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14/10/2023

TRIONFA LA CULTURA “MOLLE”
di Antonia Flaminia Chiari

 

La cultura sembra presa in un gioco bizzarro. Da una parte ricorre a continui integratori energetici che le danno un aspetto vitale, dall’altra fa uso indiscriminato di tranquillanti che temperano contengono e spengono le riflessioni. Fra questi due poli si muove il passato, come un cetaceo agile in un bicchiere d’acqua generosamente riempito. Il nostro millennio ha alle spalle il Novecento, come una sorta di gravità che spinge all’indietro. Il nostro presente è una sorta di elaborazione del passato, che non riesce a trasformare il secolo in storia, tenendolo in vita come una cronaca quotidiana dell’odierno. Questo accade mentre l’avanzamento tecnologico è in accelerazione crescente.

Il millennio presente e il Novecento sono due inseparabili siamesi. Intanto il pensiero si è fatto debole. Il Novecento ci seppellisce nella cronaca ma ci esime dalla filosofia. E il pensiero non debole che fine ha fatto? Ha lasciato il posto ai poteri forti che sono diventati il suo corrispettivo.  Il nuovo genio di Aladino è l’insediamento dell’emozione, non interlocutrice premessa o prosecuzione di un pensiero, ma un nuovo assoluto dell’esistere. Se vigore incontriamo, esso sta tutto negli effetti speciali di un film o nell’arbitrarietà della chitarra di un rapper. I poteri forti si riducono al filo nero finanziario, un vero e proprio tapis roulant che con i suoi cingoli da carro armato identitarie dell’Europa, così da trasformare la relativa palafitta in zattera confusamente alla deriva, così più facilmente aggirabile. Ad ogni ferita che questa finanziarietà infligge ad una nazione, gli abitanti, anziché cercare di individuare i responsabili, si fustigano organizzando corsi di aggiornamento sul linguaggio finanziario nell’illusione di evitare futuri martiri.

I filosofi fanno un po’ di salotto, quando viene data loro l’opportunità, essendo essi popolati da commentatori televisivi polivalenti, che sono capaci di tutto, addomesticati e rabbiosi, aggrediscono e deridono, e ripetono, passando dalla geografia alla politica, alla storia, a tutto quanto hanno accumulato nel prêt-à-porter della loro cultura giornalistica. Del resto, quando un filosofo si muove, è per mettere a segno un vistoso inefficace ritardo. La cultura è in apnea e vorrebbe vanamente esplodere il suo soffocamento, come fa la balena con i suoi soffioni boraciferi. Ci sono oggi parrucchieri che contano più dei ministri; simpatici cuochi paciocconi che sono importantissimi chef, ovvero maîtres-à-penser. Siamo all’interiorità della padella. Esperienza analoga ci può capitare con il sarto, divenuto stilista, capace di determinare la contemporanea storia dell’arte; e così via.

Anche la politica europea ci impone all’improvviso l’apparizione di personaggi che dovrebbero rappresentare la soluzione delle nostre tragedie in corso. Chi sono? Cui prodest? Si capisce come ci sia una certa omogeneizzazione di figure delle quali è difficile conoscere la storia personale. Ma noi gestiamo la storia in atto come un calendario all’incontrario nel quale, anziché strappare ogni giorno il foglietto relativo, ne incolliamo uno nuovo che sigilli e dimentichi il precedente. Insomma, le tinte forti del quotidiano vengono stemperate con colori pastello. Qualcosa di simile l’abbiamo già visto nella storia andata.

Come non paragonare il nostro tempo con i decenni immediatamente precedenti alla Rivoluzione francese? Quasi pitture di Bouchet e di Fragonard, questo è il tenore dei giochi che vedo nelle trasmissioni contemporanee; questi sono i racconti che sento fare di viaggi e vacanze in corso. Ciò, naturalmente, mentre i barconi affondano nel Mediterraneo, dove peraltro giungono investimenti finanziari propri della ferocia umana. Tanto è per dire che mentre la storia, con gorghi e sussulti, pare infilarsi nella canna di un imbuto, la consapevolezza critica che ne traspare permane di indiscussa levità.

Lasciamo perdere le Bastiglie d’occasione, ma non ci si può non accorgere che quando i giornali fanno delle inchieste, si guardano bene dal tirare in ballo i padroni del vapore. Un po’ come la vicenda di Mani pulite, che si tenne fuori dai poteri delle mafie; non a caso nessuno degli inquirenti coinvolti ha fatto la fine di Falcone, Borsellino, o Livatino. Ed eccoci nel nostro neorococò spirituale, in cui la libertà del singolo si dimena tra eccessi personali in varie direzioni, che nulla contano nell’equilibrio della società.

Dopo la moraviana indifferenza e la nausea di Sartre, l’indifferenza odierna è come una spugna bisognosa di assorbire, ma alla quale sono state cementate le superfici.

E’ vietato pensare? Sembrerebbe di sì. Non c’è strada da inoltrare che non venga subito bloccata da un ghigno di disprezzo disperato, ma l’esistente fa sempre più fatica ad esistere e il verbo essere viene eroso ogni giorno di più, fino a mutarlo in altri verbi di supposta sopravvivenza. Aumenta l’autocensura intellettuale e cresce la disoccupazione della creatività. E’ la nostra captatio benevolentiae dell’innominabile potere forte. Quello che non possiamo cogliere è l’accadimento ininterrotto, formalizzando il quale si può sbarcare su nuovi linguaggi e pensabilità. Mi riferisco all’ammucchiamento dei popoli, primum movens dell’innominabile potere forte.

Diamo un’occhiata a Teilhard de Chardin, antropologicamente inteso: le cataste umane non devono essere come quelle di pietra che si scalfiscono a vicenda; va studiata una nuova coreografia delle pietre. Figuriamoci se questa è una società liquida! Questa è la società del dolore, che di liquido ha solo il sanguinamento. Va lasciata parlare, accompagnandola giudiziosamente per mano.

Il confronto tra l’incompiutezza della modernità e la reazione nichilista della postmodernità costituisce una provocazione a rileggere la relazione tra eredità cristiana e pensiero debole. Significa porsi in ascolto della Rivelazione che dà a pensare perché in essa la memoria del Dio di Gesù Cristo diventa riserva critica – teologica culturale antropologica – verso la comprensione dell’uomo come inter-esse, soggetto in relazione, in nome di quel rapporto di amore e di cura che Cristo instaura e intrattiene con ciascuno di noi.

Antonia Flaminia Chiari

Centro Studi Leone XIII



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