Libri
"LA GUERRA PER IL MEZZOGIORNO
Italiani, borbonici e briganti 1860-1870" (ED. LATERZA, 2019)
Una storia ancora tutta da raccontare
recensione a cura di Angela De Nicola
“Nell’estate del 1857 un gruppo di sconosciuti si impadronì di un piroscafo di linea piemontese, il Cagliari. I dirottatori costrinsero il capitano a dirigersi a Ponza, un’isola napoletana, luogo di carcerazioni penali e politiche. Si scoprì poi che il loro capo era un ex ufficiale borbonico, Carlo Pisacane. Aveva disertato più di dieci anni prima fuggendo da Napoli assieme alla sua amante Enrichetta Di Lorenzo, causando scandalo, per poi andare nella legione Straniera Francese. Nel 1849 fu tra i protagonisti della breve stagione della Repubblica romana. In esilio si fece conoscere come intellettuale, scrisse libri politici, si dichiarò socialista, litigò e si riavvicinò a Giuseppe Mazzini. Insieme progettarono l’impresa che prese il nome di spedizione di Sapri. Si basava sulla convinzione che, dopo decenni di rivolte e lotte civili, sarebbe bastata una scintilla per far esplodere il Mezzogiorno, scatenare il popolo e prendere la guida della nuova rivoluzione italiana.”
Inizia così, con la cadenza fascinosa di un romanzo storico, con un passo che ha tutto il valore di una sinossi generale delle pagine successive, l’innovativo saggio-racconto del Prof. Carmine Pinto, edito da Laterza e presentato lo scorso anno a Rionero nell’ambito di due prestigiosi tavoli, a cura rispettivamente delle giovani associazioni rioneresi Archeoclub del Vulture “G. Catenacci” e Associazione Culturale “Santa Maria di Rivonigro”. Un incipit che cattura anche il lettore meno avvezzo alla saggistica storica.
Lo Sbarco dei Trecento a Sapri: è così che si apre ufficialmente il sipario del libro sul teatro di una delle guerre più discusse, logoranti, epiche e sanguinose della storia moderna: la Guerra per il Mezzogiorno.
Carmine Pinto, professore ordinario di Storia Contemporanea presso l’Università degli studi di Salerno, direttore del Centro di Ricerca sui Conflitti in Età Contemporanea e responsabile del Programma per il Dottorato di Ricerca in Studi Letterari, Linguistici e Storici dell’ateneo salernitano, sceglie un titolo che la dice lunga sulla natura di questo importante snodo storico avente per protagonista le nostre contrade, e confeziona davvero un prezioso scrigno documentativo, un importante e vasto lavoro in cui il decennio 1860-1870 è analizzato da tutti i possibili punti di vista; un’opera che ogni appassionato di storia non può non leggere ma che, beninteso, per la freschezza narrativa è adatto ad una fruizione veramente trasversale.
La Guerra per il Mezzogiorno è un saggio originale, una perfetta fusione di narrativa di gusto e solidità scientifica, una sorta di “tesoretto” per la novità dei materiali storici usati e per la vastità delle ricerche compiute, giunto ormai per il suo vasto successo di pubblico, alla sua settima edizione. Un faro di indubbia qualità nello sterminato marasma di titoli divulgativi e saggistici, più o meno qualitativamente accettabili, prodotti focalizzandosi spesso solo in maniera folkloristica e scandalistica sul Brigantaggio e che invece devono includere il Brigantaggio pienamente entro le vicende storiche pre e post-unitarie. Possiamo forse affermare che quest’opera si accinge già a diventare uno dei punti di riferimento nell’ambito degli studi storici relativi al periodo 1860-1870, al pari di come lo fu l’opera di Franco Molfese (“Storia del Brigantaggio dopo l’unità”, Milano, 1964) quasi cinquantotto anni orsono, la cui visione storica seppur notevole, appare ormai notoriamente invecchiata.
Frutto di una ricerca storiografica immensa e di una vastissima catalogazione all’interno di un panorama di fonti e di documenti di difficile reperimento, il volume si è posto prima di ogni altra cosa, nell’alveo delle prospettive di “renovatio” della vecchia scuola storica (quella del “così è”, per intenderci, del dato di fatto acquisito, digerito e inamovibile) ed è ormai entrato nel novero dei lavori storiografici cosiddetti “spartiacque”, quelli cioè che catalizzano un nuovo orizzonte di ricerca – nello specifico - sul vasto e non ancora definito tema dell’unificazione italiana e di conseguenza su tutto l’Ottocento italiano. Perché il sud “non fu semplicemente una conquista di tipo coloniale da parte del regno Sabaudo di cui tutti i meridionali furono vittime o al più passivi spettatori.”
Vincitore del “Premio Letterario Basilicata” nel 2019 (sezione Saggistica Storica Nazionale) “La Guerra per il Mezzogiorno”, frutto di nove anni di ricerca specifica e di un ventennio di generale ricerca storica sui temi annessi, richiama già dalla preposizione presente nel titolo, quel fenomeno conflittuale atto a definire, in una guerra di italiani contro italiani, gli albori storico-sociali del Sud della nostra Penisola nella loro identità complessa e multiforme, quale tassello imprescindibile per la moderna unità nazionale.
Una guerra complessa appunto, quella con cui la ricerca storica di Pinto si cimenta, guerra anomala, poco assimilabile a ciò che fino a quel momento si era visto. Guerra difficile da delineare con tratti schematici e lineari, guerra per così dire “antitradizionale”, in cui furono mobilitati tutti gli strati della società in maniera trasversale ed onnicomprensiva; guerra altresì asimmetrica che vide contrapporsi due eserciti impari (quello “nazionale”, efficiente, moderno, espressione della nuova nazione e quello “ufficioso” fatto di briganti, renitenti, contadini, sbandati). Un conflitto sociale anzitutto, ma, soprattutto, un conflitto che non può essere più definito semplicemente locale, bensì sovra territoriale, pienamente inserito in ambito nazionale ed europeo, in un contesto cronachistico tra i più drammatici che l’autore non manca a sua volta di iconicizzare in quei tipici tratti piacevolmente letterari, difficili da ritrovare nella maggior parte dei testi di natura storiografica.
Privo quasi del tutto di gesti e fasti tradizionali, scevro da episodi eclatanti, passato dal protagonismo degli eserciti regolari alla connotazione di guerriglia rurale e in molti casi anche civile, lontano dal risolversi - così come fin dall’inizio si era sperato - in una classica manovra incendiaria lampo, un tale conflitto per il Sud che pure definì l’Italia, si giocò, in maniera paradossale, quasi nascostamente e con un andamento logorante. Soprattutto - e queste pagine lo sottolineano bene - esso si trasformò in qualcosa di imprevedibilmente lungo, sanguinoso, complesso: boschi, valli, monti e dirupi, fiumi e borghi sperduti delle nostre contrade meridionali (così come i mille rivoli sfrangiati di “storie senza storia” di varia urbanità) costituiscono un quadro immenso ed impressionante di quella che può essere definita altresì una Guerra delle Ombre, un vero e proprio conflitto civile, un conflitto cioè che non si è alimentato né di battaglie decisive, né di eserciti schierati in pompa magna … un conflitto, detto ancora altrimenti, “senza distinzioni nette tra combattenti e non combattenti” (come l’autore giustamente scrive) eppure, senza dubbio, allo stesso tempo una Guerra tra Sistemi che finisce per costituire un nuovo Sistema, guerra dove, spesso, progetti, ideologie politiche, dibattiti culturali, salotti e giornali anticipavano nuovi possibili modelli sociopolitici per poi giungere a quella che finiva per diventare l’azione fattuale del “combattimento”. La Guerra per il Mezzogiorno non fu soltanto quella fra “l’organismo statale italiano” e i banditi. Fu uno scenario complessissimo. Fu molto altro di cui bisognerebbe iniziare a farsi finalmente un’idea precisa, obbiettiva ed imparziale.
La Guerra per il Mezzogiorno, sottolinea Pinto, non fu guerra che passò inosservata all’Europa - che rimase di sottecchi a guardare - ma che finì per delinearsi come una Guerra delle Idee, una guerra che ebbe in sorte di costruire, giorno dopo giorno, episodio dopo episodio, il volto di un nuovo sistema entro cui una nuova opinione pubblica maturò: mai come allora, infatti, l’autoritarismo borbonico da una parte e il movimento per l’unità d’Italia dall’altra (e c’è da aggiungere, poi lo vedremo, la spinta alla giustizia locale attraverso azioni di libertà con il cosiddetto Brigantaggio) si scontrarono come due grandi sistemi netti e contrapposti a generare un nuovo capitolo per la nostra Italia.
Quella che senza dubbio può essere definita come la prima delle guerre nazionali italiane, ebbe insomma, come primato geografico il nostro Sud, un sistema complesso e difficilmente schematizzabile, una complicata entità sociale e politica, in cui, però, ciò che è poi passato al vaglio storico come quasi unico ed unicizzante attributo è stata quella “coloritura sinistra e sgradevole del Brigantaggio” che però tale non è e che tale non va considerata: una sfumatura che primeggiò purtroppo anche a scapito di tante altre che invece è bene oggettivamente ed unitariamente riportare a galla.
La domanda centrale da porsi, quasi una provocazione, è infatti la seguente (ed è il leitmotiv di tutto il libro che troviamo anche in quarta di copertina): il Brigantaggio fu l’eroica resistenza meridionale al colonialismo sabaudo o la sfida allo stato di bande criminali?
Ebbene, è solo inserendo il Brigantaggio in un sistema storico molto più vasto come quello delineato dal prof. Pinto che riusciamo a dare dignità emblematica a tutto un periodo e a tutto un sistema storico. Il Brigantaggio è, infondo, parte notevole del Risorgimento Italiano e risultato finale di un “conflitto antico”, aperto con l’età dei lumi e che mette buone radici con l’avvento della Rivoluzione Francese. Nato da una gestazione non improvvisata ma plurisecolare, esso non può più essere considerato semplice, disancorata ed improvvisata rivolta contadina ma, altra ipotesi sottolineata da Pinto, proprio per la sua natura avrebbe potuto assumere una qualche coloritura politica ed essere impiegato come braccio armato da fazioni sistemico-politiche rivali. Questo infondo accadeva nel nostro Sud fin dal secolo XVI e dal feudalesimo. Confluirono pertanto, negli anni del “grande brigantaggio” una serie di linee storiche e di conflittualità: la guerra tra legittimismo e liberalismo a livello europeo, la lotta tra autonomisti napoletani e nazionalisti italiani, la dicotomia tra borbonici e rivoluzionari creatasi nel Sud dalla fine del 700. Lo scontro, dunque, finiva per avere una dimensione internazionale, nazionale e locale insieme e i punti di vista vanno intersecati come giustamente Pinto ci propone. La politicizzazione del Brigantaggio poi , afferma Pinto, per quanto in buona parte esterna ad esso (ma non per questo ovviamente assente, viste le fortissime motivazioni sociali che spingevano i cosiddetti “manutengoli” ad aderire a quello che poi diventò un esercito di ventimila uomini) non può influenzare in maniera del tutto superficiale la tradizionale accezione di un movimento solo delinquenziale, solo criminale, solo anencefalico. Certamente, purtroppo, le ricerche di Pinto testimoniano su larga scala che alla forza tattica delle bande che pure riuscì ad ottenere notevoli risultati sul campo, il Brigantaggio non riuscì ad ottenere e ad inserirsi in una larga visione strategica, né ovviamente, come avrebbe voluto e come tentò invece Napoli, si trasformò in un esercito borbonico.
Questo, comunque, non è solo un libro sul Brigantaggio, come si è ben capito: semmai è un libro a trecentosessanta gradi, in cui il Brigantaggio va delineare uno dei tanti non facili e travagliati temi di questa guerra di annessione (e di cui ancora occorrerà ultimare di studiarne attentamente le dinamiche) libro che fornisce tutte le indicazioni per chi voglia farsi un’idea su un momento veramente complesso della nostra storia patria in cui una troppo semplificatoria contrapposizione di maniera tra unitari, borbonici e briganti non giova alla ricerca.(cit. Giancristiano Desiderio, Corriere della Sera, 26/5/19; Marco Vigna, Nuovo Monitore Napoletano, 31/05/2019; Saverio Paletta, l’Indygesto, 21/09/2019; Cristian Satto, Archivio Storico Italiano n.665/2020).
Con questo straordinario quanto faticoso lavoro, in altri termini ancora, la vicenda del Brigantaggio, non essendo più relegata all’ambito “semplicistico e riduttivo” delle più o meno “vergognose” storie di carneficina locale, entra in un certo qual modo ancora una volta dalla porta principale della storia, assurgendo da vettore tra i vettori delle cause e delle dinamiche storiche della “Guerra che delinea il Mezzogiorno”.
Carmine Pinto, pur lungi dal non far ricadere l’accezione storica del Brigantaggio in ciò che il Brigantaggio non fu (e non fu spinta storica alla richiesta di giustizia sociale meno di quanto non fosse già sete di esigenze concrete) sposta decisamente e giustamente l’asse di questa Grande Guerra Frammentata ma non meno decisiva per le sorti italiane dell’Ottocento verso una focalizzazione che non è necessariamente mitologica e mitica, non è pittoresca, non è negativa e destabilizzante (o anche grottesca) quando si parla, ad esempio, dei grandi personaggi delle nostre contrade lucane (Crocco e Ninco Nanco tra tutti, così come altri personaggi troppo palesemente inflazionati ed abusati dalla storia o dalla leggenda storica, da Goffredo Mameli a Masaniello fino, se vogliamo, alla Spigolatrice di Sapri).
È proprio dando dunque importanza a tutte le vicende della Guerra per il Mezzogiorno che viene fatta chiarezza su questa importante parte della storia italiana: si tratta di molteplici piani fattuali che devono equipararsi in un ventaglio di concause e di elementi di uguale importanza e che, posti come sono sullo stesso piano, vanno ad arricchire la tavolozza dei colori necessari alla completezza storica.
E’ necessario sottolineare che Carmine Pinto non intende realizzare in questo volume nessun processo alla storia, né intende lasciar passare tra le righe una malriposta querelle su ciò che ancora oggi il Sud si porta dietro in termini socioeconomici dell’enorme faccenda legata alla Questione Sociale altrimenti detta Questione Meridionale; e se da un lato l’autore, così come pare, tiene come a sottolineare la distanza di quegli eventi dal mondo odierno, non manca certo di completezza quando si propone di illuminare il lettore su un’altra importante questione che nasce tra le righe: COME il Meridione venne annesso al resto della nazione e COME il Meridione divenne Italia.
Si trattò, ecco tutto, della “crisi dell’unificazione del Mezzogiorno.” Un brutto biglietto da visita dopotutto per la neonata Italia agli occhi dell’Europa e di cui molto spesso la tradizione storica ha superficialmente dato la sua “tache” solo al fenomeno del Brigantaggio.
Grazie alla cura del particolare storico e del dettaglio che impreziosisce in maniera notevole il lavoro di Pinto, il disegno “leggendario” di quella che passò infine alla storia come una disfatta ingloriosa (poiché l’unica possibilità rimasta ai Borbone di rimanere sul seggio regale, ovvero quella di fermare l’avanzata dello Stato Italiano-Sabaudo finanziando e organizzando in maniera ancora più sistematica il brigantaggio si rivelò poi inutile sfruttamento reciproco delle parti, allorquando la stroncatura finale dell’”esercito dei boschi” fu anche fondamentalmente dovuta all’adesione pilotata e propagandata della maggioranza della popolazione meridionale al nuovo stato sabaudo ed al “patriottismo italiano”, un patriottismo pulito, certamente non macchiato da quelle violenze che tutto sommato rendevano i Briganti sempre più sgradevoli e invisi di fronte all’avanzata “più allettante” di un patriottismo “moderno”, diverso ) fu, dicevo, quella, una disfatta che rimane allo stesso tempo un disegno riconosciuto come seme di una identità profonda e peculiare per la nostra nazione: ed è certo che il valore di una coscienza nazionale comune passa storicamente anche dal contributo tormentato dell’annessione del Sud al resto della Penisola, contributo in cui alle figure “mitiche” di Mazzini, Cavour, Garibaldi, Crocco, Ninco Nanco, Pisacane, è bene affiancare l’azione, in vicende minori, corali ma non meno strategiche, dei moltissimi e forse finora mai enumerati “piccoli”, i cosiddetti “ volti senza storia che fanno la storia” (spie, traditori, cacciatori di taglie, infiltrati) personaggi di ogni angolo di strada che hanno costituito quel reticolato documentativo in cui l’autore si è tuffato con rigore, maestria e passione narrativa, riportando a galla una versione dei fatti forse ad oggi taciuta, forse non detta, certamente inedita, in cui fascino e verità essenziale si danno la mano, dimostrandoci che buona parte della nostra storia è certamente da rivedere, da capire e da raccontare nuovamente. Siamo a quanto pare al bivio di un nuovo inizio. Ne avremo per molti anni ancora.
ANGELA DE NICOLA
CENTRO STUDI LEONE XIII