con cui si congedò dalla vita ma non dalla letteratura, dato che le sue opere continuano ancora ad illuminare. Lessi questo libro un paio di anni fa, a fine estate. Per chi come me è nato e cresciuto al Sud ma da anni, ormai, vive al Nord per motivi di studio o di lavoro, gli ultimi giorni di agosto, sono contrassegnati dal tipico magone provocato dalla partenza incipiente. La malinconia e la nostalgia, infatti, iniziano a fare capolino squarciando quel velo di momentaneo idillio che solo la stagione estiva è in grado di donarci.

Succede sempre e comunque, anche ai fuorisede più incalliti. Per questo motivo, immedesimarmi nel protagonista della storia in questione è stato naturale. Anguilla, alter ego di Pavese stesso, è un emigrante originario delle Langhe piemontesi che, dopo aver girato il mondo in cerca di fortuna, decide di tornare a casa definitivamente <<perché la sua carne valga e duri qualcosa di più di un comune giro di stagioni>>. Ma, al suo rientro, troverà il paese dov’è nato e cresciuto del tutto diverso da come lo avevo lasciato: la sua assenza è stata lunga e quel luogo ha vissuto il dramma della Seconda Guerra Mondiale che gli ha sottratto gli affetti più cari. Dei suoi vecchi amici ritrova solo Nuto, suo storico mentore e compagno di scorribande adolescenziali che da lì non si è mai mosso, e che lo accompagnerà nel viaggio alla riscoperta dei luoghi della memoria e del cuore rivelandogli anche le sorti degli altri abitanti del posto a cui entrambi erano molto legati.

Nonostante la storia sia ambientata nel profondo Nord, in una regione che siamo sempre stati abituati a immaginare come meta attrattiva più che luogo di abbandono, le tematiche affrontate riguardano anche noi meridionali, specialmente quelli provenienti da un luogo che offre scarse opportunità e prima o poi si trovano costretti a partire alla ricerca di una prospettiva migliore. Inoltre, la desolazione che il protagonista si ritrova davanti ci è alquanto familiare, considerando lo spopolamento che sta desertificando la nostra regione (anche se il fenomeno che ci riguarda non ha nulla a che vedere con una guerra o una carestia).
Le vicende narrate da Pavese, quindi, tessono una trama di partenze e di ritorni, di ritrovamenti e addii, di ricordi e di rimpianti. Ma si parla soprattutto di radici e di quanto siano fondamentali per la vita di ognuno di noi. Avere radici in un posto significa averci un centro della propria vita. Un punto fermo, un paio di braccia sempre pronte ad accogliere anche quando ci si allontana. Ma, in una terra trascurata come la nostra, che non viene più coltivata come meriterebbe, le radici prima o poi rischiano di rinsecchire smettendo di riprodursi come dovrebbero. D’altronde, come possono resistere in un terreno così arido, che non riesce più a trattenere né ad attrarre risorse umane? E noi, per quanto tempo ancora avremo qualcuno o qualcosa che rimarrà lì ad aspettare il nostro ritorno? L'ottimismo e l'entusiasmo iniziali di Anguilla si affievoliranno gradualmente di fronte ad una realtà diversa da quella che si aspettava, e ben presto lasceranno il posto ad un'amara rassegnazione. Il suo stato d’animo non diverge tanto dal nostro quando, tornando a casa, troviamo i nostri paesi sempre più desolati. Ecco perché la storia di Anguilla è anche un po’ la nostra.

Con questo romanzo, Cesare Pavese, così legato alla sua terra natìa tanto da attribuirle un ruolo centrale nella sua produzione letteraria, ci consegna un’ottima occasione per riflettere sulle falle politiche dei nostri territori e, magari, può fungere da stimolo per un impegno maggiore da parte della classe dirigente attuale e di quelle che verranno. Altrimenti, di questo passo, c’è il rischio che tra qualche anno, al nostro rientro, ad aspettarci rimarrà solo lo spettro di ciò che poteva essere ma non è stato.

Michele Lacava
Centro Studi Leone XIII

 

 

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