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Libri

“VIVI DOPO LE LACRIME, FALSI MAI PIU’. RINASCETE TESTIMONI DELL’INVISIBILE”: Viaggio all’interno del libro:
“ADESSO PIU’ CHE MAI”
DI MASSIMILIANO ARENA
(Ed. TAU, Novembre 2020)

 

“Ci è sembrato opportuno parlarvi di due aspetti fondamentali dell’apostolato dei laici che nello spirito dei cristiani di questo tempo sono sbiaditi: l’importanza della testimonianza personale e l’unità dei vari testimoni del Vangelo tra loro e con i loro Vescovi. L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri è perché sono dei testimoni. Egli prova in effetti una istintiva avversione per tutto ciò che può apparire come inganno, facciata, compromesso. In questo contesto si comprende l’importanza di una vita che risuona veramente del Vangelo. […] In verità, l’uomo del ventesimo secolo aspira a questa pienezza di dialogo personale che la materia gli rifiuta. Occorrono oggi più che mai dei testimoni dell’invisibile. Gli uomini di questo tempo sono degli esseri fragili che conoscono facilmente l’insicurezza, la paura, l’angoscia. Tanti si chiedono se sono accettati da coloro che li circondano. I nostri fratelli umani hanno bisogno di incontrare altri fratelli che irradino la serenità, la gioia, la speranza, la carità, malgrado le prove e le contraddizioni che toccano anche loro. […] Le nuove generazioni (poi) hanno particolarmente sete di sincerità, di verità, di autenticità. Esse hanno orrore del fariseismo in tutte le sue forme. Si capisce perciò come esse si attacchino alla testimonianza di esistenze pienamente impegnate al servizio di Cristo. […] Ora ecco che nelle tenebre, colui che tenta di vivere il Vangelo, appare come colui che ha trovato un senso, una realizzazione alla sua vita, lontano da sistemi antropocentrici ed oppressivi. Questa testimonianza personale deve essere data da ogni battezzato, da ogni confermato, laico, religioso o prete. Ma i laici sono invitati a viverla in modo particolare, nel mondo, operando secondo la loro fede negli affari temporali delle loro famiglie, delle loro città, del mondo internazionale, per costruire insieme a tutti gli uomini, credenti o non credenti, un mondo più degno dei figli di Dio. […] Ora la Chiesa renderebbe sterile il Vangelo e se’ stessa se proclamasse solo un ideale astratto, per quanto ben presentato, senza che i laici concretizzassero questo ideale, come lievito nascosto nella pasta.”

Ho “spigolato” in uno dei passaggi fondamentali del discorso di Paolo VI, tenuto durante l’Udienza al Pontificio Consiglio per i Laici del 2 Ottobre 1974, finito poi nell’Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi e passato infine alla storia come una tra le esortazioni più belle che un Papa potesse lasciare in eredità ai fedeli laici nella società contemporanea, trovando questo passaggio degno di ciò di cui sto per parlarvi oggi. Vi presento un libro, un autore che mi sento di definire altresì un “testimone”.

Ed è stato proprio nel parlare di questo libro e della persona che lo ha scritto, della sua attività che è oggettivamente una bella testimonianza di fede e di vita, che la mia personale associazione tra lettura delle pagine, reminiscenza di questo passaggio dell’Esortazione Apostolica, conoscenza e operato di chi appunto ha scritto queste pagine, è stata per me un tutt’uno ed anzi una cosa più che naturale.

Ci sono due punti dell’Esortazione che mi hanno messo in connessione con l’essenza ultima di questo che è il terzo libro del prof. Massimiliano Arena: il primo è ovviamente il “succo” stesso, se così si può dire, del discorso di Paolo VI, ovvero l’appello direi quasi accorato circa il bisogno che la Chiesa ha, nella sua intrinseca trasformazione interiore, di ricevere forza nuova, speciale, ampia e rinvigorita da testimoni laici (testimoni, non maestri); il secondo è proprio questa bella coincidenza che trovo tra le righe dell’Esortazione e il titolo stesso del libro di cui sto per parlarvi. “Occorrono oggi più che mai testimoni dell’invisibile” afferma Paolo VI.

Testimoni dell’invisibile. Oggi più che mai. Testimoni laici. Adesso più che mai. Testimoni credibili dell’invisibile.
Massimiliano Arena, docente di Religione, scrittore, formatore, blogger, curatore su YouTube della rubrica quotidiana “Vangelo Social” (commento ai brani del Vangelo del giorno) responsabile della Pastorale Sociale per la Diocesi Vieste-Manfredonia-San Giovanni Rotondo ed appassionato divulgatore della Sacra Scrittura di cui da sempre è innamorato, intitola il suo terzo libro proprio in questo modo: “Adesso più che mai”.

Un titolo bello, eloquente, che ci rivolge un invito, una esortazione, uno sguardo di forza e di speranza per il futuro delle nostre Comunità Cristiane. Un futuro che deve essere prossimo e non lontano.

E’ una coincidenza non voluta questa del titolo, ma certamente spiritualmente molto affine ad un discorso, quello di Paolo VI, che ha inevitabilmente solcato i cuori e la mente dei credenti e, più in generale, l’animo di tutti quei cristiani appena un po' più consapevoli della necessità di un valido, personale eppure coerente operato in seno alla “laicità” della Chiesa negli ultimi decenni.

“Adesso più che mai” è un libro che ho avuto modo di leggere in anteprima rispetto alla pubblicazione avvenuta lo scorso Novembre 2020 ad opera dell’importante Casa Editrice TAU. Un testo che nasce sull’onda del primo periodo della Pandemia, un libro snello eppure ricco di contenuti critici puntuali; pagine che sono frutto di una capacità volta ad interrogare e ad interrogarsi sui meccanismi più profondi, sui “mattoni” stessi della Chiesa chiamati uomini, uomini che con le loro fragilità, mancanze, debolezze ma anche con la loro buona volontà, forza, consapevolezza e determinazione, possono di volta in volta contribuire a distruggere così come ad innalzare l’Edificio Chiesa, a renderlo splendido capolavoro di Comunione col Padre così come  negletta e disabitata Casa di Periferie spirituali, sociali, comunitarie.

Il libro, 157 pagine che si lasciano leggere tanto dai giovani quanto dagli adulti, tanto dagli addetti ai lavori come dai più “estranei” - se così si può dire - alle più strette dimensioni del vivere e della partecipazione alla vita cristiana, ha un sottotitolo forse ancora più eloquente del titolo stesso: “Riflessioni ad alta voce di un operatore pastorale per formarsi e riformare le Comunità nella post pandemia in linea col nuovo Direttorio per la Catechesi.”
Libro scritto durante la prima ondata Pandemica come dicevo, è libro solo apparentemente diretto a catechisti e ad operatori pastorali.

Massimiliano Arena ci parla di una realtà a tutto tondo, quella delle Comunità Cristiane che lui per primo ha vissuto e che vive. Da anni. Non si tratta però di dare ricette su una determinata realtà, di parlare “a suon di teorie” di “gruppi di persone”, di massimi sistemi o di un periodare astratto su cosa una parrocchia debba o non debba essere o fare.

Questo giovane autore, che vive di un amore vivo per le realtà comunitarie e parrocchiali, tanto da essere guida e orientatore di molti ragazzi in seno alla Pastorale Giovanile, ci parla per esperienza vissuta, profonda, dunque ci parla con cuore e per spirito di amore e di servizio alla Chiesa. Si ascoltano più volentieri i testimoni. Lui è uno di questi senza dubbio, nei fatti, in ciò che vivendo, semplicemente riesce a testimoniare.

Chi mi conosce sa di me una cosa: non prendo generalmente quasi mai in considerazione l’operato di gente che non segue due importanti direttive del fare nella vita: coerenza e cuore. Posso dire allora di aver sempre recensito, nelle pagine di questa rubrica, il lavoro artistico e culturale di persone che hanno dimostrato di vivere con estrema coerenza quello che ci regalano “teoricamente” nella parola, propaggine stessa di un’esistenza concepita come “piccola luce” e “piccolo dono”. Per la serie si fa quel che si può … ma sempre il meglio che si può.

Anche Massimiliano Arena entra per me a pieno titolo in questa categoria di persone. E specialmente, direi, in questo libro dove, mi pare, prima ancora del “consiglio per fare e per essere” (consiglio semplice, umile) c’è la vita stessa; e dove prima della teoria c’è la pratica vissuta a piene mani; così come prima del farsi divulgatore c’è un serio discepolato e una validissima testimonianza. Si tratta dunque di parole veramente credibili per chi legge, perché vissute direi “a pieno regime”. Il Prof. Arena ci parla col cuore ma - attenzione - anche ad alta voce, come in un dialogo voluto, cercato, creato anzitutto da profondi e personali interrogativi.

Dove stanno andando, dove si stanno dirigendo e dove quasi si stanno trascinando (così come sono divenute e come le vediamo) le nostre Comunità Cristiane? Quale valore può nello specifico avere un evento come la Pandemia nell’urgente svolta e nella ricostruzione di eventuali elementi negativi che le compongono? Le risposte - e cito la stessa introduzione dell’autore - “nascono dal cuore di un operatore pastorale” (cfr.pag 11) dunque da un moto di amore interiore, da uno slancio disinteressato che non dipinge (né tantomeno desidera farlo) di austero o di accademico il volto del testo. L’idea che in altri termini si sviluppa da una serie di conversazioni tenute nell’ambito di un corso on line svolto durante la Quarantena, è un moto del tutto naturale, semplice, immediato, nato e sviluppato in direzione di uno spirito non convenzionale, di pura conversazione: da un parlare cioè amichevole nell’alveo del “proporre insieme” perché insieme si è e si fa comunità e non ci sono cattedre ma esperienze condivise, non ci sono lezioni frontali ma un camminare vicini, non ci sono leaders ma guide e testimoni di esperienza con cui “essere” e divenire, fianco a fianco.

Sette capitoli, sette conversazioni ad alta voce, dicevo, e sette preghiere introduttive che ci introducono a domande che conducono a loro volta verso una pars destruens e una pars costruens e che cercano di dare poi le risposte più appropriate, risposte che non suonano mai come definitive ma come provvisorie ed incantevoli linee guida, ponti di affetto e speranza gettati verso nuovi probabili ed augurabili sentieri, dimensioni “alte ed altre” del vivere una Comunità.

Non ci sono ricette, dicevo sopra, e Arena non le propone. Alla base di tutto invece c’è un rispolverare semplice e schietto di dimensioni che abbiamo semplicemente dimenticato e che nella loro evidenza ci hanno fatto sbalorditivamente perdere la bussola, trasformando - come dice Papa Francesco - le nostre Comunità più in Associazioni o Onlus che in Dimore dove pulsa il Cuore di Cristo. Perché ancor più semplicemente la domanda è: in Chi crediamo? Perché lo facciamo? Chi mettiamo al centro? Chi eventualmente e paradossalmente abbiamo dimenticato?

Molto onestamente, anche dopo la lettura di questo libro, le nostre Comunità possono e devono arrivare a darsi una risposta senza mezzi termini, diretta, sincera ed estrema: se ho messo al centro Cristo, so dove vado e so cosa devo fare; se ho messo al centro l’uomo, molto probabilmente rischio di perdere o forse ho già perso la Strada. Ed è bello allora pensare che una Strada c’è, che non siamo un’aggregazione di persone a caso o “in fieri”, bensì una schiera di Discepoli già formati dal Battesimo che tutto fa e tutto suggerisce, un Popolo cui il Maestro ha già indicato una Via che con estremo “successo” ha portato i primi discepoli a moltiplicarsi come il pane e i pesci su quella collina di affamati della Parola e dello Spirito: da dodici a centoventi discepoli, da centoventi a tremila da tremila a cinquemila.

Le prime Comunità. Esempio e gioia, ritratto esatto degli Atti degli Apostoli (preso come testo di riferimento per la costruzione di queste pagine in dialogo) un insieme di persone di buona volontà che lo Spirito Santo vuol condurre in una “stanza al piano di superiore”, paradigmaticamente la stessa dell’Ultima Cena, dove si consumò il sacrificio dell’Amore, per una vista “dall’alto” sulle cose che Dio stesso ci chiama a fare nel suo nome al servizio dell’uomo. “Ma noi” scrive Arena “siamo abituati a fare le cose con il gusto dell’Alto? Al di sopra? Oppure le nostre cose e soprattutto la capacità di progettare, operare, risolvere i problemi è sempre impantanata in cose basse ed estremamente umane?” (cfr.pag 22)

La Pandemia, lungi dall’ essere allora occasione di abbattimento, di svilimento, è vista in queste pagine come un grande motore di rinascita, di rivoluzione, una vera e propria opportunità. Come dopo ogni guerra o catastrofe, la legge della storia ci impone di ricominciare, sempre, quasi da zero. E le Comunità hanno un estremo bisogno di questo risanamento, di questa ricostruzione, di una docile e dolce rivoluzione “a partire da zero”, o meglio direi da quei “tanti zeri” che molto spesso le hanno caratterizzate nell’andamento degli ultimi anni. Dall’alto del Vangelo quasi “sine glossa” ma proprio per questo seriamente vissuto, masticato, interiorizzato, ma anche dal basso della forza dell’essere insieme e dell’essere così umani, umani e perfettibili, fragili eppure ricchi di buona volontà e di amore, dobbiamo tutti - nessuno escluso - essere capaci di ritrovare entusiasmi che sconfiggano apatie ed abitudini, per poi diventare liberi di fondare – superando facili entusiasmi che spesso muoiono come fuochi di paglia-  quegli  stili, quegli atteggiamenti e quei metodi che siano credibilmente (ed incredibilmente) rivoluzionari. E le rivoluzioni si fanno non con le parole ma con i fatti, con gli esempi, con il vissuto di cui resta sempre e inevitabilmente, solida traccia e solida testimonianza. Un vissuto che non è mai protagonismo di un singolo o emersione di un leader, anche forzato, nelle comunità, bensì un cammino dove il leitmotiv è la parola insieme, o anche condivisione, crescita comune. Altrimenti detto, non ci chiameremmo Comunità e precisamente, appunto, Comunità Cristiane.

Cito testualmente l’autore: “In tempo di Covid-19 ce ne siamo accorti: la soluzione a molte povertà e mancanze è stata la capacità di sentirsi uniti, di fare condivisione, fare comunione, donare e donarsi. Una Comunità può avere mille risorse o essere una piccolissima realtà, ma la comunione sarà sempre presente, sarà sempre la soluzione che porterà alla guarigione di mille piaghe umane.” E allora “Mai fermarsi, mai piangersi addosso, ma capire i bisogni della realtà intorno e da lì partire. I bisogni, i problemi della realtà, non sono la zavorra che mi impedisce di essere come altri a cui anelo come modelli, ma sono l’occasione che mi spinge ad essere vero nella mia realtà, senza evasione, senza alienazione. Fedele al Vangelo, fedele all’uomo, fedele alla realtà.” (Cfr pag. 32-33)
E di esempi pratici di questa “rivoluzione insieme”, di questo sguardo nuovo “altro e alto”, di esempi di cammino in condivisione, di crescita nell’unità per la Verità, questo “testo in dialogo” è veramente pieno.

E così l’autore ci accompagna in una breve, agile ma davvero precisa analisi su cosa le nostre comunità sono diventate oggi e su cosa hanno dimenticato ormai di essere in termini di forza e di potenzialità male espresse o addirittura, in molti casi, inespresse. Ed è uno schietto mettere a nudo, senza pregiudizio e con coraggio, di fronte allo specchio della verità, tutto ciò che siamo diventati e il tutto il nostro contrario che potenzialmente, nell’enorme bellezza di un fascino accantonato, potrebbe attenderci dietro la frontiera dell’impegno insieme. E così, del tutto francamente, la Comunità si svela agli occhi di una breve ma intensa analisi oggettiva e senza veli, come un insieme di caratteristiche abbastanza negative ma che può arrivare (potenza di una Buona Notizia) ad essere l’esatto suo contrario se, insieme, da aggregato consunto di smarriti e persi nelle proprie soggettive manie di culto e di oggettive fragilità, ci si apre all’entusiasmo dei Primi Discepoli per riprendere la Strada.

Spesso culla e cultrice di maleligue, la Comunità può e deve diventare fautrice di buone notizie su tutto e su tutti, perché aperta con animo concorde ad un confronto franco e pieno di perdono, pieno di tenerezza e di bellezza verso gli altri. Contenitori di Malizia, possiamo trasformarci in tempio di compassione; propagatori della Frode, alla scuola del Vangelo degli entusiasmi coltivati con purezza e slancio obbiettivo, diventiamo portatori di necessarie e non sbandierate Umiltà, sempre capaci di benedire. E il testo va ancora più nel concreto: se la Comunità non è ancora una scuola di reciproco ascolto, di condivisione di domande e risposte, lo diventi; se non è scuola del vedere e del contemplare l’altro come dono di reciproca meraviglia, lo diventi. Sono i laici a fare la Comunità: siamo pronti a riscoprirci NOI, siamo davvero Koinonìa, cioè Comunione, come lo è lo stesso Cristo Eucaristico che contempliamo in Adorazione?

Per fare tutto ciò occorre il coraggio dello svecchiamento, della pratica e non della teoria astratta. E la pratica di un fare immediato, senza troppi giri di parole, la si trova provvidenzialmente proprio quando si è alle strette: la Pandemia ci ha suggerito cioè lo stile dell’immediatezza dell’esserci, senza troppi archetipi, sofismi, fisime, schemi, preconcetti o paure: si deve essere nell’immediato dell’aiuto, della cooperazione, della formazione, delle decisioni, del fare, ma con uno sguardo più forte e più alto delle nostre sole fallibili umanità. Ritornare alle origini del Vangelo si può. Perché siamo luoghi di anticipo della Resurrezione, non statici e abituati, non luoghi di morte tradizioni, non ripetizioni del “si è sempre fatto così” bensì ascoltatori dell’originalità cristocentrica che è sempre nuova perché mai soggetta al cambiamento eppure dinamica nel costruire ed anticipare il tempo, i tempi. ( cfr pag 86)

I parroci sono il sale della comunità. Essi non sono però da soli la comunità. Arena cita le loro stanchezze, le demotivazioni che spesso accompagnano molti validi spiriti. Il parroco è certamente specchio della propria Comunità e anche viceversa, ma una Comunità che funziona non può né scaricare le proprie responsabilità su chi la “presiede” né tantomeno può regolamentarsi in quell’autoreferenzialità che non si addice ad un autentico spirito di comunione. La relazione con Cristo “primo amore” (cfr pag 90) unico vero referente di ogni Comunità, fondi invece ogni Comunità con la sua specifica missione e non fondi più solo se’ stessa per una sola vuota immagine “di ritorno” che, alla lunga, non porta a seminare alcun frutto. Se vivo solo un vuoto appartenere, se fondo l’immagine del mio essere comunità senza legarmi ad una radice autentica di carità e di giustizia - e questo l’autore lo spiega senza mezzi termini- sono quello che si può definire un seminatore, magari anche inconsapevole, di zizzania.

Quante azioni - e il testo si addentra sempre più nello specifico - votate al bene che in sé sono anche buone, finiscono poi nell’alveo di un “quasi esibizionismo”? Quanti fatti pedagogicamente, umanamente, spiritualmente, “sbagliati” in seno a comportamenti di catechisti, operatori della Caritas, gruppi afferenti alle nostre parrocchie? Ragioniamo spesso per “non perdere i ragazzi” per portare avanti con un numero soddisfacente quel gruppo di preghiera, o perché se aiuto chi ha bisogno ho la “certezza matematica” che poi me lo ritrovo a messa … c’è molta, troppa umanità. Cristo la riconosce e la perdona sempre,  Egli non condanna le nostre debolezze, gli errori fatti anche in buona fede: ma di una cosa lo Spirito che ci è stato donato ci rende consapevoli e cioè che tutto ciò che è malsano non porta frutto, perché lo Spirito prima o poi pretende la Verità, pronto così com’è sempre a farci nuovi, a donare “quella pietruzza bianca su cui sarà scritto il nome nuovo” pietra che è poi - e cito nuovamente il testo - “una meravigliosa espressione ad indicare che chi vivrà questa radicalità e la costruirà intorno a sé, sarà rivestito di nuova dignità, di un nome nuovo indice di una storia nuova, novità continua, bella, capace di generare bellezze intorno a sé.” (cfr pag 97)

La scrittura di Arena schietta, determinata, profonda e chiara, evita infine di girarci intorno e citando la sacra scrittura con il testo di Apocalisse 3, 1-6 (messaggio alla Chiesa di Sardi) si chiede: “come facciamo ad essere annunciatori di vita e di speranza se puzziamo di morte, se siamo come morti?” ( cfr pag 101) I morti non possono annunciare la vita, a patto che non dimorino nella Resurrezione; non posso cioè annunciare cose nuove se non divento quella “pietra viva”, se non sono cioè quella “piccola pietra d’angolo” magari scartata dal costruttore nell’edificazione proprio attraverso la sofferenza, attraverso il martirio del cambiamento (e chi annuncia cose nuove, chi è capace di mettere sottosopra una Comunità per sollevarla da non corrette abitudini ed innalzarla verso il “nuovo” del proprio potenziale, spesso deve sopportare la stigmatizzazione, la sofferenza e la messa al bando dai forieri del “si è fatto sempre così, non dare fastidio”). In altre parole, semplicissime parole, se non cambio non posso portare il cambiamento. Se non muoio al vecchio non posso rinascere al nuovo. Resterò nascosto in un pozzo, acqua stagnante, e non mi trasformerò in quella fontana vivace che è l’idea sempre nuova dello Spirito, il fine ultimo di una Comunità che per definizione è il centro del “vivere la speranza” e non la sua periferia.

La tristezza di un “pozzo nascosto” (le nostre potenzialità comunitarie inespresse o non volute esprimere) risiede esattamente nel fatto che non ha tirato fuori tutta la sua fecondità, tutta la sua potenzialità, tutta la sua visibilità. Il pozzo rimane, appunto, nascosto. C’è un terreno intorno a quel pozzo che è il mondo e che, ormai stanco e arido, attende di essere irrigato da acque di ogni sorta, pur di non morire. E mentre quel pozzo (la nostra Comunità) perde la sua natura, la sua profondità, la sua struttura e tutta la sua bellezza, la terra intorno si spacca e reclama sete. Ed è veramente triste non capire quanto quel pozzo sia invece importante agli occhi di chi lo ha pensato, costruito, progettato … agli occhi dell’Eterno. Siamo forse come tante Samaritane senza speranza che al pozzo di Sicar attendono promesse ma non vedono davanti a sé il Cristo. Fortunatamente poi se ne accorgono di Chi hanno davanti (quel famoso “Chi annunciamo” e “Chi crediamo”) e da quell’Acqua, dai vasi comunicanti della Vita (cioè da Cristo alle Comunità e dalle Comunità a Cristo) si prende poi da bere per togliere ma al tempo stesso per dare la vera sete (crescita autentica della Comunità). Sete dell’annunciare, ma prima ancora sete del capire perché si annuncia, convinti che l’annuncio non sia solo “pubblicità”, personalismo, luce vuota e vana, esibizionismo. Sete non di accidia ma di metodo, giorno dopo giorno. Sete non di mondanità ma di semplice pianificazione al meglio e per il meglio. Sete non di vanagloria ma di voglia di essere uno in tutti e tutti in Uno.

Perché il Tempo, come dice Papa Francesco nella Evangelii Gaudium che Arena cita nell’ultimo capitolo del testo, sia superiore allo Spazio (non vedremo oggi i risultati del nostro buon operato, li vedremo forse domani, ma intanto iniziamo) perché l’Unità prevalga sul conflitto (cioè anche quando sono in inevitabile conflitto con l’altro devo guardare al fine ultimo che è la nostra unità) perché la realtà sia superiore all’idea (i problemi e le loro soluzioni prevalgano sull’attaccamento ad inutili orpelli, riti, tradizioni) perché il Tutto sia superiore alla parte (la logica del Noi prevalga su quella dell’Io).

Adesso più che mai siamo gli eredi di una sfida. Non possiamo più sottrarci. Adesso più che mai la Pandemia non ci chiama a chiuderci e ripiegarci in noi stessi, ma a gridare l’Annuncio e farlo dai tetti. Gridare dunque di poter essere ed essere non uno ma un Noi. Adesso più che mai il cristiano impari a prendere coscienza che per ricostruire se’ stesso e una Comunità egli per primo deve essere testimone di un meraviglioso “dare fastidio”. Anzitutto a sé stesso con l’annuncio alla propria anima che è possibile risorgere, anzi che la Resurrezione è vera e non è una favola, che la Speranza è vera e non è edulcorata e che pertanto occorre mettere solo tanto e tanto cuore “la più grande competenza che manca” (cfr pag 36) affinché “Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e le maldicenze” (1 Pt, 1-2) deposte cioè “esattamente come il Cristo sulla Croce” ogni regalità e ogni falso manto cattedratico, siamo pronti a cambiare pagina per imboccare nuove direzioni, nuove dignità, nuove storie di conversione e nuovi cammini di ordinaria straordinarietà.

Per essere vivi dopo le lacrime, quelle personali, quelle sociali, quelle di una Pandemia. Per estirpare l’incoerenza che ammazza gli animi e porta alla solitudine. Per morire ad ogni sfruttamento relazionale, pubblico o privato. Per gridare “chi sei, smascherati, se vivi dietro le quinte, nell’ombra, nell’assenza di luce.” Per svelare - nello stile della pace e della concordia e non certo nei venti blasfemi della “guerra” – gli insospettabili falsi profeti, gli immancabili annunciatori di sventura, il narcisismo di false vesti sacerdotali e tutti gli inutili orpelli da deprezzato “maestro”. A colmare le discrepanze e l’incomunicabilità che uccidono. Per esprimere il Dono, unico silenzioso balsamo, unica insostituibile medicina che trasforma le ferite in feritoie. Perché ogni seme di vita, anche il più disperatamente spento, rinasca, adesso più che mai, dimentico di ciò che è stato.

Angela De Nicola
Centro Studi Leone XIII

 

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