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I Guitti del Continente
romanzo di Antonio Casalaro

 

 

Gallicchio (Pz), 19 agosto 2023 – I Guitti del Continente,  di Antonio Casalaro.

La scrittura è vita, è vitalità.

L’autore evidenzia un assioma di Flaiano: “Scrivere serve a sconfiggere la morte”. E’ già il suo programma. Oggi si dice: è questa la sua agenda. E’ una comunicazione di esistenza. Sembra già tutto chiaro.

Vi sono tre figure essenziali.

1) C’è il notaio Pancrazio, “tombeur de femme”, sciupafemmine diremmo in un linguaggio da popolani con le loro parlate. Pancrazio ha scelto la sua modalità di vita. Un noto filosofo dell’Ottocento, Soren Kierkegaard, definisce tale condizione di esistenza “vita estetica”, il don Giovanni che passa da una conquista ad un’altra per assenza di amore, di fedeltà, di felicità. Don Pancrazio non ha emozioni, e fa collezione di piaceri passeggeri, incurante dei danni che procura.

2) C’è l’attrice, non attricetta, si badi bene: è Ornella. Figura ben delineata, che ha abbracciato la sua vita di attori itineranti in una compagnia teatrale itinerante. Sono i guitti, guidati dallo zio Benito. Ornella offre spunti molto elevati di riflessione e di controllo. Ma è pur sempre donna, soggetta alle sue emozioni che lei vive intensamente. Non è l’attricetta. E’ donna che si impone ed occupa la scena fino a dominarla.

3) E c’è Benito, il capo dei guitti, Benito, visto come capocomico detta così in modo sbrigativo, ma in realtà si tratta di una figura che imposta, stampa il programma artistico del gruppo e gli dà una fisionomia. “Noi siamo guitti”, non altro. E indica la strada. Sul palco si entra come maschera. Perché dietro la maschera c’è un soggetto che soggetto non è: è invece crisi del soggetto, crisi di identità, disorientamento; dietro la maschera c’è “Uno nessuno e centomila”, dice Pirandello, che alla crisi suggerisce un esito, una possibilità di vita autentica. Chi siano poi i guitti, questi “Guitti del Continente”, lo scoprirete leggendo. 
…Ci sono altre figure da contorno che seppur secondarie sono funzionali alla narrazione, a questa vita, a questa esistenza, perché il romanzo, questo romanzo è un’esistenza, perché prima di essere creato non c’era e ora, pubblicato, c’è, ed è una cosa in più che si aggiunge alle altre. Ora c’è il romanzo scritto da un autore.

4) E c’è l’autore, il direttore d’orchestra, il regista. Che tutto muove, organizza, anima, dà equilibrio alle parti, crea personaggi e li accompagna nella loro essenzialità dall’inizio e fin dove essi servono.
C’è un tempo storico nel quale si situa la storia raccontata – che sia vera o costruita in tutto od in parte non ha importanza – con stile e garbo distaccato, nel contesto e fuori di esso.
E’ una storia raccontata da un gentiluomo.

Se non lo avessi conosciuto personalmente, dal libro ne avrei comunque ricavato alcuni tratti essenziali del carattere: meticoloso, mente ordinata, senza dubbio corretto, onesto, logico nei suoi procedimenti e nelle sue argomentazioni. E’ un avvocato, che si fa scrittore e scrive cose logiche, cose oneste, così come esse sono.

La scrittura.
E’ della scrittura che parliamo. E’ del romanzo che parliamo.

Cos’è la scrittura?
L’autore l’ha già scritto: Scrivere serve a sconfiggere la morte. Una proposizione di Ennio Flaiano, autore esistenzialista sicuramente e già Casalaro indica una strada, forse la sua strada non so. Occorrerebbero altri libri per dargli un legame, una connotazione, inserirlo in un filone letterario, ammesso che lui, Antonio Casalaro, voglia iscriversi ad una corrente letteraria proprio quando non ve ne sono in giro. Forse è anche sconveniente. Chi direbbe oggi: io sono un esistenzialista? Evitavano tutti, o quasi, nel secolo scorso, dal sentirsi chiusi in un recinto letterario e filosofico.

Gli autori vogliono uscire dagli schemi nei quali i critici vorrebbero iscriverli, anche per comodità.
L’esistenza umana è un nucleo di riflessione, la sua condizione esistenziale. Occorrerebbero più testi che ci farebbero ragionare meglio. Li aspettiamo, le condizioni ci sono.

Perché scrivere. Per sconfiggere la morte, l’apatia, il dolce far nulla, approssimazione, freddezza, incuranza, distacco, il non essere, farsi influenzare dalle cose, farsi trascinare, essere gregari, vivere senza indirizzi di vita. Perdere l’indirizzo di casa. Non avere più una casa. E’ terribile.
Ma la letteratura è altro. E’ precisione non approssimazione, è vita e non morte, è adesione, è aver cura, dirigere e non farsi trascinare, è passione è amore è sentimento è creazione è logica è mito è memoria.

All’interno di tali condizioni anche emotive lo scrittore sceglie i propri modelli sintattici e stilistici.
Vedete.

Ennio Flaiano è un autore poco letto nei licei e nelle università. Andrebbe più letto. La cultura dominante, la cultura legata in qualche modo alla politica, favorisce autori legati a politica e partiti e tralascia chi invece si è dedicato ad altro. Veramente Flaiano era antiborghese, antifascista, anticomunista, anti progressista. Veramente non si lasciava ingabbiare facilmente o intruppare, sentiva invece dentro la sua solitudine esistenziale un senso di smarrimento e di dolore, di ferite psicologiche mai sanate. La sua opera fondamentale – ma Flaiano ha una produzione letteraria enorme, di racconti e soprattutto di sceneggiatura – “Tempo di uccidere” è un monumento alla cultura letteraria esistenzialista alla quale potrei anche accostare Casalaro. Ma subito mi ritraggo. Come ho appena detto, è troppo presto per rischiare un giudizio. E non voglio proprio impegnare il nome e la mia firma perché potrei venire smentito da sue nuove e successive opere.

Ciò che invece mi pare certa è la sua adesione a modelli e valori che la tradizione indica come possibilità – od urgenza – di venire rinnovati.

Cioè la restaurazione di modelli sintattici e stilistici di un passato riconoscibile, come se l’avvocato Casalaro – ora scrittore – volesse rinnovare la nostra memoria culturale nella contemporaneità, nel tempo che stiamo vivendo con le ansie, le paure, le indecisioni, assenze di progetti, di condivisioni, nella incapacità a riannodare gomitoli sciolti. Forse non è più possibile. Ma crederci è anche lo scopo delle letteratura che può, deve indicare una strada, una via d’uscita. Cioè riannodare pazientemente gomitoli sciolti.

Possiamo farlo. Spegniamo il telefonino, parliamo con le persone, con voce di contatto, umana. Non incontri virtuali ma incontri spaziali, nel territorio. Parlare, con contatto diretto.

La voce ha addirittura uno statuto superiore alla parola scritta. La voce funziona meglio quando vuoi raccontare un mito. E il mito è la nostra memoria culturale, è ciò da cui veniamo, le nostre radici e l’identità che intendiamo rinnovare.

Chi ama la mitologia ricorda che Orfeo entra nell’oltretomba, nell’Ade, e con la sua voce incanta gli dei degli inferi con lo scopo di liberare la sua Euridice dalla morte.

La voce ha uno statuto superiore alla scrittura. Che però rimane più precisa, più stabile, più duratura nel tempo.

La letteratura può fare molto, forse più della filosofia che già fa tantissimo per riportare l’uomo nella sua umanità. E ci sarebbe già riuscita se la tecnica e la razionalità che la governa non le opponessero ancor oggi forze ammaliatrici e falsi approdi. 

E’ un oggi difficile da decifrare perché instabile, in movimento, mutamenti improvvisi che assumono più forme, non riesci a fissarne una che già appare e se ne sviluppa un’altra.

Si sta sviluppando un tempo storico non riconoscibile. Non lo destrutturi perché non ha una sua struttura. Difficile anche per la letteratura cogliere i nessi logici nella contemporanea complessità. La complessità dell’oggi sfugge all’analisi. E’ fluida, è liquida, scorre, non ha corpo stabile. Un po’ come il cristianesimo fluido che aderisce al mondo perché rinuncia alla sua struttura, alla struttura del mondo che è il tutto, la natura. Se la alteri, ti si rivolge contro. Andare contro natura è non riconoscere la natura delle cose.

Casalaro preferisce raccontare un mondo con le sue luci e le sue ombre. In quel mondo viene raccontato che una donna tradita, una donna sedotta e abbandonata, impugna una pistola e uccide il seduttore. Lo racconta l’autore dei guitti, è accaduto a Rionero più volte negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Si diceva che le ragazze di Rionero avessero il grilletto facile.

Non ho memoria di femminicidi. Ho memoria di donne che hanno sparato e spesso ucciso uomini dai quali erano state disonorate. L’onore, il privilegio di essere donne, di sentirsi donne. E il coraggio di affrontare ogni conseguenza per legittimare il senso del sé, il senso di appartenenza. Seppur con esiti tragici. Ma la donna che è donna impone il rispetto. E non va disonorata.

Noi qui non invitiamo nessuno a imbracciare pistole e carabine. Proviamo a sottoporre ad analisi il fatto, come cioè la scrittura diventa fatto. E ne ricaviamo che la letteratura entra nella complessità riconoscibile perché è essa stessa complessità, perché è carica di significati, e li coglie tutti, ma proprio tutti. Il niente che serpeggia, il nichilismo che si è impadronito dell’essere che non è più.
C’è solo bisogno di rallentare, di non lasciarsi trascinare. C’è bisogno di rigenerarsi. Rallentare, un po’ di silenzio per pensare. Al senso delle cose, all’esistenza. La letteratura dà un suo piccolo contributo alla comprensione del presente. C’è bisogno di rallentare. Ma diciamo la verità: il contributo è notevole. C’è bisogno di trovare clienti, cioè. Di trovare lettori, ovviamente non come consumatori. Ciascuno di noi ha bisogno di essere riconosciuto. O almeno, è un auspicio.

E di scoprire un mondo di amicizie, di legami, di territorio, di affetti, di appartenenza. Di identità. E di sentimento. Che è uno degli scopi più necessari della letteratura. Legami non virtuali.

Il telefonino, il webinar, la videoconferenza, sono da considerarsi emergenze, buone per periodi eccezionali. La pandemia. I guasti del Corona-virus, oltre a quelli già noti per la salute e per l’economia, hanno pesato sulla formazione dei nostri studenti. Pensare di fare formazione a distanza in assenza di contatti umani può avvenire per un tempo ristretto e di emergenza, superata la quale, però, quel tempo va recuperato, spalmato secondo criteri didattici magari, ma va recuperato. C’è una cultura dell’ultimo trentennio che necessita di essere reinterpretata. Qualcuno deve pur cominciare a metterlo in questione. 

Giuseppe Lupo, autore appena sessantenne (insegna letteratura italiana contemporanea all’Università cattolica di Milano), nella sua opera pubblicata qualche mese fa “La modernità malintesa”, Marsilio Editori, propone agli intellettuali, a chi si occupa di filosofia e di arte nelle sue varie forme, di invertire la rotta.

“Far riemergere dal sottosuolo in cui è rimasta nascosta una controlettura della modernità, originale, alternativa, progettuale, che aspiri a modificare il mondo, a recidere il cordone ombelicale con il secolo terribile e maestoso di cui ci sentiamo ancora figli”.
Dobbiamo ancora fare i conti con il Novecento e le sue definizioni: secolo breve, secolo lungo, post Storia, modernità, postmoderno, contemporaneità…
Qualcosa mi dice che ci hanno teso una trappola, che si sia verificato uno sbandamento generale, casuale o voluto non saprei.

Finiti ed annientati i grandi racconti dell’Ottocento e del Novecento (ne cito alcuni: tardo illuminismo, idealismo, romanticismo, marxismo, positivismo, postpositivismo, verismo, esistenzialismo, filosofia della scienza, tecnica e razionalità, cristianesimo), cosa ci è rimasto? Nulla. Identità perduta e non più ritrovata. Ci sono rimasti i semi, dice il prof. Lupo, che hanno prodotto effetti che è bene sottoporre ad analisi. Effetti già da subito riconoscibili, aggiungo.

Forse e senza forse siamo caduti anche noi, cristiani, nella trappola nichilista: nel mondo, ma annientati dal mondo. E’ un capitolo ancora da scrivere. E bisognerà scriverlo.

Chi si rifugia nel passato scrivendo per vivere e sfuggire alla morte della propria identità fa un tuffo in apnea. Spinge in fuori l’aria lentamente, con misura, per stare giù il più a lungo possibile: vivere per pochi secondi tra la vita e la morte e scegliere la vita sconfiggendo la morte. La vita che prevale sulla morte, il progetto serio che prendi in mano consapevole e allontani, via da te, il nulla, il nichilismo. Ti riappropri della vita e dell’identità, divieni riconoscibile, non ci sono ombre; c’è l’appartenenza verso chi ti appartiene. E torni a vivere, libero, nella tua ritrovata libertà.

E’ la libertà che Ornella ha ritrovato, libera e sollevata da incubi e paure. La paura che anche alla figlia sarebbe toccato di essere sedotta e abbandonata da chi ha scelto una vita senza identità e senza un perché. Quella donna, Ornella, ha dato libertà a se stessa. E ha restituito alla figlia, vita, e libertà.
Non è forse questo il progetto di Antonio Casalaro? Poi mi direte voi, dopo averlo letto e dopo averlo giudicato.

Pasquale Tucciariello
www.tucciariello.it

 

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