BLog 2010-2020 - pagina 2
|
Grazie direttore Manfredelli, per avermi fatto visitare e conoscere un luogo della terra comune, per un territorio animato e sapientemente organizzato, per aver presentato il mio racconto su Crocco "Una messa per Carmine". Il Parco della Grancia diventi più ancora ritrovo del popolo lucano e meridionale rinnovando alla memoria i fasti e i nefasti della storia dei quali ne andiamo fieri (dalla straordinaria potenza della Repubblica marinara di Amalfi, al saggio e potente Federico II con i suoi due castelli di Lagopesole e di Melfi, ai Vespri siciliani, al Regno delle due Sicilie con la saggia e cristiana amministrazione della dinastia borbonica, all'apostolo del mezzogiorno Giustino Fortunato e la sua casa palazziata di Rionero in Vulture) e rattristati insieme (l'occupazione selvaggia delle terre del sud ad opera dei piemontesi e dei loro alleati, i fenomeni di inquinamento del nostro territorio). Tornando alla memoria ricostruiamola introducendo verità storiche al posto delle menzogne. C'è una grande menzogna che ancora resiste nelle pagine di storia, quella retorica risorgimentale inquietante che ancora racconta come brigantaggio una narrazione che invece fu la ribellione del popolo lucano e meridionale all'aggressione di Garibaldi, di Cavour, di Vittorio Emanuele II con la complicità interessata degli inglesi. Lo straordinario ed immenso palcoscenico del Parco della Grancia diventi vetrina, delle verità storiche, dei prodotti e delle eccellenze del territorio, di nuove possibilità di sviluppo a vantaggio del popolo meridionale e dell'Italia intera. Grazie.
Pasquale Tucciariello - coordinatore Centro Studi Leone XI
|
Caro lettore, cara lettrice,
ci tengo molto a questa storia su Crocco. Non è questione di riabilitazione, non voglio farne un eroe, forse non ne sono ancora pronto, tanta è l'infarinatura ideologico-culturale nella quale anch'io per decenni sono stato coperto e plasmato da certa retorica risorgimentale.
Attraverso il racconto la storia può risultare gradevole, può aiutare la conoscenza di un fatto dai lati ancora ambigui. Del resto, la storia è narrazione, sicuramente dei fatti.
Platone racconta la sua filosofia attraverso immagini formidabili, il mito. Propone il concetto di conoscenza e di educazione col mito della caverna. Il filosofo è lo schiavo in fondo a una caverna costretto, perché incatenato, a guardare una sola verità. Ma quando spezza la catena ed esce dalla caverna semibuia vede un'altra realtà, una nuova verità. Torna nella caverna per raccontare la verità. E non creduto rischia perfino di morire (Socrate difatti ne morirà). Ma è quella la sua missione, la responsabilità di fare educazione. Alla verità. I miti facilitano la comprensione. I racconti dei nonni pure, introducendo elementi di verità.
La storia si fa con i documenti, certo. Ma quando vengono trovati solo alcuni documenti scritti perché altri sono stati negati dalla dittatura del tempo (la legge Pica, lo stato d'assedio), puoi fare storia solo con quelli? Ci sono i racconti. E cosa sono i racconti dei nonni, che hanno raccontato ciò che hanno veduto non certo per ottenerne vantaggi economici? Quei racconti sostituiscono quei documenti mancanti. Sono i racconti del popolo, di quel popolo che è stato vittima prima dei Borbone poi dei Piemontesi. Sono i racconti del nostro popolo, che di Crocco dice che fu uno che si è ribellato, un ribelle dunque, e quel movimento era ribellione. E così mio nonno mi raccontava ciò che due uomini di Crocco in America gli avevano raccontato, la nonna di Michele Placido gli aveva raccontato che Crocco era uno che si è ribellato mostrando per lui ammirazione, il nonno di Donato Santoro (Youtube, Crocco Ribelle), figlio della staffetta di Crocco, ha raccontato anche altro.
Quei nonni sono “persone informate dei fatti”, meritano di comparire all'interno di un processo. A fianco ai documenti processuali che testimoniano gli omicidi di Crocco (circa 70 per sua stessa ammissione) ed altre testimonianze comparse al processo, abbiamo il dovere di aggiungere altri soggetti, altre annotazioni, quelle del popolo, quelle negate dai vincitori. E anche con quelle, io, insegnante di storia per lungo tempo, assolvo Crocco, lo riabilito, come anche altri studiosi hanno fatto.
Lo assolvo perché Crocco fu vittima di prepotenze ai danni della madre e ai danni del padre.
Per aver vendicato l’onore della sorella.
Per aver tentato di liberare il popolo meridionale unendosi a Garibaldi che credeva liberatore.
Per essere stato perseguitato da notabili del posto che lo volevano di nuovo in prigione.
Per il coraggio mostrato reagendo, dileguandosi nei boschi, aggregando altri uomini.
Per la capacità di porsi al comando di 100, 1000, 2000 uomini con cavalli ed armi di fortuna.
Per aver fronteggiato dal basso, come popolo, l’aggressione di 120mila soldati piemontesi.
Per avere difeso il territorio ed il suo popolo dall’occupazione selvaggia delle terre del Sud.
Per aver rifiutato persino l’appoggio del Borbone, non assoggettandosi al gen. Borjes.
Per aver combattuto per circa 4 anni, spesso vincendo, contro l’esercito cosiddetto italiano.
Per essere riuscito a sfuggire ad agguati, accerchiamenti, uscendone illeso.
Per aver saputo sciogliere il suo esercito di disperati, consigliando di disperdersi.
Per aver saputo vivere la sua condizione di carcerato per 40 anni con esemplare dignità.
Per aver saputo scrivere un’autobiografia straordinariamente bella, da uomo libero. Da ribelle.
Se fossi giudice pubblico, riconosciuto tale, lo assolverei, ordinando ogni conseguenza di legge.
Ma sono insegnante e mi occupo, ora, di storia. Perciò posso solo indicare, proporre e non disporre.
Caro lettore, cara lettrice. Se anche tu condividi questa mia analisi, fa’ che ogni strada della tua città non venga più offesa col nome di assassini accertati tali. Si cominci con Cialdini, come ha fatto la Città di Napoli. Poi con Bixio. Ed a seguire altri nomi di assassini accertati.
Rionero, Giugno 2017 Pasquale Tucciariello
|
“Forse io so al meglio perché solo l’uomo ride:
egli solo soffre così profondamente da doversi
inventare il riso.
L’animale più infelice e malinconico è, quale
Meschinità, il più allegro.”
(Nietzsche, la Volontà di potenza)
È una bella giornata di primavera, l’aria è mite e tersa. Dal mare una gradevole brezza scompiglia il ciuffo di Giovannino che, seduto su una panchina, sta aspettando l’amico Franco sfogliando il vocabolario del dialetto napoletano appena comprato. Eccezionalmente non c’è molto traffico in piazza Plebiscito. Quando una voce profonda e un po’ roca lo induce ad alzare lo sguardo e il ragazzo nota poco lontano la figura inconfondibile di Totò con il bastone e il cappello.
Giovannino: - Oh! Principe, che piacere vederla, ma come, alla sua età scendere a piedi in piazza!
Totò: - Eh, giovanotto, come si permette lei, alla mia età. Piuttosto mi faccia sedere per una breve sosta.
G. - Principe non si offenda, non volevo….
T. - Deve sapere, caro lei, che io in genere amo passeggiare tra i vicoli di Rione Sanità dove sono nato, ma ogni tanto, e quando la giornata serena me lo permette, mi spingo fino in piazza per il bisogno di aggiornarmi e adeguarmi ai tempi. Vedo che negli ultimi anni la piazza è cambiata: la metropolitana…. Eh, molti sostengono di cambiare le cose e di migliorarle in nome di una velocità effimera. E i più ci credono fermamente. Beati loro. Senza parlare poi di quei meccanismi tecnologici, pazzielle che, inventati oggi, sono già vecchi domani.
G. - È la modernità Principe. Lei deve capire….
T. - Dacchè. La gente corre, corre frenetica. Ogni tanto si può pure fermare a pensare. Sembra continuamente in lotta con qualcuno. Con chi? Con la vita? E nessuno più ti ascolta, caro giovanotto.
G. - Principe ha saputo che qui al porto sono sbarcati 700 immigrati giunti da alcuni paesi dell’Africa?
T. - Eh, non sono molto addentrato nel fenomeno, veramente. Mi dicono che fuggono dalla guerra e dalla miseria. La guerra. La chiamano intervento di pace. SSS… La guerra è una tragedia, caro lei. E la fame è fame a qualsiasi latitudine e in ogni epoca passata e futura. È comprensibile che i miserabili fuggono.
Dopo una pausa di silenzio, quasi per prendere fiato a seguito di una indignazione malcelata, aggiunge: - Ci sono poi altri tipi di appetiti in nome dei quali si commettono delitti o si ricorre alla corruzione sfrenata di cui molti non conoscono sazietà.
G. - Scusate Principe. Non ho capito. La guerra, la fame degli immigrati va bene. Cioè va male. Ma questi appetiti a chi si riferisce? Ai suoi caporali forse?
T. - Proprio così. Ai potenti che indossano la maschera, e io di maschera me ne intendo, che con la scusa di servire il popolo si dedicano invece in tutti i modi a sopraffarlo. Senza etica e senza vergogna. Ma vuole sapere come la penso?
Giovannino ascolta con attenzione. - Dica pure.
T. - Vede, amico mio, in fondo costoro, con le loro sfrenate ambizioni, non sono capaci di godersi la vita. Con le loro trame tessono la tela solo per il potere. Ma non si prospera con il maltolto. E allora prendiamo la vita con filosofia.
Giovannino lo guarda perplesso, teme di contraddirlo. – Principe, concordo con lei. Però bisogna opporsi ai soprusi reiterati, alla corruzione prima che questi diventino tirannia. Come si dice ‘prevenire è meglio che curare’.
T. - Senta, giovanotto, lei pensa troppo… Per evitarla, la tirannia, tutti i ribelli, i geni, gli intellettuali, gli artisti, insomma quelli che hanno veramente qualcosa di importante da dire, dovrebbero riunirsi e dare forma a un autentico sistema di buon governo. Un governo che ascolti le voci della gente e che invece di gingillarsi in parole vuote, si applichi a migliorare la sua (della gente) condizione invece di gabbarla. A me pare che pochi, qui a Napoli, abbiano alzato la testa pronti a liberarsi dai soprusi e dalla miseria.
G. - Già. Il Buon Governo. Mi ricorda a Siena l’affresco di Ambrogio Lorenzetti contrapposto al Cattivo Governo.
T. - Per questo motivo, cioè per il cattivo Governo, sono spesso malinconico e diffidente. E poi sa che le dico?
G. - Eh! Dica dica.
T. - Diciamo la verità. Prima o poi le dittature sono destinate a cadere. Perciò consoliamoci con la derisione sottile e con lo scherno del potere.
G. - Ho capito….
T. - Oibò, mi compiaccio.
G. - Lei pensa che il male di vivere si cura con l’ironia facendosi beffe e irridendo lo strapotere e l’egoismo esasperato dei potenti. Ricorrendo alla fantasia e all’immaginazione per non soccombere alle asprezze della vita e alla paura.
Dopo una breve pausa, Totò con la mano dà una pacca sulla spalla sinistra di Giovannino e, con tono triste misto a dolcezza come conforto anche a se stesso, dice: - E si ricordi giovanotto che, nonostante tutto, nel futuro bisogna credere perforza.
Così parla quando i clacson assordanti del traffico, fattosi ormai ingorgo, attirano l’attenzione di Giovannino. Un passante frettoloso rischia di essere investito. Il ragazzo torna a rivolgere lo sguardo al suo interlocutore. Ma nel frattempo Totò è scomparso.
“Che personaggio fantastico” pensa fra sé. “Irradia simpatia e ammirazione per quella risata che lui interpreta come una forma di libertà e di ribellione.”
________________________________________________________________
₁ Cinquant’anni fa moriva Totò, un grande della comicità italiana. In vita non molto apprezzato dalla critica. Fu quel genio di Pasolini a riconoscere in questo buffone serissimo la maschera perfetta dei grandi attori della commedia dell’arte e a volerlo nel film “Uccellacci e uccellini”.
A dire della figlia e di coloro che hanno lavorato con lui, Totò non improvvisava, detestava i dilettanti. Anzi studiava bene la parte, le movenze del corpo allo specchio per far capire che il personaggio non è la persona ma il suo doppio. Una volta disse: - In arte sono Totò, a casa in privato, depongo la maschera e sono Antonio De Curtis.
Totò rappresenta il mondo di Napoli con i suoi personaggi “ ricchi di guai, di beffe subite, di appetiti arretrati.” Che lui ha trasformato in una metafora della condizione umana. Ognuno ci trova qualcosa di sé . Senza nulla a pretendere.
₂ Giovannino è un giovane lucano studente a Milano non molto adattato alla megalopoli milanese. Ogni qualvolta rientra al suo paese per le vacanze, fa una sosta di qualche giorno a Napoli presso Franco, un amico d’infanzia studente nella città partenopea, per poi ritornare insieme a casa e unirsi alle rispettive famiglie. Così Giovannino ha iniziato a visitare ed apprezzare le bellezze della città: le sue chiese e i suoi palazzi che ospitano sculture e opere pittoriche. I musei, le gallerie nazionali, Capodimonte e la Certosa di S. Martino. Il parco di Posillipo e il belvedere dallo scenario incomparabile. È tutto un incantamento che induce Giovannino a soggiornare volentieri per qualche giorno a Napoli, ammirando anche dei napoletani la vivacità e la comunicabilità.
Sin da adolescente il ragazzo è un grande estimatore di Totò. Lo aveva conosciuto attraverso i suoi film e nella sua stanzetta conserva, ben visibili alla parete, due immagini in bianco e nero di Totò ritratto con la faccia asimmetrica e stralunata in una cornice nera. Le aveva acquistate in un mercatino di Napoli.
È affascinato dalle sue battute, lo storpiamento di parole, il non sense (badi come parli), le allusioni politiche (e poi dici che uno si butta a sinistra, … Addavenì…, a proposito di politica: non si può mangiare qualcosa), i riferimenti sessuali (sono a sua completa disposizione: corpo, anima e frattaglie). Quello sbeffeggiare la morte (se ne vanno sempre i migliori. Cosa ci vuol fare: oggi è toccato a lui, domani toccherà a lei). Tutte allusioni che mettono di buon umore Giovannino.
Graziella Placido
|
Pasquale Tucciariello, ingegno multiforme e dalla intensa e varia attività, giornalista, docente, scrittore, storico, continua instancabile a dare un pregevole contributo alla vita culturale della nostra cittadina. Delusioni, molte. Successi, pochi. Ma lui non demorde. “Fluctuat nec mergitur” dicono i latini. Naviga tra le onde ma non affonda. Da qualche anno, per fuggire le asprezze del vivere, trascorre gran parte della giornata nel suo “buen retiro” in quel di Boccadoro di Atella, un terreno della nonna paterna, una casetta, il suo pensatoio. Probabilmente lì ha maturato la sua ultima fatica: una raccolta di racconti prediligendo una forma narrativa, il racconto appunto, che ha incontrato subito il mio favore. Anche per la brevità e lo stile linguistico snello, senza fronzoli, semplice e pur curato nella sua levità. Dovrebbe interessare soprattutto i giovani lettori che, avvezzi al digitale e inconsapevoli delle conseguenze alienanti dell’abuso di tali mezzi comunicativi, scarseggiano. E a nulla vale la pubblicità progresso “più libri, più liberi”.
“Una messa per Carmine” (Crocco) fa parte della raccolta Racconti. Il brigante – non chiamatelo brigante avverte Tucciariello - durante la guerra del brigantaggio che si combatté in Italia meridionale per più di quattro anni a partire dal 1860, a capo di circa 2.000 uomini, ha inferto duri colpi a metà dell’esercito piemontese dislocato nel sud per reprimere con ferocia il fenomeno. Non è il caso di soffermarsi su un fenomeno alquanto complesso come il brigantaggio che ebbe varie fasi, né sulle tesi degli storici che si dividono tra coloro che lo ritengono un fenomeno di delinquenza e di anarchia e chi lo ritiene un fenomeno sociale che coinvolse una massa di contadini per lungo tempo sfruttati ed affamati da una incurante classe politica. Vale al riguardo la testimonianza del Nisco – un agente inviato nel Mezzogiorno con incarichi esplorativi – che così scrive a Cavour nel dicembre 1860 “La miseria è spaventevole; in molti luoghi i contadini hanno gridato Francesco II e, arrestati, dissero che avrebbero gridato anche il diavolo purché gli desse pane“. Non lotta politica, dunque, quella di Crocco e dei suoi contadini di cui – il ribelle - era diventato il simbolo delle loro aspirazioni frustate e il vendicatore dei torti da loro subiti.
Il racconto: “Una messa per Carmine”. Mentre lo leggevo mi domandavo se la vena storica di Tucciariello sovrasta quella narrativa o viceversa. Tucciariello è prevalentemente uno scrittore non perché non studia con rigore i documenti storici (ha insegnato storia e filosofia al liceo classico) ma la sua profonda sensibilità gli impedisce di mantenersi estraneo ai personaggi di cui sa descrivere l’aspetto umano in tutti i suoi risvolti e la gamma dei loro sentimenti. Già il titolo: Una messa per Carmine fa presagire questo approccio.
A Tucciariello non interessa il generale Crocco, le sue notevoli doti di strategia militare ma la sua vicenda umana. Il ribelle non è più solo l’assassino, il ladro, l’uomo della rapina ma piuttosto il combattente che ha coraggio e forza sufficiente per ottenere per sé e per gli altri quella giustizia che la legge non riesce a dare.
Sin dall’esordio il coprotagonista del racconto, Carmine Labella (nonno dell’autore), riferendosi a Crocco, dice ”era un uomo”. E ancora quando il ribelle rivendica l’onore della sorella leggiamo ”era un uomo, Carmine”. Certo l’autore mette in conto i delitti di Crocco verso il quale non si mostra assolutorio (i piemontesi hanno fatto di peggio, e li chiamiamo patrioti). Ma soprusi, violenze, sopraffazioni, ingiustizie subite, la follia della madre, i tradimenti: quanta tolleranza è contenibile in un essere umano in carne ed ossa? E per di più in un giovane che, per età e condizioni, non può accettare l’immutabilità della vita?
La notizia della morte di Borjes – il valoroso comandante inviato nel sud dai Borboni di Spagna ad unirsi alle bande di Crocco per proclamare la restaurazione a Napoli, accordo poi fallito - turba il ribelle. Così Tucciariello “….senza aggiungere parola (Crocco) si era allontanato tra i boschi e lì rimasto solitario per qualche giorno, un modo forse di vivere la scomparsa di una persona , addirittura un lutto, riconoscere un ruolo, avere rispetto, pensarlo uomo coraggioso, soldato leale. E tale era anche Carmine …….. Più spontaneo (di Borjes), più aggressivo, più audace, più astuto, più sprezzante della vita, più vendicativo, senza un progetto definito, senza una politica, ……senza un futuro”. E Crocco ne è cosciente. Fallita la presa di Potenza “il grande Crocco – continua Tucciariello - riunisce i suoi uomini come solo gli uomini grandi sanno fare. Ordinò di sciogliersi, di fuggire altrove, lontano, a Napoli, in Spagna, in America. Li salutò uno per uno, stringendoli al petto uno per uno. Disse: ci rivedremo tutti insieme davanti alla Madonna del Carmine per chiedere perdono delle nostre colpe.”
Ecco il filo conduttore che percorre tutto il racconto: l’umanità dell’uomo Crocco. “Umano troppo umano” direbbe Nietzsche. E Tucciariello scruta, scandaglia in profondità l’animo del suo personaggio e, come il palombaro, riporta alla luce la perla, quel pizzico di divino – oso dire – che c’è nel cantuccio di ognuno di noi. Anche nel più feroce assassino. Per questo vale bene una Messa per Carmine. Per questo “non chiamatelo brigante, ma ribelle” ripete lo scrittore e lo storico.
Con questo racconto Tucciariello – a mio avviso - opera una riconciliazione tra il ribelle, l’uomo con tutto il suo peso di sofferenza, e la memoria carica di storia e di sconvolgimenti. Memoria ancora oggi rimossa dalla coscienza di molti per essere, il personaggio e lo stesso fenomeno del brigantaggio, ritenuti una vergogna.
Non mancano nel racconto, poi, altri elementi degni di segnalazione: il senso del mistero che emana un certo fascino. Quello no. Non va investigato altrimenti non è più mistero. E i segreti. “Per gli uomini veri i segreti sono segreti da custodire fino alla tomba”. È il fascino del non detto che è meglio custodire nello scrigno del nostro cuore. Anche Oriana Fallaci, anche lei indomita e ribelle, appunto come Pasquale, in “Penelope alla guerra”, sua prima opera narrativa, nel dialogo fra Francesco e Giovanna - due ex amanti – fa dire a Francesco: “Ah, la tua maledetta ossessione di voler chiarire ad ogni costo ogni cosa! La vita è già dura senza chiarezza: figuriamoci con la chiarezza”. E alla donna che intende impostare un rapporto chiaro basato sulla perfezione, l’uomo chiosa: “La perfezione non esiste Giovanna e quando esiste, è irritante.” Così la Fallaci. E noi, a proposito di Crocco, osserviamo: la santità non esiste. Non è nella natura umana. Perché quando è troppo è troppo. Perciò non chiamatelo brigante ma ribelle, ripete l’autore. E poi il vento.
Il racconto si conclude con l’immagine del vento. Un elemento che ricorre in altri racconti di Tucciariello: “quel venticello leggero leggero in Re minore che fischia accompagnando le parole, spingendole tra i boschi del Vulture e la Valle di Vitalba che fa compagnia al solitario Pasqualotto”. Il vento: metafora delle forze dello Spirito che non ci lasciano mai, che conservano e proteggono i nostri bellissimi luoghi e non li abbandonano. E le parole, spinte dal vento, raccontano la permanenza di questa spiritualità. Sono parole che esprimono l’anima lucana: un’anima presente che resiste, forte e fiera. Come le montagne nostre e le valli. In questo periodo di smarrimento identitario, di incertezze, Tucciariello, da appassionato rionerese e patella abbarbicata alla sua terra lucana, si rivolge non solo ai suoi lettori per rispondere all’uomo di oggi, carico di domande, con un sentimento di conciliazione, di comunità, di fiducia, di inclusione che solo rendono più umana l’umanità. A qualcosa serve un bel racconto.
Graziella Placido
|
Tratto dalle “Epistulae morales ad Lucilium” di Seneca, il brano assegnato ai maturandi di quest’anno è il tripudio della filosofia e dello stoicismo, ed è una lezione che ben si inserisce nel nostro tempo. Avere e possedere sono imperativi esistenziali che dominano orientamenti e scelte di una immensa moltitudine di soggetti. L’omologazione dei bisogni e la massificazione di ideali, di interessi, di modelli di relazione, è la caratteristica di questo momento storico, svilito da una globalizzazione che non è condivisione interculturale. L’altro è sempre più vicino a me ma è sempre più lontano da me, in quanto schiacciato da un processo di uniformità che prevede la svalutazione del singolo e della sua unicità. A farne le spese sono i giovani che, vittime di disgregazione di contesti comunitari, attendono di essere guidati e accompagnati. Essi vivono in una gabbia – quella della globalizzazione o omologazione di tutto – che ne trita i vissuti, disorientandoli, scaricandoli dentro un percorso di disagio, demotivazione, deresponsabilizzazione e paura di vivere.
Noi, adulti, non li educhiamo a quel vivere bene che consiste nel prendersi cura di sé, bensì a raggiungere con ogni mezzo ogni interesse, riponendo in questo squallido modus vivendi la nostra felicità, e predicando norme e valori in contrasto con le azioni. Per noi la felicità è legata ad eventi esterni: sono innamorato, vado in vacanza, mi sono laureato e così via, dunque è felicità condizionata, è un motivo e non uno stato d’animo. Eudaimonia è invece, nel pensiero antico, felicità rivestita di un abito etico, dunque è riferita all’interiorità dell’uomo e all’esercizio della virtù. Ecco perché Seneca è attuale. Perché prende le distanze dal suo tempo, non si lascia sedurre dalle mode, tratta temi che appartengono all’ermeneutica filosofica di oggi, rivela particolari sintonie con i problemi del nostro tempo. La filosofia per Seneca maestro di saggezza è esercizio spirituale, è medicina dell’anima. E non in verbis sed in rebus est: la filosofia non è un gioco intellettuale, non è evasione, ma regola di vita, controllo delle azioni. È modo di vivere una vita che non è un bene né un male, ma può rivelarsi l’una o l’altra cosa a seconda di come venga vissuta. Una vita che possiede un valore in ragione della sua qualità morale.
La pagina di Seneca, nonostante la semplicità sintattica, è pregna di valori, ormai tramontati nella contemporaneità. È una pagina di formazione destinata ai discepoli perché acquisiscano l’arte del ben vivere. È destinata a buona ragione ai discepoli di oggi, che di formazione necessitano. È destinata agli educatori, che col dialogo o con uno scritto forgiano anima e mente. La conoscenza resta il soggetto centrale nella filosofia di Seneca, risulta vissuta e praticata, trasforma l’anima e indica un percorso di vita possibile. Tutto si gioca non sul destino, ma sulla capacità di discernimento, sulla ragione e sul libero arbitrio. Dice Cartesio: la filosofia non è un tempio, ma un cantiere. La scuola – nave - tenga la rotta salda anche attraverso le tempeste.
Nina Chiari
|
Caro lettore, cara lettrice,
ci tengo molto a questa storia su Crocco. Non è questione di riabilitazione, non voglio farne un eroe, forse non ne sono ancora pronto, tanta è l'infarinatura ideologico-culturale nella quale anch'io per decenni sono stato coperto e plasmato da certa retorica risorgimentale.
Attraverso il racconto la storia può risultare gradevole, può aiutare la conoscenza di un fatto dai lati ancora ambigui. Del resto, la storia è narrazione, sicuramente dei fatti.
Platone racconta la sua filosofia attraverso immagini formidabili, il mito. Propone il concetto di conoscenza - e di educazione - col mito della caverna. Il filosofo è lo schiavo in fondo a una caverna, costretto, perché incatenato, a guardare la sola verità possibile. Ma quando spezza la catena ed esce dalla caverna semibuia vede un'altra realtà, una nuova verità. Torna nella caverna per raccontare la verità. E non creduto rischia perfino di morire (Socrate difatti ne morirà). Ma è quella la sua missione, la responsabilità di fare educazione. Alla verità.
La storia si fa con i documenti, certo. Ma quando vengono trovati solo alcuni documenti scritti perché altri sono stati negati dalla dittatura del tempo (la legge Pica, lo stato d'assedio), puoi fare storia solo con quelli? Ci sono i racconti. E cosa sono i racconti dei nonni, che hanno raccontato ciò che hanno veduto non certo per ottenerne vantaggi economici? Quei racconti sostituiscono quei documenti mancanti. Sono i racconti del popolo, di quel popolo che è stato vittima prima dei Borbone poi dei Piemontesi. Sono i racconti del nostro popolo, che di Crocco dice che fu uno che si è ribellato, un ribelle dunque, e quel movimento era ribellione. E così mio nonno mi raccontava ciò che due uomini di Crocco in America gli avevano raccontato, la nonna di Michele Placido gli aveva raccontato che Crocco era uno che si è ribellato mostrando per lui ammirazione, il nonno di Donato Santoro (Youtube, Crocco Ribelle), figlio della staffetta di Crocco, ha raccontato anche altro.
Quei nonni sono “persone informate dei fatti”, meritano di comparire all'interno di un processo. A fianco ai documenti processuali che testimoniano gli omicidi di Crocco (circa 70 per sua stessa ammissione) ed altre testimonianze comparse al processo, abbiamo il dovere di aggiungere altri soggetti, altre annotazioni, quelle del popolo, quelle negate dai vincitori. E anche con quelle, io, insegnante di storia per lungo tempo, assolvo Crocco, lo riabilito. E non solo per umana pietà. Lo riabilito e lo assolvo avendo letto e studiato la vicenda da almeno un ventennio.
Lo assolvo perché Crocco fu vittima di prepotenze ai danni della madre e ai danni del padre.
Per aver vendicato l’onore della sorella.
Per aver tentato di liberare il popolo meridionale unendosi a Garibaldi che credeva liberatore.
Per essere stato perseguitato da notabili del posto che lo volevano di nuovo in prigione.
Per il coraggio mostrato reagendo, dileguandosi nei boschi, aggregando altri uomini.
Per la capacità di porsi al comando di 100, 1000, 2000 uomini con cavalli ed armi di fortuna.
Per aver fronteggiato dal basso, come popolo, l’aggressione di 120mila soldati piemontesi.
Per avere difeso il territorio ed il suo popolo dall’occupazione selvaggia delle terre del Sud.
Per aver rifiutato persino l’appoggio del Borbone, non assoggettandosi al gen. Borjes.
Per aver combattuto per circa 4 anni, spesso vincendo, contro l’esercito cosiddetto italiano.
Per essere riuscito a sfuggire ad agguati, accerchiamenti, uscendone illeso.
Per aver saputo sciogliere il suo esercito di disperati, consigliando di disperdersi.
Per aver saputo vivere la sua condizione di carcerato per 40 anni con esemplare dignità.
Per aver saputo scrivere un’autobiografia straordinariamente bella, da uomo libero. Da ribelle.
Se fossi giudice pubblico, riconosciuto tale, lo assolverei, ordinando ogni conseguenza di legge.
Ma sono insegnante e mi occupo, ora, di storia. Perciò posso solo indicare, proporre e non disporre.
Caro lettore, cara lettrice. Se anche tu condividi questa mia analisi, fa’ che ogni strada della tua città non venga più offesa col nome di assassini accertati tali. Si cominci con Cialdini, come ha fatto la Città di Napoli. Poi con Bixio. Ed a seguire altri nomi.
Rionero, Giugno 2017 - Centro Studi Leone XIII – www.tucciariello.it
Pasquale Tucciariello
|
Dal 5 al 14 maggio 2017, diciassette Americani hanno partecipato ad un viaggio intitolato Basilicata Coast to Coast, promosso dall’associazione Denver Sister Cities con sede nella città di Denver in Colorado. Partiti da Roma, il 5 maggio, con un autobus delle linee Petruzzi, sono arrivati a Rionero in Vulture dopo aver fatto sosta a Sorrento, a Maratea, a Metaponto, a Matera ed a Potenza dove hanno pernottato per tutto il tempo della loro permanenza in Italia.
Le visite programmate per la giornata del 13 maggio a Rionero erano volte a comprendere la vita quotidiana di una qualsiasi cittadina media della Basilicata e di comunità e strutture che si presentano come eccellenza. La comitiva ha visitato la struttura che ospita il Liceo Scientifico e il Liceo Sociopsicopedagogico “Giustino Fortunato” di Rionero, il Campus, donato dal governo degli Stati Uniti d’America dopo il sisma del 23 novembre 1980, su sollecitazione di Enzo Cervellino, sindaco del tempo e del gen. Bernard, responsabile degli aiuti e coordinatore per le zone terremotate. La comitiva americana ha assistito ad una lezione di cucina con ricette e tipicità locali ed infine ha visitato vigneti dell’Aglianico nel comuni del Vulture ma particolarmente di Ripacandida.
Pur avendo raggiunto diverse mete significative durante il loro tour nel meridione, molti componenti della comitiva hanno affermato che la fase più emozionante dell’intero viaggio è stata la visita al ‘Campus’ di Rionero. Gli alunni delle classi IV E e IV G, con il sostegno di tre loro insegnanti, Rosaria Graziano, Bonaventura Ramone, Enzo Corbo, l’ex alunno Vito di Pierro e l’alunno Alessandro Papa per le immagini fotografiche e l’ex alunna Elisa Nardiello per la duplicazione in lingua inglese delle interviste, hanno proiettato un documentario in inglese, da essi stessi prodotto, sulla storia e le specificità del prestigioso istituto rionerese, un loro gesto di ringraziamento al popolo americano per avere donato la struttura alla città di Rionero in Vulture.
Questo importante abbraccio tra nazioni di parti opposte dell’Atlantico (Italia e America) e tra generazioni diverse (giovani e adulti) è stato possibile grazie alla sensibilità, alla diligenza e alla profonda dedizione al progresso della sua scuola e degli alunni da parte della dirigente scolastica, prof. Antonella Ruggieri.
Due degli Americani sono discendenti da meridionali emigrati negli Stati Uniti prima della Grande Guerra ed ancora oggi hanno lontani parenti in provincia di Salerno e in Calabria. Erano curiosi di conoscere le motivazioni che hanno spinto i loro antenati a scappare da una terra così idilliaca - magica terra di origine - verso territori sconosciuti, come gli Stati Uniti d’America. E raccontavano che i loro nonni non avevano trasmesso la propria lingua italiana, le abitudini e le loro radici forse perché volevano assolutamente che i loro figli acquisissero modi, stili e lingua americani. A Rionero, nel corso di una conversazione con il Prof. Pasquale Tucciariello, giornalista e scrittore, sono stati toccati questi temi ed anche altri riferiti alle ragioni che hanno determinato il fenomeno-emigrazione dal Mezzogiorno verso l’America subito dopo l’Unità d’Italia.
Il viaggio è nato dal fatto che la città di Potenza è gemellata con la città di Denver in Colorado. Mercoledì 11 maggio il gruppo è stato ospite del sindaco di Potenza, ing. Dario De Luca, nel Palazzo Comunale a Potenza. L’associazione Denver Sister Cities coltiva moltissimo i rapporti con le sue città gemelle e sponsorizza scambi culturali e viaggi verso queste città. Inoltre, è volontà dell’Associazione di tenere fecondi legami di amicizia stretti con la gente lucana e con gli abitanti dei territori visitati durante il viaggio in Basilicata.
|
Musica e territorio: un binomio da sempre di gran fascino ed effetto, un difficile spazio polisemico solo parzialmente esplorato, un invito alla scoperta, un richiamo che in pochi studiosi hanno saputo cogliere. Cosa significa nello specifico e cosa ci suggerisce la non semplice definizione di “territorialità musicale”? Cosa può raccontarci un territorio regionale o un ambito geografico locale, sulla propria “identità musicale”? Fin dagli esordi della sua storia, nel lontano 1982, l’Università degli Studi della Basilicata, nelle vesti istituzionali di Garante e Formatrice dell’istruzione ufficiale a carattere nazionale, ha voluto rivestire un ruolo di fondamentale importanza nella risoluzione accademica di tali interrogativi, tanto che, prendendo a cuore ed affrontando questo complesso e multiforme ambito culturale, istituisce uno specifico Dipartimento di Scienze Antropologiche (conglomerato oggi nel Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo) ed un Archivio di Studi Demo – Etno - Antropologici (collegato ad una collana di riviste specializzate) in grado non solo di affrontare domande e di dare risposte a quella serie di interrogativi che già si diramavano da questioni territoriali di tale natura, ma capace altresì di affrontare l’urgente e non facile problema della conservazione / catalogazione della cosiddetta “Tradizione Orale”, all’interno della quale la cultura musicale lucana occupa tutt’oggi un peso ed un’importanza non indifferenti.
La nostra regione, per definizione uno dei territori più affascinanti e ricchi di materiale per lo studio antropologico ed etnomusicale, è stata fin dagli anni cinquanta luogo privilegiato di quella particolare esplorazione antropologica che ha fatto capo a ricercatori del calibro non solo di Friedrich G. Friedmann che si occupò dei Sassi di Matera, ma altresì di studiosi come Ernesto De Martino, Diego Carpitelli e Franco Pinna, i quali, con le loro leggendarie “spedizioni” (1952 e 1954) alla ricerca di quei suoni arcaici sia vocali che strumentali altrimenti in via di estinzione, non solo hanno dato l’avvio a quella fortunata serie di studi etnomusicali che continuano tutt’oggi nel Meridione d’Italia, ma hanno altresì contribuito a creare un primo insostituibile e sperimentale “nucleo documentativo” sulla cui preziosità resta ancora molto da calibrare e sulla cui importanza ci sarà da dire ancora per lungo tempo. E sarà sulla base di queste preziose fonti che il Dipartimento di Studi Demo – Etno - Antropologici dell’Università di Basilicata, istituendo gli specifici insegnamenti di Etnomusicologia, fornirà quegli esimi contributi ad opera di professori come Pietro Sassu e Nicola Scaldaferri, i quali, attraverso l’osservazione sul campo e la successiva documentazione sonora e descrittiva (numerose le pubblicazioni specifiche del prof. Scaldaferri che continuano ancora oggi, se pure non più in sede lucana) non solo hanno contribuito ad allargare generosamente quell’antico e via via crescente nucleo documentativo regionale, ma hanno finito altresì per indicare alcuni “luoghi chiave” o “luoghi simbolo” della nostra regione ove questi stessi aspetti risultassero decisamente più radicati: nello specifico, la zona del Parco Nazionale del Pollino e quella della Val Sarmento, in cui risiedono i manufatti sonori maggiormente simbolici e puramente più arcaici del nostro ecosistema musicale, manufatti che vanno sotto il nome specifico di “Zampogna Lucana a Paro” cui fa da “pendent” la forse meno famosa ma altrettanto interessante “Surdulina della Val Sarmento”.
Naturalmente, inutile negarlo, se da un lato fonti, documenti e studi di settore prendono via via corpo ed interesse nel corso degli anni, si resta nello specifico pur di fronte ad una tradizione che poco per volta si va tristemente perdendo. Nonostante le varie Comunità Montane locali, le associazioni, i Folk Festivals, i cultori del genere e nonostante pubblicazioni e gruppi di studio specifici, se si toglie il fatto che le seconde generazioni a partire dai tempi della spedizione De Martino - Carpitelli restano le sole autentiche depositarie di un’arte e di una tradizione le quali proprio perché manifatturiero - orali non possono che essere tramandate se non attraverso il vincolo del legame di sangue o al massimo della passione acquisita, di un forte interesse e di un tentativo di emulazione che difficilmente prendono piede in una società sempre più foriera di tecnologie (e schiavizzata da esse) e ahimè anche segnata da un crescente spopolamento che mina l’esistenza stessa delle piccole comunità della nostra regione, allora possiamo concludere che: o questa tradizione dovrà in qualche modo essere disperatamente salvata e congelata attraverso “scuole di teorizzazione” di tale arte (scuole cioè che possano riprendere almeno in parte la prassi del canto e del suono sia eseguito che tecnicamente prodotto nello specifico della costruzione artigianale degli strumenti) oppure (scelta tanto opinabile quanto fuorviante) ci si deve arrendere alla mediocre eppure unica via di “conservazione” tutt’ora esistente (e fiorente) che è quella della cosiddetta “musica popolare”, la quale, proprio per la natura morfologico - strumentale (strumenti altri) con la quale essa si presenta al grosso pubblico e con la quale essa stessa si produce, resta per definizione totalmente “altra” da quello che in questo contesto sto cercando a grosse linee di illustrare.
In altri termini ancora - e detto molto profanamente - non si può in nessun modo comparare o avvicinare un repertorio di Surdulina di un Carmine o di un Giuseppe Salamone ad un qualsiasi gruppo folk di Basilicata. Pur con tutto il dovuto rispetto da parte di chi sta scrivendo e pur con tutta la buona volontà di chi questa stessa musica cerca di riproporre nell’ambito delle svariate manifestazioni culturali o feste di paese, parlare ad ampio spettro di “sintetizzatori o sintetizzazioni meccaniche” (strumenti a corda o a fiato o tastiere moderne) che pretendono di riprodurre più o meno fedelmente un repertorio sonoro nato da materiale manifatturiero di tipo assolutamente naturale (e parliamo di legno e pelli di capra conciate in primis) o da cultura musicale assolutamente “agrammatica” (chi suona nella maggior parte dei casi lo fa ad orecchio ed è reduce da una trasmissione che proprio perché orale possiede i suoi specifici caratteri di appropriazione ed apprendimento) significa non solo esulare da un territorio musicale che in sé ha quantomeno del “sacro”, ma è compiere, nello specifico, un assoluto “crimine musicale”, un autentico furto ai danni delle nostre più pure ed arcaiche tradizioni, allorquando tramandare è altro. Sì, perché tramandare è altro dal dire : “Io non so quindi rifaccio alla mia maniera”. È altro dal dire ai giovani: “Queste cose sono roba da vecchi, perciò modernizziamole, fa lo stesso.” Forse non ce ne siamo accorti, o forse abbiamo fatto finta di non accorgercene, ma abbiamo una nuova strada per il turismo in Basilicata e questa può essere senza alcun dubbio quella etnomusicale. Sì al vino, sì alla riscoperta dei borghi nascosti. Ma perché non inerpicarsi sulle montagne intorno a Terranova Del Pollino o sul maestoso Sirino per riscoprire quali sono gli ultimi costruttori / suonatori di Zampogne? Quanti ne sono rimasti? Quante istituzioni danno loro la dovuta attenzione? Dobbiamo avere la consapevolezza di essere davanti ad un tesoro in via di estinzione.
Un bel libro - saggio di Bruce Chatwin si intitola “Le vie dei canti”: ebbene, ci sarebbe da ripercorrerle queste vie. Si verrebbe a conoscenza anzitutto del primo sorprendente fatto che Zampogna e Surdulina non sono solo quei poetici e forse “un po’ melensi” strumenti da “pastorale” che l’immaginario popolare vede rispolverati solo a Natale, bensì pietre musicali (ancora per poco) vive che in comunità come quelle di San Paolo o San Costantino Albanese vengono sistematicamente usate in tutte le più importanti occasioni di aggregazione sociale (matrimoni, battesimi, fidanzamenti, feste religiose, pellegrinaggi etc …). Si scoprirebbe poi che le derivazioni storiche di tali strumenti sono più che nobili, perché direttamente provenienti in parte dal mondo greco-romano, ma in parte anche da quello balcanico per via della radice arberesh di queste comunità, le quali restano così del tutto uniche ed irripetibili. Si scoprirebbero, ancora, strumenti scomparsi come l’”Arpa di Viggiano” cui fa da glorioso corollario tutta una storia di emigrazione europea e americana, nonché di vagabondaggio musicale che ha ispirato libri, documentari, films, i cui ultimi esemplari sono certamente disponibili, se non in qualche museo italiano ed estero, almeno in più di una casa privata e di cui una delle più importanti ed ultime performances a cura del suonatore - costruttore Rocco Rossetti è stata documentata, insieme al suono della Zampogna a Paro e della Surdulina, proprio nella nostra Rionero in Vulture nel lontano Maggio 1987, in occasione di una rassegna riconosciuta poi di fondamentale importanza dai ricercatori, proprio perché in quella circostanza si ritrovarono insieme gli ultimi storici rappresentanti della tradizione musicale lucana, da Carmine e Giuseppe Salamone a Salvatore Antonio Lanza - (… e non sarebbe male tentare di riprodurre un evento simile proprio ad opera della nostra Amministrazione Comunale e di qualche Sopraintendenza ai Beni Culturali, pronte a riunire appunto le seconde generazioni di questi suonatori - costruttori …) Insomma, si scoprirebbe un mondo. Un mondo di suggestiva ed incontaminata bellezza, un mondo semplice ma sorprendentemente complesso, un mondo unico la cui preziosità risiede nell’avvenuto mantenimento della purezza e dell’arcaicità dei suoni e dei repertori, immediatamente percepibili e valutabili nella loro valenza, pienezza, ricchezza e perfezione anche dal meno esperto degli orecchi. Un mondo che sarebbe un vero peccato lasciare andare in frantumi, nel più ignobile dimenticatoio. Un mondo per la cui ultima possibilità di salvezza saremmo finanche agli sgoccioli. Un mondo di cui certamente andare fieri.
|
I nostri paesi sono diventati tutti periferie. Potenza ormai accentra tutto. Anche gli interventi nel campo della salute. Se ti viene un mal di pancia e chiedi l’intervento del 118, ti portano, da Forenza, a Melfi, e da qui, se necessario, a Potenza, al Pronto Soccorso dove non è detto che trovi veramente un soccorso immediato, se devi fare la fila. Poi, l’ambulanza del 118 deve percorrere strade che non sono proprio delle superstrade con tappeto d’asfalto perfetto. Se vai con l’auto, quando arrivi all’Ospedale, devi accompagnare prima l’ammalato al Pronto Soccorso, poi cercare un posto per il parcheggio, poi comprare il ticket senza sapere per quante ore, tornare all’auto ed esporlo sotto il parabrezza in maniera ben visibile. Nella zona c’era l’Ospedale di Venosa, c’è in parte, e io cittadino di periferia non ne so quasi nulla dei servizi che offre, l’Ospedale di Melfi. All’Ospedale di Rionero puoi accedere solo se sfortunatamente ti è stato diagnosticato un tumore. Non credo che miglior sorte tocchi ai cittadini della bassa Lucania.
Forenza nel 1899 aveva 11.360 abitanti, oggi circa 2000. La scuola s’è completamente ridotta, una sola classe di prima elementare con otto alunni, una scuola media con un corso solo asfittico. Negli anni ’90 tra scuola dell’infanzia, elementare e media c’erano circa trenta classi.
I vecchi si aggirano per la piazza ora sedendosi alle panchine, ora andando su e giù sul quadrato del passeggio. Puntualmente alle otto del mattino Michele ti chiede in prestito 10 euro, mentre un altro ti grida da lontano “ladro, mi hai rubato la protesi, ridammela!”
Davanti alla tua porta, c’è una casa che sta crollando e la porta semiaperta, bloccata dal peso delle macerie in caduta, ti mette a diposizione un immondezzaio che s’infila fin dentro nelle parti nascoste.
È da anni che si parla di desertificazione non solo ambientale ma umana della Basilicata in particolare. La politica non solo non ha mai preso sul serio il problema, ma non ne ha neppure consapevolezza, impegnata com’è a difendere se stessa per restare a galla e aggrappata alla greppia del potere. La desertificazione umana significa essenzialmente desertificazione dei servizi. Nei paesi come Forenza non c’è un falegname, ci sono due ferramenta, ci sono molti negozi di genere alimentare, che la dicono lunga sull’età della maggior parte degli abitanti. In questi paesi a casa si porta solo la pensione o qualche stipendio di qualche impiegato ancora in servizio. Gli insegnanti a Forenza sono quasi tutti di fuori.
Sembra di vivere all’epoca della Rivoluzione industriale, quando ci fu la fuga dalle campagne in città, alla fabbrica. Da noi l’unica città alla quale è possibile fuggire se riesci a trovare qualcosa da fare con i soliti meccanismi a relazioni corte, è Potenza. All’estero non si può più fuggire, all’estero fuggono i laureati, qui restano i burnout nulla facenti e i vecchi, che come zombi vivono ormai fuori della realtà.
|
Che cos’è il brigantaggio? Alcuni storici lo definiscono delinquenza comune, altri rivolta contadina, altri ancora guerra civile. Ridurre i tre aspetti ad un’unica dimensione significa generare confusione.
Tracciamo a grandi linee uno status quaestionis.
Nel 1860 la Lucania si presenta con strade e terre di contadini poveri, analfabeti, che ignorano cosa sia un’associazione di lavoratori o di partito, ma hanno il terrificante potere di chi non ha niente da perdere. Garibaldi è stato la loro grande speranza, colui che doveva distribuire le terre e restituire la libertà. Ma non lo capivano i Piemontesi, che hanno in Cavour la loro mente politica. Per essi è l’esercito regolare che deve ricucire la Nazione ed è la monarchia conservatrice che deve governare. Ai Piemontesi basta il SI’ dei plebisciti, un SI’ ottenuto comunque, con le buone o con le cattive. A Melfi, per esempio, hanno detto SI’ alla monarchia tutti i cittadini votanti, ma sotto la montagna dei SI’ rimangono la miseria e i problemi non risolti.
Comunque, l’esercito di Garibaldi è sciolto, i volontari tornano delusi alle loro case, le nuove leggi sono dure verso i poveri (proibiscono ai contadini di raccogliere legna o di pascolare nelle terre del governo), favoriscono la borghesia nei beni demaniali, tolgono ai preti poveri il necessario per vivere liquidando le strutture della vecchia Chiesa, cioè la proprietà privata.
La risposta dei contadini è la lotta armata, e dovunque nelle campagne si spara, si brucia, si uccide. E i Borboni di Francesco II forniscono uomini e armi alla reazione contadina nascente che passerà alla storia con il nome di Brigantaggio.
Il nuovo Stato applica la legislazione già adottata per il Regno, che in sostanza ignora il problema dei contadini per i quali la situazione peggiora.
Terre povere sono coltivate a grano, e i contadini hanno conosciuto per secoli la regola di Ferdinando II: << Il mio popolo obbedisce alla forza e si inchina dinanzi ad essa. Al mio popolo non serve pensare, io mi occupo del suo benessere>>. Sotto i Borboni, i proprietari terrieri sono assenti: vivono a Napoli, delle terre si occupa un amministratore, il galantuomo, e lo Stato possiede migliaia di ettari di terre aperte ai contadini per il pascolo o la raccolta della legna. Le terre del governo finiscono nelle mani di chi ha denaro per coltivarle e per pagare le tasse.
La separazione fra ricchi e poveri diventa più netta: da un lato i nuovi padroni con i loro casini da gioco, i loro avvocati, i loro clienti; dall’altro i poveri con i loro asini, i figli numerosi, i debiti. Il governo italiano vara una legge con la quale impedisce che il raccolto venga venduto fuori dal luogo di produzione, aggiunge nuove servitù, stabilisce tasse più alte e rende obbligatorio il servizio militare.
Che al cuore del “brigantaggio” ci sia stata la miseria contadina è frutto dell’analisi fatta dalla filosofia marxista del dopoguerra. In realtà, il Sud era parte di una Italia tutta arretrata e molto povera, ma era più povero del Nord. Su Napoli i grandi investimenti dei Borboni producevano grande prosperità, contrariamente al resto del Sud che era abbandonato.
E come viene vissuta l’unità nazionale? In mille modi diversi: i nobili e l’alto clero sono nostalgici del vecchio stato, molti borghesi che sanno leggere e scrivere concordano con il nuovo, i contadini e gli artigiani pensano alla rivoluzione ma restano delusi nelle loro aspettative.
E chi erano i “briganti”? Al principio non erano né buoni né cattivi, erano solo disperati. Simbolo ne è Carmine Crocco, che descrive la sua casa così:
Sono due casupole annerite dal tempo e più ancora dal fumo. Una stalla per le bestie, nell’altra dormiamo noi. Su un letto sostenuto da asticelle fradicie dormono mia madre e mio padre, nell’altro lettuccio dormiamo noi tre fratellini, tutti insieme come tre stoccafissi. Vicino al camino dorme mia sorella piccola, e nella culla di vimini Marco di pochi mesi. Mia madre si strugge a cardare lana, unta e bisunta d’olio.
Condannato per i reati che nascono dalla povertà, combatte per l’unità e per Garibaldi in cambio di promesse di libertà e lavoro. Invece, per sfuggire all’esercito regolare che vuole catturarlo, è costretto a fuggire nei boschi.
Si diventa “briganti” come Crocco perché non si il denaro per pagare i debiti, o perché non si vuole servire nell’esercito o perché si cerca vendetta per i torti subiti. Si diventa “brigante” perché lo sono gli amici e i parenti o perché il Borbone promette le terre.
Si può discutere finchè si vuole su un brigante o sull’altro, su quello che era assassino o ladro e sull’altro che era un protettore dei poveri e un rivoluzionario. Ma una cosa è certa: tutti erano mossi dal comune malcontento, dalle comuni delusioni e soprattutto dalla comune perdita di ogni speranza.
Dopo Ariano Irpino, la rivolta dilaga nelle provincie più remote della Lucania. A molti può sembrare una rivolta politica perché i briganti si dichiarano fedeli ai Borboni per sentirsi coperti da un’autorità superiore, per sentirsi dentro un potere legittimo.
È il periodo in cui vengono presi di mira i proprietari liberali schierati dalla parte del Piemonte, ma presto l’avversione del “brigantaggio” si rivolge a tutti i galantuomini. Con fatica il movimento comprende che le sue motivazioni sono diverse da quelle dell’aristocrazia reazionaria. Lo dice bene il “brigante” Cipriano Lagala ad un inviato del Borbone: << Tu hai studiato e sei avvocato, e credi davvero che noi fatichiamo per Francesco II? >>.
Il Sud è il luogo di forti tensioni sociali e di violenza diffusa. È il luogo delle speranze deluse. L’Italia è sempre – ancora oggi - l’Italia dei Gattopardi, per cui si finge di voler cambiare ma si fa in modo che non cambi nulla. È l’Italia dei notabili e dei poverissimi. Èquella l’Italia della destra reazionaria e conservatrice che non lascia spazi né ai movimenti operai né ai movimenti contadini. È questa l’Italia del governo Renzi o Berlusconi che non lascia spazio a chi vuole alzare la testa.
A livello popolare come sono considerati i briganti? Sono quelli che difendevano i diritti dei contadini contro i proprietari terrieri.
Che cosa insegna a noi il “brigantaggio”?
Ci insegna che il nostro, ancora oggi, è un Paese complicato, diviso, con una memoria storica impossibile da unificare; che la nostra è ancora oggi una democrazia fragile; che gli Italiani non sempre sono “brava gente” perché sanno essere anche repressori molto crudeli. Ci insegna infine che la nostra non è più un’epoca in cui si scrive, o si racconta, la storia per entusiasmare le masse – o le scolaresche, ma piuttosto per aprire gli occhi su come è fatto il mondo.
Chi è Carmine Crocco? Lo dice l’autore nell’ultima pagina del racconto. Crocco sfugge alla storia come scienza fatta di documenti o altre testimonianze accertate. Crocco è il sentire dei Rioneresi che hanno vissuto direttamente o indirettamente la sua vicenda umana. Crocco è ciò che il suo popolo sente.
Più volte l’autore insiste, e a ragion veduta: <<Non chiamateli briganti. Ribelli. Fu ribellione, non brigantaggio. Ribelli>>.
È proprio vero. Concordo con l’amico Pasquale. Briganti è un marchio infame che scrittori salariati hanno dato ai contadini poveri meridionali, vittime dei soprusi dello Stato italiano. RIBELLI: questa è la verità della storia!
Crocco – dico io – è un nome per definire la ribellione. Ma Crocco è ogni uomo che sente sulla pelle la negazione di ogni diritto. Crocco è il ribelle che, “calpestato come l’erba dagli zoccoli dei cavalli”, combatte, nell’unico modo per lui possibile, per rivendicare la propria libertà.
E libertà non è cambiare padrone e non è parola astratta. Libertà è sentire forte il possesso di qualcosa, a cominciare dall’anima. Libertà è vivere di ciò che si ama. Libertà è un vento impetuoso che rinasce ad ogni generazione. E che ad ogni generazione diventa STORIA. Non storia scritta dai potenti e dai vincitori, quella che asservita a certa politica ancora oggi insegna il falso ai nostri ragazzi sui banchi di scuola.
La STORIA , quella vera, pregna di sofferenza umana, conta. Ed è la nostra eredità.
È quel venticello in re minore che soffia l’orgoglio e la dignità dei Lucani e della gente del Sud.
|
“L’importante è fare la volontà di Dio. Io magari avevo dei piani su di me, ma Dio ha pensato a questo. La malattia mi è arrivata al momento giusto (...) Voi però non potete neppure immaginare qual è adesso il mio rapporto con Gesù. Avverto che Dio mi chiede qualcosa di più, di più grande.(…) Ero troppo assorbita da cose insignificanti, futili e passeggere. Un altro mondo mi attendeva e non mi restava che abbandonarmi. Ora mi sento avvolta in uno splendido disegno che a poco a poco mi si svela.”
È il 1990 e queste sono le parole di una ragazza di appena diciotto anni. Non siamo di fronte a scritti di asceti o di padri del deserto di chissà quale secolo lontano. Eppure queste semplici, icastiche parole reggono la base di una santità modernissima, giovanile, semplice, affascinante e se mi si può passare il termine finanche “alla portata di tutti”. Non so quanti di voi conoscano la figura di Chiara “Luce” Badano. Prossima ad essere ascritta nel novero dei santi dei giorni nostri, Chiara è esempio davvero luminoso per chiunque voglia conoscere uno dei non pochi aspetti della “cristianità giovane e per i giovani”. Questa ragazza di Sassello, in provincia di Savona (dove nasce il 29 Ottobre 1971) unica figlia tanto attesa di Ruggero e Maria Teresa Caviglia, è ormai conosciuta in tutto il mondo e migliaia sono i pellegrini che, in attesa della conclusione del processo di canonizzazione che presto la vedrà assurgere agli onori degli altari, accorrono in ogni stagione dell’anno presso la sua tomba, essendo stata proclamata Beata pochi anni or sono, esattamente il 25 settembre 2010 da papa Benedetto XVI. Come tutte le storie di personaggi legati alla santità, la vicenda di Chiara Badano ha in sé onestamente dell’incredibile. Mi è sembrato giusto allora – con molta semplicità e con altrettanta immediatezza - proporne un breve e spero efficace sunto che possa risultare aderente non solo a questo periodo quaresimale ma ancor più ad un quotidiano come il nostro, dove parole come “sofferenza” e “accettazione del dolore” non sembrano più “andar di moda”, anzi tutt’altro. Penso alla recentissima vicenda di Dj Fabo, in realtà l’ultima di una lunga serie che ha spaccato in due l’opinione pubblica perfino - a quanto pare - tra cattolici praticanti. Chiara Badano appare così in quest’ottica una figura agli antipodi della morte ricercata come liberazione dal dolore, rappresentando senza ombra di dubbio uno degli emblemi dell’accettazione della vita così come ci è stata data, dal concepimento fino all’ultimo istante. Vita vissuta non solo con dignità, ma altresì con profondo eroismo ed un ancor più grande entusiasmo, virtù che Chiara non ha ostentato ma che ha reso comunque immediatamente visibili, inequivocabili e lampanti per coloro le stavano intorno. Questo suo non esibirsi né tantomeno recitare una parte (magari rassegnata) di fronte ad una malattia grave, questo suo essere spontaneo ed altresì quotidiano, oserei dire “feriale”, non può per ciò stesso risultare estremamente coinvolgente per chi si avvicina anche oggi alla sua storia e alla sua spiritualità. Di fronte ad un non credente questa figura potrebbe imbarazzare o anche rischiare di essere liquidata come una “personalità schizoide”. Quante volte i santi sono stati definiti così, “ i quasi matti”. Ma tanto è: un eroismo così semplice e così intenso non può non lasciare indifferenti. Qualcuno all’interno della stessa Madre Chiesa ha addirittura scherzosamente definito questa ragazza “troppo santa”. Ovviamente nessuno di noi è Chiara. Eppure per chi impara a conoscerla, Chiara emana un fascino incredibile fino a lasciarci in dono (si spera) dopo averla conosciuta, il desiderio di provare ad emanare anche noi come lei “qualcosa di luminoso” all’interno delle nostre vite. E questo è certamente possibile, non necessariamente vivendo grandi prove come lei ha fatto, ma manifestando piccoli spazi o tentativi di luce tra le ombre, anche al di là dei grandi temi etici come eutanasia o aborto (su cui pur chiaramente si deve prendere posizione) perché il cristianesimo sia e rimanga una scelta da operare tutti i giorni, anche nei gesti più semplici ed apparentemente privi di senso agli occhi umani. La filosofia di vita di questa giovane Gen (che aderì al Movimento dei Focolari nel 1980) si era sviluppata in tal senso, “un senso tangibile e quotidiano” già molto tempo prima che la malattia bussasse alla sua porta. E così, la vita di Chiara Badano prendeva il significato del “tutto accade per un motivo preciso” e del “nessun attimo della nostra esistenza deve venire sprecato” già cronologicamente prima di quella diagnosi infausta (Osteosarcoma) sopraggiunta nel 1987 e che la portò a quello che lei finì con il chiamare “il gioioso incontro con lo Sposo” il 7 ottobre 1990. La vita di Chiara Badano appare così, fin dai suoi stessi esordi, davvero uno “splendido disegno” che, arricchitosi di volta in volta di particolari sempre più belli, di traguardi eroici sempre più alti, supera qualsiasi mano umana, fino a farci riconoscere non altra firma se non quella del Creatore della Vita, della Gioia, della Pace.
“Sento che Gesù mi sta chiamando a qualcosa di più grande” confida Chiara ai suoi amici agli esordi della malattia. La ragazza è estremamente consapevole di tutto ciò che le accadrà, delle pesanti cure che dovrà affrontare e del fatto che molto probabilmente non guarirà. Chi le dà forza è questo suo “Sposo Abbandonato” (Gesù agonizzante) quel Gesù che fin da bambina ha imparato a conoscere ed ascoltare dentro il suo piccolo cuore a partire dagli anni in parrocchia e poi nel movimento delle Gen, quel Gesù di cui conserva un ritratto semplice ma altamente espressivo nella sua cameretta. È a Lui che pian piano Chiara impara a rivolgere i suoi continui e personalissimi “Sì” come tanti gradini che in maniera sempre più radicale ed impegnativa la portano a salire in alto e ancora più in alto quanto più la malattia incalza. All’inizio sarà un naturale “perché Gesù?”. Ha solo diciassette anni, è sportiva, ha tanti sogni nel cassetto (vuol diventare medico ed andare in Africa) è bella e simpatica, amata da tutti. Ma presto quelle domande si convertiranno tutte in un’unica e reiterata affermazione : “Se lo vuoi tu Gesù, allora lo voglio anch’io.” E così gli interventi chirurgici, le sedute di chemioterapia, la paralisi, i dolori che per un anno e mezzo mai la abbandoneranno. Ciò che Chiara non perse mai, dall’inizio alla fine, fu il suo sorriso ed una serenità che sbalordì non solo i medici ma anche i suoi stessi genitori. Come poteva una ragazza così gravemente ammalata e tanto consapevole della sua malattia continuare ad essere sempre la stessa, senza mai cedere, senza mai cambiare, anzi donando a tutti quello che poteva con tutta se stessa e con tanto entusiasmo? Suo padre, perplesso, cominciò a spiarla dal buco della serratura per cercare di capire se quella figlia fingesse per amore dei familiari. La scopriva sempre serena, come davanti a loro. Mai un lamento.
Chiara era diversa. Aveva fatto il salto. Il salto del vero cristiano proiettato nella Verità che non è di questo mondo. Chiara, pronta a vivere quel Dio che tanto amava, era certa che i Suoi piani su di lei avrebbero in ogni caso previsto solo del Bene, comunque andasse la vita; ed era ancora più certa di quella vita eterna e di quella profondissima intimità con Gesù che per grande grazia corrisposta aveva imparato a conoscere, apprezzare, ricambiare e vivere profondamente fin da quaggiù, che per Gesù fu sempre pronta a tutto, nella gioia della sua breve vita così come nel dolore della sua lunga malattia. “Come per me è facile conoscere l’alfabeto, allo stesso modo voglio ben conoscere questo meraviglioso libro chiamato Vangelo.” Ed è proprio avendo in mente continuamente l’amore di Dio riversato sugli uomini mediante il sacrificio di Cristo, che Chiara, nonostante le gambe (che lei scherzosamente aveva imparato a definire “matte” ) fossero in continua contrazione ed agitazione neurosistemica perché alterate dal dolore, per un anno e mezzo e fino alla morte, ricevette senza problemi non solo i suoi amici ma tutti coloro che - incuriositi dalla sua spiritualità e dal modo in cui aveva imparato a prima a gestire e poi a valorizzare la malattia- facevano richiesta di accesso alla sua casa. Tra questi il suo stesso vescovo, Monsignor Livio Maritano (che successivamente ne aprì il processo diocesano di Beatificazione) il quale più di una volta, celebrando messa nella sua cameretta e colloquiando privatamente con lei, ebbe modo di constatare tante virtù non comuni (quelle che la chiesa definisce “eroiche”) innestate su una radice di maturità assolutamente rara per una ragazza di soli diciassette anni. Chiara amava ripetere “Io ho tutto” riferendo questo “tutto” al dono e alla grazia di poter offrire le sue sofferenze. Certo ricordava con dolce nostalgia la vita di un tempo, ma non rinnegava questo suo nuovo stato di cose dove Dio le offriva “altezze incredibili” da cui poter guardare le cose con occhi nuovi. Ed è con questi occhi che Chiara dona tutti i suoi risparmi (compresi i regali per i suoi 18 anni) per le missioni nel Benin. È con questi occhi che invita i suoi genitori ad andare in vacanza per distaccarsi dalla pesante situazione familiare. Dal suo lettino, Chiara continua a studiare, canta, legge, scrive lettere alla fondatrice dei Focolari (Chiara Lubich, che colpita dalla bellezza di questa sua vicenda le darà il nuovo “soprannome spirituale” di “Luce”, la luce di quegli ideali che “vincono il mondo”) e quando sente che la “fine” è ormai vicina, così, serenamente, rifiuta la morfina per non perdere la lucidità, e contenta di poter donare ancora fino all’ultimo istante, pensa addirittura ai particolari del suo funerale che dovrà essere concepito non come un addio ma come una festa, una cerimonia dove ognuno “dovrà cantare forte”perché lei ormai sarà finalmente volata in Cielo raggiungendo il tanto sospirato “Sposo”. Ed è con la sua migliore amica Chicca Coriasco che sceglie e prova tutti i canti per la celebrazione e si fa cucire un vestito di seta bianco con una cinturina rosa “per essere bella per Gesù”. Prima di salire al Cielo, l’ultimo dono è la volontà di donare le cornee come unica parte del corpo non compromessa dal male. All’alba del 7 Ottobre 1990 con le ultime forze rimaste nel suo fragile e giovane corpo devastato dalla malattia, Chiara, che aveva salutato ad uno ad uno tutti gli amici, scompiglia forte i capelli della sua mamma ed esclama con un dolcissimo filo di voce: “Mamma, ciao: sii felice perché anch’io lo sono”. I suoi funerali sono un accorrere di gente vicina e lontana, in particolare giovani. In paese le serrande dei negozi vengono abbassate e tutta la cittadinanza partecipa al rito. C’è subito la consapevolezza che Chiara è “qualcosa di più” e che è riuscita a trasmettere tanto attraverso la sua giovane vita. Durante l’omelia mons. Maritano afferma: “Non possiamo che benedire Dio per il dono che ha fatto alla nostra Chiesa attraverso la testimonianza di Chiara e della sua famiglia; un bene che è rivolto a tutti: ai credenti e io spero anche ai tanti in ricerca di Dio.” (*) Tra raccoglimento, preghiere e canti, più di cinquecento persone si accostano alla comunione. Durante la sepoltura della salma, sempre accompagnata dai canti dei giovani del Movimento Gen, la cappella di famiglia è stracolma di fiori, biglietti, messaggi di speranza e di richiesta di aiuto a Chiara, consuetudine che continua tutt’oggi nel cimitero di Sassello. La fama di santità comincia subito nei giorni e mesi immediatamente successivi alla dipartita di Chiara con una vasta eco di giornali e televisioni che additano alla singolare vicenda di questa ragazza. Cominciano ad apparire varie biografie ma soprattutto testimonianze e relazioni scritte su presunte grazie spirituali e fisiche ottenute invocando presso Dio la sua intercessione. La più importante, riconosciuta dalla commissione d’inchiesta del Vaticano e che appunto sancirà l’iscrizione della Serva di Dio nell’albo dei Beati nel 2010, è data dall’inspiegabile guarigione di un ragazzo di Trieste affetto da meningite fulminante, destinato per la scienza a morire in quarantotto ore, ma tutt’ora vivente ed in ottima salute per intercessione della Beata.
“Mamma, i giovani sono il futuro. Io non posso più correre, però vorrei passare loro la fiaccola come alle Olimpiadi. Hanno una vita sola e vale la pena di spenderla bene.”
Chiara ha passato il testimone ai giovani, a tutti. Un esempio senza dubbio difficile da seguire, una soglia stretta da varcare. La strada sterrata riserva però, vale la pena ricordarlo, sorprese rare, indimenticabili bagliori (altro dai luccichii) sia per sé stessi che per il prossimo cui si decide di mostrare la cosiddetta “altra possibilità”, ovvero l’altro coraggio, l’altro sogno, l’altro cammino. Livelli di vita e finezze per pochissimi, è vero. Il segreto risiede nella fortissima volontà di corrispondere al dono della fede senza alcun margine di distrazione, nemmeno il più piccolo. E questo con la medesima forza di volontà di un atleta, lo sguardo fisso alla meta con tutto se stesso. Uno sguardo aperto ad una vita che non finisce qui. Uno sguardo come quello di Chiara, puntato dritto al cuore di una vita diversa, che non termina con fallimenti o con miserie. Una ragazza, Chiara Badano, che ha saputo tenere alta la fiaccola, che ha saputo dire sì quando chiunque avrebbe dato per scontato un no. La lucerna che non giace sotto il moggio ma che illumina l’intera stanza. Il giusto che continuerà a brillare come il sole. Chiara non sarà mai più dimenticata. Vivrà con tutti, per sempre.
(*) M. Magrini “Uno sguardo luminoso: Beata Chiara Badano.” Torino, SanPaolo, 2010; p.159.
|
In una pasticceria del centro a Roma, qualche giorno fa, sorseggiando una cioccolata e gustando una fetta di tiramisù, sentivo alcuni giovani ad un tavolo vicino al mio parlare di politica con atteggiamento disinteressato e con parole assolutamente prive di passione e di senso civico. La sera stessa ho scritto questa lettera.
L’invenzione della politica appartiene ad Atene. Il termine stesso rimanda a quella città unica dove, per la prima volta, apparve la democrazia, il governo popolare della polis. È Eschilo a registrare questa genesi nella forma della tragedia: il nemico è protagonista della scena e finge di parlare greco, ma proclama valori opposti a quelli su cui la Grecia sta definendo il proprio profilo politico e culturale.
Il numero e l’oro contrapposti alla povertà di risorse riscattata dalla virtù individuale e dalla responsabilità collettiva; l’atteggiamento di subordinazione dei sudditi di fronte ad un sovrano assoluto che non deve rispondere a nessuno, contrapposto al valore individuale e corale di un popolo che si riconosce tale in quanto è un popolo libero, composto di soggetti tenuti tutti, fino ai più alti ruoli del potere, a dare conto delle proprie scelte, a rispondere alla città, a pagarne il prezzo. Sta qui la forza di Atene contro i Persiani: è la polis, segnata dai due grandi slarghi dell’agorà e del teatro, quella che si contrappone al monolitico palazzo del potere persiano.
L’agorà è il luogo dei commerci e delle manifestazioni della volontà popolare. Il teatro è lo spazio dove si può dare voce al controcanto dell’anima, a tutto ciò che suona come coscienza critica dell’esercizio del potere.
La politica nasce dalla combinazione della pubblica piazza e del teatro: il suffisso ikòs, aggiunto a politeia – polites, cioè alle figure della cittadinanza e del cittadino, sta a dire che non si fa politica senza il riferimento alla città e all’interesse di quanti la costituiscono. Dalle necessità della polis è generata e misurata la mediazione politica; al servizio di essa deve porsi in un continuo, dialettico interscambio con la ricerca del bene comune. Tutto questo non potrà realizzarsi se l’agire politico non saprà fare i conti con le altrui ragioni, e soprattutto con il riferimento al valore ultimo del bene comune e delle esigenze morali che lo garantiscono. In democrazia la politica ha bisogno dell’etica.
È qui che la tradizione cristiana porta il suo contributo alla politica, elaborando il concetto di “persona”, che assomma in sé due campi di tensione reciproca, quello della singolarità e quello della relazione. Nella dialettica tra l’uno e l’altro, la persona si situa come soggetto assolutamente unico (esse in se), che può liberamente destinarsi all’altro, stabilendo rapporti di reciprocità solidale (esse ad). È nell’unità di queste relazioni che la persona si offre come soggetto libero e consapevole della propria storia, posto sulla frontiera fra esistenza storica e valore morale, in grado di saldare i due campi.
Il pensiero personalista di ispirazione cristiana influenzò la Costituzione italiana, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo; esplicita il principio di uguaglianza, secondo cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, e devono essere in grado di sviluppare pienamente la loro personalità sul piano economico, sociale e culturale. L’importanza e l’attualità di queste conseguenze sono intuibili nel campo della tutela delle minoranze, di lavoratori, delle donne, dei diversamente abili, ed oggi nel rispetto dovuto alla persona dell’immigrato.
Nell’idea di essere “per sé e per altri” della persona (esse ad) sta il fondamento del principio di responsabilità, che la Costituzione recepisce affermando il valore del pluralismo e il principio di laicità, nel rispetto del diverso e nella tutela dei suoi diritti.
Nessun uomo è un’isola e a nessuno è lecito disinteressarsi del bene comune. Questo essere relazionale della persona si esprime nel principio di solidarietà, accolto nella Costituzione. Tenere insieme i dinamismi della persona e della comunità è il difficile equilibrio al cui servizio deve porsi la mediazione politica: un servizio di carità alta, in cui si prepara l’avvenire di tutti.
Vi dirò di più.
Il mondo ha bisogno di giovani critici, “sovversivi”, che vanno controcorrente, perché il loro sentire non è omologabile alla mentalità corrente. Per dirla con Papa Giovanni Paolo II, non lo stato e i mercati devono essere padroni della vita degli uomini. Al contrario, essi devono essere asserviti alle necessità sociali, alle speranze e ad un forte desiderio di unione. I giovani, portando con sé lo spirito d’innovazione e di crescita, devono assumere i ruoli di contestatori. Dove contestare vuol dire non accettare scelte anticomunitarie, mettersi in discussione, confrontarsi con il mondo che ci circonda e trovare soluzioni adeguate nell’ottica del mutamento in positivo che ha contraddistinto l’umanità nei secoli.
I giovani sono il futuro: non vuole essere affermazione retorica, ma linfa di condivisione delle idee politiche e sociali che essi stessi devono creare.
“Non c’è virtù senza fortuna, né fortuna senza virtù”, scriveva Machiavelli. Non c’è archein senza prattein, né prattein senza archein, aggiunge Hannah Arendt. Come a dire che l’evento della libertà sorge all’interno di un contesto plurale di relazioni umane.
Il dinamismo dell’agire libero esige uno spazio storico-politico, ove trovare un terreno in cui radicarsi e da cui trarre la propria energia.
Facendo eco a Montesquieu, Arendt ha chiamato “principio” l’elemento capace di muovere all’azione, e lo ha tratteggiato come l’oggetto di un amore appassionato e profondo, ponte sulla lacuna tra passato e futuro, tra non più e non ancora. Esso non spinge a ripetere il passato ma a ricordarlo. E riprende la promessa insita in ogni inizio, sia quest’ultimo un puer che nasce o una polis che sorge (concetto noto come “natality”), perché fra nascita umana e fondazione della comunità sussiste un’affinità capace di raccordare antropologia e pensiero politico.
Dopo la catastrofe economica e culturale, in un mondo divenuto inumano, si può tornare a pensare alla politica ricostruendo la polis e la vita dell’uomo? Questa domanda ci chiama a nuova responsabilità. C’è un legane tra agire e iniziare, ed è proprio la facoltà di iniziare qualcosa di nuovo che ci rende capaci di interrompere il già dato, di sottrarci al determinismo storicistico, all’ordinario e alla radicalizzazione del passato.
Quello di cui abbiamo bisogno per ricominciare è una politica amatoriale, che si contrapponga all’attuale area professionalizzata. Occorrono dilettanti competenti, capaci di civismo e volontariato, disposti ad accogliere con realismo efficace le sfide della convivenza civile, per una vita degna di essere vissuta.
Voi, giovani, potete farlo!
Con desiderio di autentico impegno, per poter consapevolmente operare, vi invito attorno a un tavolo ove costruire la città dell’uomo, come proposta per un percorso di formazione e di accompagnamento alla vita politica. Esso, a mio parere, va fondato su una linea interpretativa di tipo antropologico, che riconduce tanto la teoria quanto i problemi concreti ad una soggiacente visione dell’uomo. E a quest’uomo si rivolge, all’uomo del mondo e del tempo.
In questo cammino suggerisco di affrontare temi complessi, esposti in forma chiara esistematica. Questioni di attualità e urgenza sulle quali ragionare insieme, rimanendo su un piano oggettivo e realistico, senza fughe utopiche, sforzandosi di saldare idealità e concretezza, progetti arditi e fattibilità.
Il bene come solidarietà, la ragione come ragionevolezza politica, la libertà come fondamento di una identità onesta, voluta e coltivata senza sosta, l’alterità come risorsa e non come minaccia, la critica serrata della violenza e della predatorietà in nome della giustizia, la riscoperta del dono nei rapporti intersoggettivi : sono luoghi su cui interrogarsi con passione e con decisione, perché ne va della verità e del bene, della libertà e della giustizia.
Ricordate – se mai li avete letti – quei versi di Neruda in cui egli si chiede cosa sia la vita. Tunnel oscuro – dice – tra due vaghe chiarità o nastro d’argento su due abissi di oscurità?
Chiedo a voi: perché la vita, bene di tutti, non può essere un nastro d’argento tra due splendori? Fate in modo di interpretarla e di viverla in questo modo bellissimo.
|
- Hans Jonas e l’onnipotenza di Dio -
L’Olocausto, con l’uccisione di milioni di ebrei, pone una serie di interrogativi sulla presenza di Dio in tale drammatico evento. I credenti, ma anche molti teologi e filosofi, si sono a lungo interrogati su tale importante quesito: se Dio esiste, come ha potuto permettere tutto questo?
Una risposta originale ed affascinante è stata fornita dal filosofo tedesco ebreo Hans Jonas (1903-1993), esposta per la prima volta nel 1984 in una conferenza presso l’Università di Tubinga sul Concetto di Dio dopo Auschwitz. Peraltro Jonas aveva perso la madre proprio nel campo di sterminio nazista
- Il “Tempo” nelle Confessioni di S. Agostino -
Nelle Confessioni di S. Agostino, opera scritta alla fine del IV secolo, in cui l’autore descrive le tappe della sua conversione e la sua ricerca della Grazia divina, particolare spazio è riservato al problema del tempo. Di esso Agostino si occupa nell’undicesimo libro dei tredici di cui è composta l’intera opera e lo fa all’interno del discorso sulla creazione.
Egli parte dalla insidiosa domanda, formulata dai filosofi pagani, in primis manichei e neoplatonici, su cosa facesse Dio ‘prima’ di creare il cielo e la terra?
Dio – afferma Agostino – hacreato il mondo non da una materia qualsiasi, ma dal nulla. Dal racconto della Genesi, infatti,si evince che egli creò anche la sostanza, non soltanto l'ordine e la disposizione delle cose. Nel momento stesso in cui Dio ha iniziato la creazione si è formato anche il tempo, egli è dunque l'iniziatore di ogni tempo.
|
PREMESSA
1) IL SISTEMA FIERISTICO : INNOVAZIONE E NUOVI MODELLI DA PERSEGUIRE
2) GLI SCENARI FUTURI
3) STORIA E RUOLO DEL QUARTIERE FIERISTICO IN BASILICATA
4) LE OPPORTUNITA’ DEL SISTEMA FIERISTICO IN BASILICATA. IL CIRCOLO VIRTUOSO PER IL TERRITORIO
Premessa La riqualificazione di aree urbane strategiche rappresenta oggi, non solo una delle più cruciali sfide architettoniche e urbanistiche con le quali i territori devono misurarsi, ma anche un’opportunità importante di sviluppo e miglioramento di condizioni sociali, economiche e culturali. L’importanza di tale fenomeno è ancor più evidente se si pensa che tale processo svolge un ruolo fondamentale nei confronti dei futuri assetti urbani, nella definizione di nuovi equilibri e relazioni tra ambiti in trasformazione e contesti consolidati. L’elaborazione di una proposta progettuale per la riqualificazione del quartiere fieristico BASILICATA FIERE , unica realtà fieristica della regione è intesa, in tal senso, come un’azione strategica di valorizzazione di un‘area che, per la sua particolare ubicazione, rappresenta un’occasione importante di sviluppo della intera comunità lucana e un’opportunità fondamentale di ricucitura ambientale e urbanistica di luoghi suggestivi, ma oggi privi di relazioni significative. Il progetto nasce dunque a partire da alcune considerazioni preliminari, che si ritengono obiettivi fondanti della proposta, rispetto al concetto di riqualificazione: Basilicata Fiere srl Area Industriale - 85050 Tito Scalo (Pz) Tel. 0971485230 www.fieradibasilicata.net - fieradibasilicata@libero.it Basilicata Fiere srl - REA 139798 - P.IVA 01859530766 - Offrire una soluzione progettuale in grado di promuovere livelli di innovazione integrati in una logica di rispetto e valorizzazione delle preesistenze; - Proporre uno sviluppo progettuale adeguato alle future esigenze di una struttura in evoluzione, ma al contempo attento alle problematiche del rispetto ambientale e del contenimento energetico; - Realizzare un intervento in grado di operare una saldatura dell’area con il contesto urbano secondo un disegno degli spazi che sappia stabilire nuove relazioni con il tessuto imprenditoriale e commerciale del luogo ; - Prefigurare uno sviluppo futuro in grado di valorizzare le potenzialità delle aree circostanti, integrando scelte progettuali specifiche in una dimensione più ampia, secondo una più consapevole logica di permeabilità degli spazi di aggregazione e svago, tali da poter estendere i propri effetti positivi anche alle aree limitrofe.
|
Quando c’è neve quel territorio pare simile a qualunque altro, la neve nasconde il bello della piana e il brutto delle alture lasciate abbandonate, l’occhio volgendosi intorno disegna curve d’incanto quasi fossero colline irlandesi che scendono mansuete a valle e poi riprendono dolce, salendo a ridisegnare altre curve leggere e poi ancora altre finché s’inceppano contro ripidi costoni o si spezzano per un vallone a strapiombo. La neve è mano d’artista, cancella viottoli scoscesi, annulla vuoti per frane, spazza le differenze tra ruderi senz’anime e masserie abitate. Vento e neve rendono giustizia, le cose pari sono, pianura e montagna si accorciano legate a colline, ricchezza e povertà si confondono sotto gli ampi mantelli di una natura tinteggiata di bianco. Qui, in Basilicata, è la nostra Irlanda, tra le colline di Sant’Andrea di Atella, di Sgarroni, di San Vito, di Monticchio Laghi, di Monticchio Bagni, in territorio di Rionero e di Atella dove il Vulture, dall’alto della sua superbia, maestoso impone la sua mole e guarda lontano, oltre i monti del Carmine, di Santa Croce e di Li Foi a Sud, mentre a Nord/Est occhieggia ai mari di Puglia e al Gargano di san Michele e di padre Pio, e a Nord/Ovest alle colline e ai monti dell’Irpinia.
Tra colle e monte sorgono borghi capaci di conservare usanze e tradizioni mentre comunque camminano nelle attività umane più moderne. Conservano e rinnovano abitudini di buona e sana vita e indicano capacità di esistenza possibile. Propongono, questi borghi, suoni, odori, paesaggi, modalità di vita a misura d’uomo che solo occhi distratti e menti labili non riescono a vedere e ad indagare.
La vita sembra voglia fermarsi? Ma non è così. È la neve, quando nevica, ad indicare il tempo che avanza e le dinamiche naturali, sono i fiocchi e i venti ad immergerci nel tempo, e ci pungono e ci spingono ancora avanti, a trovare le strade, avanti coraggio, ognuno la strada della propria vita. Ma come non accorgersene! E mentre il tempo avanza e corre, lentamente o più velocemente assecondando il proprio spazio di vita e le proprie abitudini confondendosi con lo spazio fino a farne un’unica entità razionale e sensibile spazio-temporale, uomini e donne, bambini e anziani, ragazzi e ragazze qui conducono esistenze accettabili, accettando i mezzi o procurandosene altri, capaci anche di lauree importanti.
Tra questi borghi, a Sant’Andrea di Atella, il tempo corre anche quando si fa il pane come si faceva una volta in altro tempo. Il tempo niente dimentica completamente. Anzi si rinnova. Questo pane è buono come il pane fatto in casa. Sono usanze e tradizioni, abitudini di vita buona, in questi borghi, tra suoni e odori, sospiri e paesaggi con tv e internet, smartphone e tablet, webcam e un selfie tenendo in braccio magari simpaticamente una gallina, tecnologie che proprio non riescono ad annientare. Anzi quelle abitudini resistono. E si compiacciono della loro esistenza. Anche a Sant’Andrea di Atella si fa il pane, buono come il pane fatto in casa. Altri odori, altri sapori.
|
Nell’addensamento di riflessioni, nelle quali converge la tessitura della propria storia e si frange la scultura metamorfica dell’esistente agire, la parola si dilata in una dimensione mito-poietica quale luogo in cui sostare in presenza attiva.
Questa la direzione molteplice che Pasquale Tucciariello intraprende; in essa si condensano studi e passioni autorali che, nell’anelito, manifestano la vita, spinti da un’energia che, pur allusiva, non prevede la divagazione in luoghi trasmutati da ossessivi condizionamenti.
L’afflato di libertà rifugge dalla macchinazione celebrativa; al contempo rifulge di una sobria tessitura di pensieri distanti da un presente culturale che, per sua natura, si rafforza nella valenza delle intercapedini mobili di tempi associabili, alla luce delle rifrangenze che si sporgono da territori in mai eccedente rigenerazione per raggiungere un chissà dove attraverso le modalità dell’infinente viaggio.
E si sporge l’autore nel confronto empatico con le coltivazioni incessanti di un sapere che mai cede alle lusinghe della convivenza stabilizzante. Viepiù, è nei suoi spalti che scorge quanta vivenza posseggano note nascoste e ancora inesplorate del sapere e che egli ritrae perché alla superficie delle cose si franga un’immagine tonica, fuggente al clima dell’assoluto.
Nel tacito accordo con le qualitative cadenze sapienziali, l’autore promuove un tracciato transitante, che conquista per l’intenso e indomito svolgersi degli incontri. Garbato il tono e dissuasivo di un protendersi all’infuori di sé come a dettar legge sulla maniera del conoscere. Quale il motivo, se non nel dinamismo che traspare nelle volute vocaliche e che insinua l’invito ad adottar se stessi nell’imprevedibile impronta che il sapere evidenzia.
Non segno. Né, tantomeno, ludico raffronto di presenti e passati. Quali, poi, se non quelli personalmente trascorsi e ricorrenti, senza per questo declinare verso un imitativo respiro modellato, che suggella l’impegno claustrofobico di corrispondenze dotate dell’unicale afflato sapienziale. Al contrario, inequivocabile è la svolta nell’eterno insistere, perché i rimandi ricongiungano le soglie mai sconfitte delle memorie; perché appaiano vaganti e di forza continua tra le nano-sfere antisistemiche di un imperturbabile gioco al nascondimento, dal quale l’autore si astrae per evitare l’annichilimento del pensiero in un inquietante calcolo delle conseguenze .
L’infida trama delle conseguenze incupisce e inganna. E non inganno è la quieta compresenza di Tucciariello nel coltivare continuo quale pre-destinazione humana e accolta come dono di essere pensante. È l’immaginabilità che accompagna le cadenze, fino a incorrere nella vicenda del dettaglio – nuova sintesi che compare nell’incastro di saperi che, in tal modo, sconfiggono la precarietà del tempo assente e ne diluiscono l’indomabile stigma che intende piani dissociati.
Nella simbiosi di un tempo cromatizzato dalle vicende che animano la meditazione, si scorge così una geometria imperniata sulla variabilità dei pensieri minimi e sulle traiettorie in continua apertura. Un nuovo impianto totalmente pleocroico insiste ed è a un nuovo, identitario impianto che la voce sollecita.
Così la parola, nel rivolgersi a un assetto mobile culturale quale esperienza estensiva e ideale tattile di vita, assume criteri coerenti di metodo che finalizza l’esplorazione del se stesso, nell’interezza flessibile e parimenti addensante. In essa è la pienezza di conversazioni avvicendate che, nel tempo privato, estese a onorare il circadiano e l’oltre, intraprendono l’ulisside travaglio senza termine che ristora.
È l’ancora e nell’ancora la parola mantiene il suo tratto di soggetto errante, al pari dell’individuo che in essa materializza un tracciato pensativo che dall’accumulo distrae la sintesi a sé efficace. Viepiù sonora, nella parola fonica insiste il sovvertimento vitale di un ordine che s’arrende a compensativa coesione e, in apertura, bilancia la natura intrinseca (e sovente in-narrata) del conoscere, frantumando i suggelli topici assunti al tempo. Sicché discorso puntuale si nobilita nella visione contigua dello stesso pensare. E non incorre in errori, giacché nella parola scarna di abbellimenti – e refrattaria a interruzioni che potrebbero derivarle dall’intromissione di abitudinarie riflessioni celebrative –, si rinnova il piacere di una formazione che impegna l’incessante risveglio.
|
La fede religiosa e la scelta di vita cristiana si sono ampiamente diffuse in Basilicata sin dall’alto Medioevo. Ne sono significativa testimonianza i resti di cenobi, eremi, laure (aggregati di celle separate in cui vivevano i monaci bizantini) e chiese rupestri sparse nei luoghi silenziosi della regione.
I Basiliani
Dal VI secolo in poi monaci basiliani, seguaci di Basilio vescovo di Cesarea, per sfuggire all’arianesimo (movimento religioso fondato da Ario, prete di Alessandria che negava la natura in Cristo e per questo condannato dalla Chiesa) si rifugiarono nell’Italia meridionale. Stabilitisi prima in Calabria dove fondarono comunità, eremi, laure penetrarono poi nelle contrade interne della murgia materana, nei boschi silenziosi di Carbone e di Colobraro raggiungendo i boschi del Vulture per ricongiungersi con altri monaci basiliani provenienti dalla terra d’Otranto.
All’epoca, ma anche dopo, il Sud d’Italia era lacerato da guerre tra Greci, Ostrogoti Longobardi, Bizantini, Saraceni. Pochi monaci seguirono gli eserciti, altri, bisognosi di una vita spirituale lontana dalla brutalità della guerra, ripararono in luoghi solitari portando con sé culti, fedi e pratiche religiose tipicamente orientali. Cenobi di basiliani erano presenti a Carbone (il monastero di S. Anastasio, fiorente fino al XV secolo, aveva un’estensione territoriale non trascurabile), a Colobraro (dove il nome della contrada S. Maria di Cironofrio ricorda la loro presenza), a Lauria il cui nome deriva proprio da laura, a Maratea, a Pisticci. Qui esistono strade che li ricordano nel nome: S. Basilio, S. Teodoro.
Nella zona del Vulture a Monticchio nella grotta naturale di S. Michele Arcangelo scavata nella roccia si conservano resti di affreschi bizantini raffiguranti Cristo benedicente tra Maria e S. Giovanni. I basiliani non praticavano soltanto la penitenza l’umiltà e la carità. Ma lavoravano la terra, erano predicatori affascinanti e conoscitori della medicina araba. Sotto la spinta e l’esempio dei monaci, le popolazioni che ruotavano intorno ai cenobi dissodavano la terra, praticavano nuove colture, imparavano a sfruttare gli animali. Così nei paesi della Valle del Sinni, della zona del Vulture, a Lauria, Trecchina, Lagonegro. In numerosi casi i cenobi possedevano vasti territori frutto di donazioni e, dal punto di vista politico e economico, vivevano una vita indipendente dall’ imperatore bizantino o dai longobardi e dai piccoli feudatari. Il monastero di Carbone, la SS. Trinità di Venosa, le comunità monastiche di Monticchio, il monastero di S. Michele di Montescaglioso ed altri ancora possedevano vasti territori, numerosi privilegi e ricchissime rendite. L’abate agiva da vero signore, si imponeva su terre e persone: a lui tutti obbedivano dal monaco al contadino al servo al fittavolo.
I Benedettini
Con la caduta della potenza bizantina nel Mezzogiorno d’ Italia e con l’avanzare del monachesimo benedettino verso il X secolo, i cenobi basiliani cominciarono a decadere e ai basiliani subentrarono i benedettini sostenuti dai longobardi e dai normanni. Fondatore dell’ordine fu Benedetto da Norcia (480-547) che, con l’esempio di umiltà e povertà, abbandonò la vita agiata, abbracciò il Vangelo e visse predicando e lavorando.
Il monachesimo benedettino fu espressione di una nuova religiosità e di un nuovo modo di intendere il rapporto con la divinità. Non più distaccata dal mondo nel chiuso isolamento del cenobio e immerso nella preghiera quanto nel lavoro in comune e tra la gente. ”Ora et labora” (prega e lavora) era il motto con cui si sintetizzavano la vita e l’ideale benedettino.
Il movimento interessò molte zone lucane dal potentino al materano, dalla Valle dell’Agri alla zona del Sinni a quella del Vulture. Nel Medioevo la cultura benedettina svolse un ruolo importante in terra lucana. Centri di cultura benedettina ci furono a Matera, a Venosa (abbazia della SS. Trinità), a Montescaglioso (abbazia di S. Michele), a Pisticci, a Monticchio.
Nel secolo XI i monasteri ampliarono notevolmente i loro possessi con donazioni e acquisizioni di terreni e fabbricati nelle città vicine e divennero sempre più fiorenti. I longobardi fecero loro molte donazioni a volte per generosità, a volte per calcolo politico per tenere buoni i sudditi sui quali il monastero esercitava grande influenza. Donazioni del genere comprendevano non solo case, terreni ma anche contadini coloni che, come cose, passavano alla giurisdizione dell’abate.
I normanni confermarono il patrimonio e i privilegi dei monasteri. A Venosa il monastero della SS. Trinità, costruito con blocchi di un antico anfiteatro romano, ricevette doni dai principi longobardi e normanni e fu un grande centro di cultura benedettina; una comunità ben organizzata che possedeva terreni e chiese anche in zone lontane sulla costa ionica a Scanzano e Policoro e sulla costa adriatica nei pressi di Barletta. Ancora oggi i resti testimoniano la magnificenza del complesso.
Sul Vulture a Monticchio i benedettini fondarono il monastero di S. Michele nei pressi della grotta già rifugio dei monaci basiliani. Qui nel 1059 il papa Nicolò II, che nel Concilio di Melfi aveva sancito con Roberto il Guiscardo il potere normanno nel mezzogiorno, si recò con un numeroso seguito di vescovi e cardinali per consacrare la grotta basiliana al rito latino dei benedettini. A breve distanza dall’abbazia di S. Michele i ruderi di un altro monastero benedettino: S. Ippolito evidenziano le ricchezze conseguite e gli ampliamenti effettuati dall’ordine benedettino nella zona del Vulture. L’abbazia di S. Michele di Montescaglioso ricevette vasti territori e casali come quella di S. Maria la Sanità di Pisticci. L’abate di S. Maria di Banzi possedeva beni appartenuti a comunità basiliane.
Come si vede le abbazie furono centri di potere e di culture e l’abbate, carica importante e molto ambita, era, a volte, più potente del feudatario. Tra di loro molti furono eletti vescovi e qualcuno papa. Lo stesso pontefice Urbano II, durante un viaggio nel meridione, visitò i monasteri di Venosa, Banzi e Matera consacrando chiese ed altari. L’accentramento di vasti possedimenti e le ricchezze di questi monasteri, poco consono alla stessa regola di S. Benedetto, suscitò profonde delusioni su quanti predicavano austerità e ripristino della regola. Continui richiami all’ideale di povertà furono formulati da personalità come Giovanni Gualberto, Guglielmo da Vercelli, che aveva fondato un monastero a Montevergine, Giovanni da Matera che ne aveva fondato uno a Pulsano, eremi assorbiti poi da monasteri più ricchi.
Oggi dei monasteri benedettini restano poche tracce. Dopo l’unità d’Italia la legge Mancini segnò la fine di molte comunità. Ma grazie a quest’ordine religioso, molte conoscenze del medioevo sono state salvate e tramandate alle generazioni future.
I Francescani
La presenza dei francescani nei vari paesi lucani risale agli inizi del XIV secolo. Il movimento francescano fondato dal fraticello di Assisi, predicava un ritorno al Vangelo, alla vita povera e all’elemosina. Era lacerato da piccole riforme e da correnti opposte: Conventuali, Spirituali, Osservanti. Chi voleva vivere nell’intera povertà e chi era disposto ad accettare doni dai nobili ed ingrandire il patrimonio della propria comunità. Tuttavia il movimento dette alla Chiesa lucana molti vescovi.
Nel 1528 la Bolla emanata da Clemente VII riconobbe la Congregazione dei Frati Minori che da allora si chiameranno Cappuccini. Alla fine del XVI secolo numerosi conventi francescani si registrarono in varie zone della Basilicata: a Potenza (S. Antonio La Macchia), a Muro Lucano, a Sant’Arcangelo, a Melfi. Solo per citarne alcuni.
L’ordine francescano fu povero rispetto allo splendore delle badie benedettine di Venosa, Montescaglioso e Pisticci. I francescani avevano pochissime rendite e un patrimonio irrisorio; tenevano biblioteche e scuole di teologia come a Melfi ma vissero soprattutto di elemosine. Come i Cappuccini valenti predicatori che si adoprarono molto per i malati e vissero di elemosine pur non disdegnando doni. Nel XVII e XVIII secolo le file dei religiosi si ingrossarono. Altri ordini monastici si aggiunsero: i domenicani, i carmelitani, altri ancora ed anche monasteri femminili come le Clarisse di Tricarico.
Di tutte le badie e conventi, di cui è disseminata la Basilicata, buona parte è stata recuperata. Aziende turistiche, alberghi, centri di studio hanno preso il loro posto. Recentemente questi ultimi, per mancanza di risorse, vanno perdendo il loro impulso. “Con la cultura non si mangia” blatera qualcuno dimentico che solo se pulseranno di vita i centri di studio, sarà salva non solo la Basilicata ma l’intero Paese Italia.
Febbraio 2017 Graziella Placido
|
La prof.ssa Primalda Forcignanò di Lecce non è più tra noi. Alla soglia dei suoi 96 anni tenuti benissimo, si è spenta per un brutto male inatteso, il male di questi nostri decenni, implacabile. Ci era molto cara, per un rapporto epistolare costante da circa 7 anni, per interessi letterari, comuni letture preferite, altre amicizie condivise. Giovanissima, laureanda in materie letterarie, frequentava ad Ubino le lezioni di Carlo Bò insieme con Vincenzo Buccino, suo coetaneo. Se ne era innamorata. Poi, dopo la laurea, si erano perduti, lei nel salento, lui prima nel Vulture e poi in Romagna, tra Forlì e Cervia. Lei con l’insegnamento di lingua e letteratura italiana negli istituti superiori, lui insegnando italiano e latino, poi preside, mentre scriveva importanti libri. Lui, Vincenzo, un matrimonio a Cervia dal quale ha avuto tre figlie; lei, Primalda, andata in sposa ad un imprenditore leccese, Paladini, dal quale ha avuto un figlio, Antonio, ottimo amico mio coetaneo, docente di lingua e letteratura inglese in pensione. Quando, rimasta vedova circa 10 anni fa, ha cercato di rintracciare il suo giovane amore, nel web ha trovato me, editore del Buccino. Si è così stabilito un rapporto di grande amicizia. Le stesse letture preferite, Dante, Goethe, Thomas Mann, Platone, Heidegger. E naturalmente lui, Buccino. Dopo ha conosciuto anche la mia scrittura. E non mi ha più lasciato. Pretendeva leggere prima di ogni altro i miei racconti, uno per uno, quelli editi e quelli non ancora editi. Ha letto e riletto tutto. Scriveva che mi conosceva come nessun altro. Informato dal figlio Antonio qualche minuto dopo la sua morte, avvenuta nel tardo pomeriggio, il giorno dopo, domenica scorsa, alle cinque di mattina con mia moglie ci siamo messi in macchina. Alle 9 eravamo a Lecce, sotto il portone di casa. Antonio è sceso giù piangendo la scomparsa della mamma. E piangeva come un bambino. Siamo saliti al terzo piano. Lei era lì, nella bara, una bellezza antica oltraggiata dal male ma in atteggiamento dignitoso. Nella sua camera di studio, sul tavolo la mia foto incorniciata, i libri di Buccino, la Divina Commedia, un saggio su Goethe, i miei libri, due cartoline e una lettera che non aveva fatto in tempo a spedirmi. Era ammalata da 8 mesi e mi ha tenuto nascosto ogni cosa, nessun cenno neanche nella sua ultima lettera di pochi giorni prima, neanche nell’ultima telefonata di qualche settimana prima. Anche al figlio ha imposto il silenzio. Ne sono rimasto offeso, ma la perdono e capisco. Ha voluto evitarmi la sua stessa sofferenza. Ciao Primalda. Grazie. Il buon Dio ti dia pace. E sarai presente nelle mie preghiere.
7 Febbraio 2017 Pasquale Tucciariello
|
Berta, la zia del prof. Precht, noto filosofo tedesco vivente, non deve morire, se non di morte naturale o di morte accidentale, voglio dire non volutamente procurate da alcuno. Zia Berta campi pure cent’anni ed anche oltre, perché la sua felicità appartiene a lei stessa medesima, la sua felicità e la sua carta di identità sono la stessa cosa. Procurare dolore od infelicità a zia Berta è come cambiare i dati della sua carta di identità, falsificarla. Il falso è reato nelle società articolate democraticamente. Procurarle la morte perché essa procuri vantaggio alle casse dello Stato che così non pagherebbe più la sua pensione e tantissimi altri se ne potrebbero giovare ottenendone benefici vari, potrebbe significare conseguenzialmente che lo Stato si gioverebbe della morte di due pensionati, poi di tre, magari di tutti. Lo Stato potrebbe garantire servizi eccellenti, stipendi ai disoccupati, il lavoro costerebbe molto meno (non vi sarebbero prelievi dalle retribuzioni per incrementare la pensione finale perché nessun lavoratore percepirebbe una pensione). In pratica la vita umana si fermerebbe a 65/67 anni, l’età pensionabile.
Lettore - E se lo Stato non pagasse più la pensione, se ognuno se ne costruisse una per conto suo, lo Stato non sarebbe soggetto a pagare pensioni perché ognuno, col capitale che avrebbe raccolto in quarant’anni di lavoro, potrebbe pensare singolarmente al suo sostentamento.
Tucciariello - Questo è vero. Comunque in questo caso lo Stato non incasserebbe più un solo Euro, riferito alla sua pensione, prelevato dalle retribuzioni di ogni singolo contribuente. Ma un pensionato che è riuscito a mettere da parte 5 mila euro all’anno (circa 400 euro al mese) in quarant’anni di lavoro, con gli interessi avrebbe un capitale minimo minimo raddoppiato se non triplicato, cioè si troverebbe con 600 mila euro a meno di settant’anni. Lo Stato non ci avrebbe rimesso nulla!
Lettore - Anche questo è vero, ma io obietto: ma quei 600 mila euro, non potrebbero servire ai figli, che potrebbero avviare un’attività economica importante, o farsi una casa, viaggiare in Italia o all’estero, vedere, conoscere, magari cercare fortuna altrove?
Tucciariello - Amico, ti rispondo, ma tu che vuoi, prendere possesso di ciò che non è tuo, non ancora tuo, sopprimendo chi naturalmente ha diritto al possesso del bene? Hai tu il diritto di uccidere per averne un bene immeritatamente? L’utile non è un bene in assoluto. E’ un bene se è compenso di un’azione, un’attività, una prestazione. Utilità e moralità sono una carta di identità, una e una sola. Non è morale uccidere una persona anche se l’atto ti procuri vantaggi. Qualora estendessi la soppressione di una persona per trarne benefici – diretti o indiretti – prima o poi la prossima vittima potresti essere tu. Già, amico, la prossima volta potrebbe toccare proprio a te. Perciò non essere stupido e ragiona. Sofferenza, dolore, morte o felicità, salute, vita sono percorsi che si intrecciano e si confondono o possono anche escludersi (cessa la vita se viene la morte), ma sono solo fasi alterne della vita di una persona umana. Perciò, dai valore alla tua umanità, proteggila, sostienila. Ha ragione il prof. Precht: zia Berta dovrà restare in vita. E’ un suo diritto.
Abbiamo il diritto di mangiare gli animali?
Noi mangiamo carne e pesce di esseri che riteniamo a noi inferiori. E se altri esseri, superiori a noi, mangiassero le nostre carni? E’ vero, noi abbiamo coscienza di ciò che facciamo, non altrettanto animali e pesci. Almeno così ci viene detto. Ma nuovi studi, nuove ricerche, non lo escludono. L’indagine medico-scientifica non è ancora in grado di certificare la presenza di autocoscienza in animali e pesci. La loro vita intima, per ora, è ancora questione piuttosto sconosciuta, non abbiamo certezza di un sentimento dell’io, molto forte nella specie umana, come dell’io corporeo, come dell’io prospettico. Nell’uomo c’è consapevolezza di essere nel tempo-spazio. Ogni brandello di materia contiene i mattoni dell’universo, le sue leggi fondamentali, la gravitazione per esempio. Non abbiamo certezze che situazioni emotive sviluppate siano presenti negli animali. Tuttavia ogni tanto qualcuno racconta di storie strane. Un amico di famiglia racconta di una cavalla Pony che, quando le è stata sottratta la figlia di appena quattro mesi, non ha più mangiato e si è lasciata morire. Anch’io sono personalmente testimone di un caso analogo. Era una stupenda cavalla ancora molto giovane, non ha più toccato cibo. E’ vero, la risonanza magnetica non ci conferma la possibilità di una autocoscienza animale. Ma non ce la può escludere. Gli elefantini rimasti senza madre diventano tristi, spaesati, pur allevati dal gruppo si mostrano impazienti, evidentemente rivogliono la mamma naturale. Questo dimostrerebbe che alcuni vertebrati hanno un’autocoscienza in forma assai ridotta. Allora diciamo, in attesa di ulteriori conferme accertate: non ci rimane che l’intuizione. Dovremo per ora cercare di intuire lo stato degli animali quando li macelliamo, dobbiamo entrare in rapporto con essi. Vi è una riflessione razionale da affrontare, vi è un problema di istinto di fronte all’argomento, ci vogliono nuove sensibilità. La questione è lo stato emotivo di una società che si pone domande. La morale di un popolo non dipende da una definizione astratta della natura umana. La morale dipende dallo stato emotivo di una società. Cioè dipende dalle riflessioni che si fanno intorno alla natura vivente, perfino le piante non escluse. E’ come se noi, spingendo la ragione ancora più oltre, volessimo domandarci se anche le piante soffrissero e ne avessero coscienza di un loro stato. Sono concetti problematici di difficile soluzione, per ora. Ma l’indagine razionale, filosofica e sperimentale, va avanti.
Come dobbiamo comportarci con le scimmie antropomorfe?
Il prof. Precht parla di tre diritti fondamentali dell’uomo che potrebbero estendersi anche alle scimmie antropomorfe: diritto intoccabile alla vita, diritto all’incolumità fisica, diritto al libero dispiegamento della propria personalità. Le scimmie antropomorfe sono animali che hanno la stessa forma fisica dell’uomo. E a quanto pare l’intelligenza è di poco inferiore a quella dell’uomo. Scimpanzé, bonobo, gorilla, orangutan potrebbero ottenere, di qui a non molto, gli stessi diritti dell’uomo, poiché avrebbero una vita sociale ed emotiva simile alla nostra. Tra noi e loro la differenza genetica è minima: “il 98,4 per cento del DNA umano è uguale a quello degli scimpanzé” – scrive il prof. Precht in “Ma io chi sono?”. Di qui la necessità di inserire quella specie animale in un corso nuovo, un nuovo linguaggio che dovremo ancora scoprire e fare nostro, il nostro approccio col mondo animale in genere dovrà essere riconsiderato. Dovremo trattare alcune specie allo stesso modo degli umani tanto risultano affini le caratteristiche genetiche. E si sta scoprendo che inserendo quegli animali in un nuovo sistema sociale (allontanandoli si capisce dal loro mondo ed ambiente naturale), in presenza di un’adeguata istruzione, le prestazioni culturali aumentano notevolmente. Isolati quegli animali in laboratorio, i risultati sono sconcertanti. Certo portarli a dimensione umana sarebbe un bel rompicapo. E’ vero che mostrano di avere autocoscienza, intelligenza ed altre forme complesse di comunicazione e di organizzazione sociale. Ma abilità linguistiche, di fare calcoli, di organizzarsi non presuppone conseguenzialmente che potranno integrarsi nella comunità morale umana. E’ terribile perfino pensarci. Però, è chiaro, a questo punto, che non bisognerà trattarli nella stessa categoria umana e morale, ma è altrettanto certo che gli animali devono essere considerati in maniera diversa. Dovremo cominciare a considerarli almeno diversamente. E sicuramente avremo bisogno di tempo, un tempo per la nostra educazione al bene animale. E forse non dovremo più chiamarli animali ma trovarne un nome più affine alle caratteristiche di un mondo più strettamente vicino al nostro. Addio fettine ed arrosti? Nei vegetali e nei legumi c’è tutto ciò che ci occorre. E per ora questo è un dato certo.
Perché dobbiamo proteggere la natura
Proteggere la natura è come proteggere noi stessi. Eliminare qualcosa dalla natura è come eliminare qualcosa di nostro che ci appartiene, un pezzo di pelle, un’unghia, perfino un dito, una menomazione, qualcosa in meno. L’uomo si è impadronito del Pianeta e lo domina, distrugge. Specie vegetali che hanno un loro ruolo e specie animali che hanno esse pure un ruolo, oltre ad insetti e microrganismi che scompaiono sono problemi vitali per la vita dell’uomo che invece contamina i mari, intossica l’aria, saccheggia le risorse, vinto da una élite di magnati che hanno praticamente preso in consegna la risorsa-ambiente e la utilizza per scopi molto spesso immorali. C’è troppa economia in giro senz’etica, e non c’è controllo. Balene che scompaiono, tigri ridotte a poche migliaia di esemplari, elefanti uccisi per ricavare avorio dai denti, foreste che si riducono, il Pianeta che si riscalda, falde acquifere inquinate, piogge acide, aria insalubre. Il destino dell’uomo è segnato: per quanto tempo ancora potrà resistere? Eppure, la Convenzione Cites di Washington del 1973 conteneva normative sul commercio internazionale delle specie di fauna e di flora minacciate di estinzione. Alcuni dati. Ogni anno il 5 per cento del suolo è devastato da incendi spesso dolosi, appena il 6 per cento del Pianeta è coperto da foreste tropicali. Se si continua a tagliare con questa frequenza nel 2045 non avremo più alberi, altre specie saranno estinte, la Terra si riscalderà ulteriormente, con buona pace di ciascuno di noi che insegue ricchezze, benessere immediato, consuma risorse, non risparmia e poco crea in termini ambientali. Si ha come l’impressione che negli ultimi decenni la crisi economica abbia messo in soffitta sensibilità ambientali ed etica nei comportamenti umani. Siamo tutti troppo presi dalla crisi finanziaria o da investimenti importanti e non c’è più tempo per riflettere sui nostri destini umani di qui ai prossimi decenni. L’etica dell’ambiente è carente negli studi. C’è rassegnazione. Troppa politica, troppa partigianeria in Italia e altrove, poca riflessione sull’ambiente. E invece l’ambiente dovrebbe essere volano di sviluppo. Investire nei boschi è più conveniente. Smettere di regalare risorse economiche alle persone e favorire invece, con quelle, investimenti sulle cose significa produrre beni e servizi che poi tornerebbero a tutto vantaggio delle persone. Invertire la rotta. Una rivoluzione. E’ spostare il punto di vista. Non abbiamo scelte, mi pare. E forse siamo ancora in tempo. Ma non accadrà assolutamente nulla di tutto questo. Chi guida la politica e l’economia purtroppo non è lo statista capace di guardare lontano, oltre il proprio naso. E’ solo un politico, anzi politicante. E l’imprenditore spessissimo non si fa scrupoli, non c’è controllo sociale efficace da questo punto di vista. Proteggere la natura, difenderla, alimentarla, utilizzarla per ricavarne reddito e ricchezza senza comprometterla è imperativo categorico, senza se e senza ma. Lo studio di questo straordinario testo di Richard David Precht ci indirizza a modificare atteggiamenti e comportamenti di vita e di relazione.
Pasquale Tucciariello
|
Carissimi giovani,
mi rivolgo a voi perché mi state a cuore. E pensando a voi, la prima parola che mi viene in mente è “futuro”. Dire giovani è dire futuro. A me piace pensare che il futuro dei giovani è il presente e che il futuro lo state decidendo ora. Esso non sarà molto diverso da come state realizzando il vostro presente. Il futuro vero non è quello che sta ad aspettare lasciando passare il tempo, ma quello che si anticipa fin d’ora attivamente. Il futuro viene incontro nel presente a chi lo prepara con laboriosità ed impegno.
Perciò voglio condividere con voi alcune mie considerazioni di carattere etico-politico. E vi prego di essere pazienti.
Pongo una domanda a me stessa e a voi: è possibile parlare ancora oggi di “bene comune” come principio ispirativo fondamentale dell’agire politico?
Se si guarda agli scenari e ai protagonisti della politica italiana degli ultimi tempi, si è tentati di dire di no. La gente comune sente distante il dibattito politico, non concentrato sui problemi reali delle famiglie.
C’è chi – per sostenere l’inattualità del tema “bene comune” – invoca la società “liquida” postmoderna, dove tutti hanno un proprio modo di comprendere il bene, spesso in antitesi con altre visioni: è questo che renderebbe impossibile individuare mete condivise, per cui ci si potrebbe accontentare di regole minime che garantiscano la reciproca tolleranza, rinunciando ad ogni interesse per il “bene comune”. C’è chi, constatando la sproporzione fra le energie spese a proporre e sostenere leggi che riguardano pochi e quelle destinate ai problemi che riguardano tutti, conclude che siamo ormai nel tempo in cui la legge del più forte ha soppiantato la forza della legge, lasciando libero il campo al potente di turno perché tuteli e promuova i propri interessi, anche a scapito di quelli dei più.
Alcuni comportamenti di uomini politici, poi, segnati da una impressionante decadenza etica, confermano la lontananza vistosa tra agire politico e tensione morale. Il bene comune appare disatteso, irrilevante: ne deriva una diffusa sensazione di disgusto verso gli scenari della politica, che in alcuni diventa tentazione di disimpegno e di qualunquismo, in altri persino di rivolta.
Che me ne importa della politica?! E’ una frase ricorrente, un atteggiamento diffuso. Che mi fa venire in mente la storiella di due emigranti contadini che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno dei due dormiva nella stiva. L’altro, che stava sul ponte, si accorgeva che c’era una forte burrasca con onde altissime che colpivano l’imbarcazione. Il povero contadino, impaurito, chiede al marinaio: “ma siamo in affonda”. Il poveretto corre nella stiva ad allarmare il compagno: “Beppe, Beppe! Svegliati! Se continua questo mare il bastimento affonda”. E quello: “Che me ne importa…non è mica mio!”. Questo sta a dire l’indifferentismo alla politica di chi non possiede coscienza civica e non si rende conto di essere parte di un tutto, e non da solo il tutto.
Una considerazione fatta molti anni fa da Corrado Alvaro può essere utile per reagire ad un simile quadro:
La tentazione più sottile che possa impadronirsi di una società è quella di pensare che vivere rettamente sia inutile.
Per ritrovare il senso e la passione del “vivere rettamente” è necessario tornare alla forza critica del bene comune come
L’insieme di quelle condizioni di vita sociale che permettono, sia alle collettività che ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente (Gaudium et Spes, n.26).
Il servizio del bene comune implica dunque la responsabilità e l’impegno per la realizzazione piena di tutti e di ciascuno come condizione fondamentale dell’agire politico. Questo è possibile solo se il bene comune non è la semplice risultante della spartizione dei beni disponibili, ma una meta che trascende ciascuno con la sua esigenza morale e proprio così ci accomuna.
Sarebbe però sbagliata l’idea che il bene comune sia definito nella sua forma concreta una volta per tutte, senza discernere il senso che esso assume nella complessità delle situazioni storiche.
La costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare (Benedetto XVI, Deus Caritas est, n.28).
L’impegno per il bene comune è dunque uno stile di vita, un agire caratterizzato da alcune scelte di fondo, da richiedere a chi sia impegnato o voglia impegnarsi in politica. Ne individuo alcune: va rifiutata la logica della maschera, che coniughi vizi privati e pubbliche virtù. Questo comporta il riconoscimento del primato della coscienza nell’agire politico e il diritto all’obiezione di coscienza su questioni eticamente rilevanti; il politico deve essere vicino alla gente, ascoltarne i problemi, farsi voce delle istanze di giustizia di chi non ha voce e sostenerle; corresponsabilità dialogo e partecipazione vanno anteposti a contrapposizioni preconcette o a logiche ispirate ad interessi personali o di gruppo; ogni scelta politica va misurata nella sua valenza e sul ruolo educativo al servizio di tutti, e perseguita con perseveranza e rigore; gli avversari politici vanno considerati come garanzia del confronto critico in vista del discernimento delle vie migliori per giungere alla realizzazione della dignità personale di ciascuno.
Sulla qualità etica di chi si mette in politica non c’è legge che tenga: come dimostrano i tanti scandali di volta in volta emergenti, e l’attuale impianto legislativo ed istituzionale che non riesce a garantire i cittadini da illeciti perpetrati dietro la facciata del più indisponente perbenismo. L’accumulo di incarichi super-retribuiti, con evidente impossibilità di ottemperare ai doveri imposti da ciascuno di essi, è scandalo continuo che chiede urgente riordino. Se però continuerà a non esserci una forte e convinta tensione morale, nutrita di responsabilità e di coscienza educata al sacrificio; se non si ritornerà a concepire la politica come forma alta di carità e della vita vissuta come servizio, a poco varranno riforme strutturali o nuovi meccanismi elettorali.
Perdonate, cari ragazzi, se approfitto del vostro tempo e confido a voi un’altra mia riflessione. Se me lo consentite, vi parlo come una madre ai propri figli.
La vita di un uomo si misura su tre ordini di cose: il vero, il bene, il bello. Così affermava Romano Guardini quando, il 4 novembre 1945, introduceva a Tubinga la commemorazione dei martiri della “Rosa Bianca”, gli studenti universitari fucilati su ordine del Tribunale del Reich per aver diffuso volantini in cui denunciavano con verità e coraggio la follia della guerra e le menzogne di Hitler.
La scena politica del nostro Paese – l’abbiamo detto – risulta convulsa tanto sul piano interno quanto su quello delle relazioni internazionali.
Alla verità si corrisponde, si obbedisce: non ci si serve di essa, è la verità che va servita. Possiamo dire che quanti oggi ci governano siano testimoni della verità? Non il calcolo utilitaristico, non la ricerca dell’immagine, non il chiasso delle apparenze, ma la verità deve essere l’ispirazione profonda di chi intende servire il bene comune, e non servirsene. Inseparabile dal vero, il bene ne è il volto operativo, l’irradiazione pratica. Di quanti politici è possibile pensare che siano come un albero buono, che produce i suoi frutti nella fedeltà, perché sceglie di fare il bene testimoniando di preferire la forza della benevolenza ad ogni logica di affermazione di sé? Infine il bello non è il bello esteriore, ma quello profondo, vissuto nel segno dell’amore e del dono. Lo specifico di un politico cristiano è credere nel Dio crocifisso, con quella fede che è anticipo di eternità. In quanti dei nostri politici “cristiani” traspare questa bellezza, quest’amore? Dov’è lo sguardo sereno, privo di ostentazione, di un Alcide De Gasperi? Chi dei protagonisti dell’attuale scena politica passerà al vaglio del triplice criterio del vero del bene del bello, per misurare il valore di una politica e di una esistenza vissuta?
Lascio a ciascuno di voi di rispondere a queste domande, se vorrà farlo. A me basta averle sollevate, per rispetto di tutti, guardando ad un “bene comune” profondamente ferito.
Vi ringrazio e domani…chissà…magari vi scriverò ancora.
Nina Chiari
|
Che bella esperienza è stata poter intervistare Amedeo Ariano. Stiamo parlando di uno fra i più grandi batteristi del panorama jazzistico italiano che in questi giorni onora il sito del Centro Studi Leone XIII) della sua presenza. Una lunga chiacchierata telefonica mi ha rivelato (ma credo rivelerà un po’ a tutti i lettori del blog) le caratteristiche di una forte personalità musicale ma anche la simpatia e la disponibilità di un artista che di tutto il suo talento lascia trasparire anzitutto un macroelemento: l’umiltà. Umiltà che è poi sfumatura proporzionalmente evidente nella misura in cui si evincono in maniera innegabile doti udibili non solo nell’ambito dei concerti di cui egli è protagonista (e a questo punto riconoscerlo e definirlo solo ed esclusivamente come “il batterista di Sergio Cammariere” con cui collabora felicemente e stabilmente da ben diciotto anni, sarebbe un grosso limite e rivelerebbe un senso critico piuttosto miope all’interno della critica musicale) ma che si rivela altresì nei numerosi lavori discografici di cui egli è stato coautore o trainante “music maker” se così si può dire. Nei tratti salienti del suo immenso curriculum artistico che ho potuto gentilmente visionare, che inizia all’età di quattordici anni in quel di Salerno (sua città natale) e di cui mi è risultato sinceramente difficile ottenere un sunto preciso ed obbiettivo tanta è l’esperienza di vita accumulata in esso, televisione e radiofonia locale spiccano come primi eventi... Continua...
>> Clicca Qui per leggere il testo completo nella sezione "Nel cortile del Jazz"
|
Ciao ragazzi, alcuni di voi mi hanno chiesto un parere sulla situazione politica oggi, festività natalizie 2016/2017. Ma specificatamente sul “grillismo” e sul “Movimento 5 stelle”. Vi accontento. Ma sappiate che io continuo a rimanere democristiano. E’ fondamentale dirvi chi sono e come sono, dirvi l’origine del mio pensiero e dirvi che esso deriva dalla mia visione del mondo e della vita. E dirvi che io continuo a rimanere cristiano e cattolico e che continuo a muovermi entro questo solco tracciato da alcuni altri prima di me che hanno segnato il mio pensiero e la mia vita.
Certo che i tempi sono cambiati, com’ero io a 25 anni e come siete voi oggi nella vostra età dopo oltre 40 anni di cambiamenti sempre più veloci. I tempi cambiano sempre, il tempo cammina. Platone riteneva il tempo “immagine mobile dell’eternità”, come dire che nel concetto di tempo coesistono due tendenze, c’è qualcosa che si muove e c’è qualcosa che non si muove, quasi invitando a vedere nella storia le dinamiche di senso dell’esistenza attraverso la possibilità di coesistenza di due mondi, uno di qua quello sensibile e uno di là quello eterno, ciascuno con un ruolo praticamente definito, chi tende verso una meta perché sente di essere imperfetto e chi attira verso le sue forme perché è consapevole che lì tutto viene compiuto e portato a sintesi. . Continua...
|
Il Vulture-melfese è un’area in cui la vegetazione, spontanea e coltivata, è molto varia e in tutto l’anno offre un ricco bottino per le api. Nella nostra zona operano ormai da anni diverse aziende produttrici di miele e molti sono i nostri conterranei che si cimentano nella produzione di miele self-made.
L’apicoltura ha origini molto antiche, veniva infatti praticata certamente già ai tempi degli egizi anche se non siamo in grado di dire quando l’uomo ha smesso di “rubare” il miele dagli alveari selvatici e sia stato in grado di allevare le api. Quello delle api non è un allevamento sensu strictu, l’intervento umano è limitato rispetto a quanto deve fare in altri allevamenti animali. L’apicoltore provvede a fornire delle arnie alla colonia che così non deve costruirsi un alveare naturale; un insieme di arnie è detto apiario. All’interno delle arnie l’apicoltore pone dei telai sui quali le api costruiranno i favi costituiti da tante cellette all’interno delle quali viene stoccato il miele sigillato (termine tecnico “opercolato”) con un tappo di cera.
Dall’allevamento delle api si ricava miele, pappa reale, cera e veleno (utilizzato in medicina per la cura di reumatismi e dolori articolari grazie alle sue proprietà antinfiammatorie e anticoagulanti; si usa anche per desensibilizzare le persone allergiche alle punture di insetto)... Continua...
>> Clicca Qui per leggere il testo completo in formato PDF
|
(…) Mentre
l’albume d’aria cola, diròttati, tienimi la mano – ricòrdati
siamo tronchi di ciliegio, e copie d’api: (…)
Un tempo emblematico assottiglia il confine tra le arti e la società contemporanea; esonda verso una nuova strutturazione di saperi, di albe e tramonti che avvengono nel poeta, surclassando e ottenebrando le albe e i tramonti di un giorno regolare. E nell’irregolarità si specchia la stupefacente innovazione della poesia di Ciro Vitiello: squassamento iperbolico e ossessivo alle contumacie di un periodare che sovente perde lustro in una strettoia nella quale si frange l’esistenza.
Perduta la sollecitazione all’eventualità di un sogno, l’arte creativa di Ciro Vitiello assume i contorni e la contenutistica di un incessante confronto e perdura anche oltre il tempo quantificabile. Ciro Vitiello ha lasciato il mondo delle cose concrete, ma concreta resta la sua poetica, che ancor oggi (a distanza di un anno circa dalla sua dipartita) ne contempla la figura consolidata nell’Olimpo della grande poesia contemporanea e oltre; s’inerpica lungo i muri di una realtà distribuita su piani intersecanti; ringiovanisce amara nelle crepe lasciate dal tremendo rumore provocato dal risveglio e si lascia calamitare verso l’unicità della sembianza per essere indagine e ricerca.
|
Non vi è alcun dubbio che la violenza riguardi un gran numero di donne: botte, stupri, omicidi, sopraffazione psicologica, ricatto economico, discriminazione di genere.
Una per tutte, vorrei concentrare l’attenzione su Carmen, protagonista dell’omonima opera, prima eroina ad essere assassinata sulla scena, dando forma ai concetti di razza, di classe sociale e di gender nel XIX secolo. Al centro della vicenda c’è la battaglia tra i sessi, ove la donna è immediatamente individuata come il nemico. Il campo di battaglia è il corpo della donna, la cui sessualità costituisce l’unica caratteristica. Uccidere questa donna è un atto disperato, necessario per ristabilire ordine e controllo, cosicché l’uccisore venga compatito, la donna biasimata
Sono passati più di 140 anni dal debutto della “Carmen”di Bizet, eppure nulla sembra cambiato se tutto resta ancora legato alla corporeità; laddove la violenza si annida nelle relazioni, nell’idea di possesso degli uomini e nella loro incapacità di gestire abbandoni e sconfitte.
L’etica si interroga non per giustificare ma per capire. E poi ci sollecita ad educare.
Noi tutti, giornalisti e cronisti, lettori e ascoltatori, educatori e formatori, evitiamo di riferirci alle donne come soggetti deboli e agli uomini come soggetti violenti. Insistere su deboli e violenti in una società che ancora cresce le bambine come docili e gentili e i bambini come forti e aggressivi conferma uno dei pregiudizi che è alla base della non-parità e alla radice della violenza. I media dovrebbero evitare di titolare fatti di cronaca con “raptus di gelosia”, “omicidio passionale” o peggio “l’ha uccisa perché l’amava moltissimo”: frasi fatte e rifatte da una cultura che pesa sulla libertà delle donne e degli uomini. Queste storie vanno raccontate, sì, ma con parole nuove, ripetendo fino alla nausea che il possesso non è amore. Vengono altresì imposti volti, corpi, sorrisi di donne uccise o ferite, e noi commentiamo chiamandole per nome: Angela, Maria, Roberta e così via. Ma dove sono gli uomini che commettono questi reati? Sono solo ombre, e le ombre restano indecifrabili, invisibili. Come il male. Indecifrabile. Invisibile.
Dobbiamo proporre modelli postivi di storie di donne che si sono chiusa la porta alle spalle e sono state sostenute nel nuovo cammino dalle forze dell’ordine, dalla magistratura, dalle comunità di accoglienza; per diffondere la consapevolezza che una donna uccisa non è una donna sbagliata. Dobbiamo proporre racconti di donne reali: quelle che fondano una impresa e vi lavorano; quelle che avanzano nella ricerca e nelle istituzioni; quelle che hanno cura della famiglia e dei figli per scelta e non per obbligo; quelle che cambiano rotta senza temere le conseguenze. Donne che crescono in consapevolezza e libertà accanto agli uomini, sostenendo la diversità come fattore positivo di cambiamento.
Raccontiamo che la violenza è fragilità; che la prova di forza più grande è il rispetto della libertà degli altri, il rispetto per il cambiamento di ruolo e di pensiero di cui le donne sono protagoniste.
In quanto bioeticista, non posso tacere una ulteriore forma di violenza sulle donne: l’utero in affitto, o maternità surrogata o assistita. Si tratta di compravendita di esseri umani e della schiavizzazione del ruolo della donna in termini di maternità. Assistiamo alla mercificazione non solo del corpo, ma dell’umano – che ne esce offeso, umiliato, svilito e mortificato – ai danni della vita – che acquista un prezzo ma perde la dignità. Il mercato irrompe nella relazione madre-figlio, che è fondamento di civiltà e di umanità. E lo fa con un contratto, trasformando la riproduzione in produzione. Dando concretezza al sogno maschile originario : appropriarsi della potenza materna.
Gridate, donne, fate sentire al mondo intero le vostre grida, perché il silenzio uccide la dignità.
L’auspicio è che ogni donna possa vivere un sogno d’amore, ma con dignità e consapevolezza, con intelligenza e responsabilità, e quindi nella libertà. Accanto ad un uomo che le dica non TI AMO DA MORIRE, ma TI AMO DA VIVERE!
Nina Chiari
Presidente Provinciale UCIIM
|
A poco meno di due mesi dalla presentazione ed approvazione della mozione a firma del Consigliere Regionale Aurelio Pace, relativa al genocidio del popolo armeno avvenuto nel 1915, mozione votata all’unanimità nella seduta del Consiglio della Regione Basilicata, lo scorso 27 settembre, il Consigliere Pace è oggi ospite presso l’Ambasciata per ricevere i ringraziamenti ufficiali dalla rappresentanza diplomatica.
A ricevere il Consigliere Pace ci sarà l’Ambasciatrice Victoria Bagdassarian, che ha voluto rimarcare, con il suo invito, “L’importanza del riconoscimento della condanna del genocidio armeno quale crimine contro l’umanità ed il ringraziamento al Consigliere Pace ed a tutto il Consiglio regionale, della dichiarazione d’identificazione delle atrocità commesse contro il popolo armeno dell'Impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale e la rinnovata consapevolezza di una nuova vittoria morale che ha visto realizzarsi la possibilità di vincere l’impari lotta al negazionismo attraverso il democratico strumento legislativo”.
Il Consigliere Pace ha ricordato che: “La mozione approvata nella seduta del Consiglio Regionale Lucano, condannando il genocidio armeno, ha riaffermato il valore della verità storica, ridando al popolo armeno la dignità dell’esistenza umana e della persona e l’onorabilità della memoria. L’uso di strumenti criminali volti verso un popolo e le rovine generate da ogni conflitto, rappresentano la sconfitta della civiltà ed un freno ai processi di pace, che non hanno colore politico e rappresentano un dovere improrogabile necessario al conseguimento di un’esistenza che, nella sua completezza, necessita che si debba garantire il diritto alla vita, alla libertà, all’uguaglianza e alla dignità personale e sociale”.
L’Ambasciatrice Victoria Bagdassarian ha riconosciuto che: “La costruzione dei processi condivisi di crescita e collaborazione per le nostre piccole realtà”, quella lucana e quella armena, “sarà di vicendevole arricchimento” ed il Consigliere Aurelio Pace, dal canto suo, condividendo il principio, ha concluso il suo intervento aggiungendo che: “I valori di pace e di giustizia, raggiunti attraverso percorsi compartecipati, riguardano l’umanità nella sua interezza e sono valori che devono essere alla base di ogni processo di globalizzazione ed a monte di ogni modello educativo. Questo nostro incontro rappresenta un avanzamento rispetto a quel percorso di arricchimento reciproco che trova nel confronto e nel sostegno gli strumenti per una crescita democratica”.
|
Anche sul Comitato Etico ci hanno messo le mani mentre il resto della politica assiste e subisce l’arroganza dei dirigenti del San Carlo di Potenza. E ora toccherà a Melfi, a Villa d’Agri, a Lagonegro. Dopo aver letteralmente svuotato quell’ottimo ospedale di Venosa dove importanti reparti di cardiologia, di ginecologia, di pediatria mostravano elevate capacità di diagnosi e di cura.
Il d.l. n. 158/2012 e il decreto del ministro della salute dell’8.2.2013 hanno fissato le norme sull’istituzione dei comitati etici definendo il parametro di 1 ogni milione di abitanti, dando facoltà alle regioni di prevedere un ulteriore comitato etico per uno o più Irccs.
La Regione Basilicata, con sua delibera di giunta n. 842/2013 ha istituito un solo comitato in tutta la regione, naturalmente presso il S. Carlo (non è Irccs) ed abolendo quello del Crob (che è Irccs).
Altre regioni si sono comportate diversamente. La Puglia ha riorganizzato i comitati etici prevedendone uno presso l’Irccs oncologico di Bari con competenze interprovinciali per gli Irccs.
Il regolamento e le procedure operative standard del Ceur (Comitato etico unico regionale) della Basilicata, approvato dallo stesso Ceur nella seduta del 14.1.2014, aveva previsto due sezioni funzionali della segreteria tecnico-scientifica, una presso il San Carlo (lì ne avevano fatto richiesta disperatamente) ed una presso l’Irccs Crob per gli studi di pertinenza ed in ragione della Mission di ricerca clinica e traslazionale in capo all’Istituto.
Nel frattempo anche la segreteria tecnico-scientifica dell’Irccs Crob risulta non più funzionante. Con buona pace di tutta intera la classe politica regionale che al cospetto delle pretese del San Carlo di Potenza di voler accorpare nel capoluogo l’intero sistema sanitario (ci avevano già provato anche col Crob, ora stanno tentando l’accorpamento di Melfi, di Villa d’Agri e di Lagonegro come è stato fatto per Pescopagano) continuano a subire impotenti. Ed incoscienti. Mentre i sindaci della zona del Vulture, Val d’Agri e Lagonegrese magari si accontentano di elemosine, di briciole, di ciò che resta. Se resta.
Ma ne volete? Ora il San Carlo di Potenza presenta una sua proposta di riassetto organizzativo della rete ospedaliera, con lo scopo di “concentrare le attività ospedaliere complesse” – così scrivono - nel San Carlo, ventilando vantaggi qualitativi che si potrebbero ottenere solo attraverso l’accentramento su Potenza (tu guarda che modestia!). E per giunta spalleggiati da chi ritiene che, quando lagnanze provengono dalle periferie, le trattano come “localismi anche comprensibili”, bontà loro; ma quando provengono invece dall’ombelico del mondo, Potenza, non sono localismi ma esigenze territoriali per il buon nome della sanità lucana.
Ma voi, concittadini delle periferie lucane, volete ancora continuare a vivere nella Provincia di Potenza, vessati da condizioni egemoniche sempre più asfissianti?
Pasquale Tucciariello (coordinatore Centro Studi Leone XIII)
Interrogazione a risposta orale al Consiglio Regionale da parte di Aurelio Pace sul trasferimento del comitato etico
|
L’assegnazione del premio Nobel per la Chimica 2016 al prof. Bernard Lucas Feringa (insieme a Jean-Pierre Sauvage e James Fraser Stoddart) è una bella notizia per la Lucania; l’Università degli Studi della Basilicata ha, infatti, avuto in passato il privilegio di apprezzare le ricerche e la didattica di “Ben” Feringa come visiting professor nel corso di laurea in Chimica. Molti studenti del corso di laurea e di dottorato hanno avuto la possibilità di collaborare con il novello premio Nobel nei suoi laboratori, e anche chi (come lo scrivente) si è occupato di altri campi d’indagine ha potuto migliorare la propria formazione partecipando alle sue lezioni tenute a Potenza.
Il premio Nobel per la Chimica 2016 è stato assegnato “per la progettazione e sintesi di macchine molecolari”. Ma cos’è una macchina molecolare? Tra i maggiori sviluppi della scienza moderna, non v’è dubbio che un posto speciale meritano le biotecnologie, che sfruttano la nostra comprensione del funzionamento degli esseri viventi per ottenere da essi molecole o reazioni non facilmente disponibili altrimenti (basti pensare a come è migliorata la vita dei diabetici, da quando le biotecnologie hanno permesso la produzione a basso costo di insulina umana).
Tuttavia, si dimentica spesso che la maggior parte delle “piccole rivoluzioni” della vita moderna sono basate sulla chimica. Nonostante l’aggettivo chimico sia oggi facilmente ed erroneamente associato a “tossico, pericoloso”, gli sviluppi della chimica ci forniscono giorno per giorno farmaci e materiali innovativi che usiamo correntemente, pur senza saperlo.
La storia delle macchine molecolari ha un padrino ufficiale: il premio Nobel per la Fisica Richard Feynman, che nel 1959 prevedeva l’avvento di oggetti capaci di comportarsi come macchine (compiere una funzione specifica quando sottoposte a stimoli), ma di dimensioni molecolari – ovvero, molto meno di un millesimo dello spessore di un capello.
Gli studi di Feringa hanno portato alla costruzione di motori molecolari, dispositivi capaci di muoversi e ruotare quando sottoposti a stimolazioni luminose. Una delle creazioni più spettacolari derivanti da queste ricerche è senz’altro l’”automobile” funzionante più piccola al mondo, una molecola delle dimensioni del miliardesimo di metro; quest’ultima è dotata di quattro motori rotanti che le permettono di spostarsi su una superficie.
Le ricerche di Feringa e degli altri premi Nobel per la Chimica, di certo, continueranno a stupirci sempre di più… e se qualche studente dell’Università della Basilicata parteciperà a questa rivoluzione, anche meglio!
|
“Anche ad un’osservazione superficiale appare evidente come per parecchi secoli in tutta l’Italia nessun uomo abbia goduto di un amore e di un ossequio così smisurati come il modesto ed umile Francesco… Il divino messaggio, tenero e beato, che era giunto sulla terra sotto forma di lui, non si spense con la sua morte. Egli aveva sparso a piene mani un buon seme, e quel seme germogliò e crebbe e fiorì”. Queste parole di Hermann Hesse, l’autore di Siddharta, di Narciso e Boccadoro e di tanti altri celebri testi, oltre che di una deliziosa vita di Francesco d’Assisi scritta in gioventù (1904), suscitano la domanda sul perché Francesco abbia lasciato una così profonda impronta nel cuore degli Italiani e di tante donne e uomini di ogni latitudine e cultura. La risposta di Hesse - dal tono piuttosto sentimentale e romantico - contiene un nocciolo prezioso di verità: “Soltanto pochi [come Francesco], in virtù della profondità e dell’ardore del loro intimo, hanno donato ai popoli, quali messaggeri e seminatori divini, parole e pensieri di eternità e dell’antichissimo anelito umano… sì che quali astri beati si librano ancora sopra di noi nel puro firmamento, dorati e sorridenti, benevole guide al peregrinare degli uomini nelle tenebre”. Per Hermann Hesse Francesco incarna un messaggio capace di dare ragioni di vita e di speranza al cuore di tutti. Anche a quello dell’Italia d’oggi, scossa da una crisi che, prima che economica e politica, è spirituale e morale.
Nel tentativo di cogliere il messaggio di Francesco mi viene in aiuto il beato Tommaso da Celano, che lo descrive come uno di noi, simile a noi nella leggerezza della vita e dei sogni!
Tuttavia, è proprio l’aver vissuto questa stagione dell’utopia, impastata delle fughe in avanti dei desideri e delle pretese, che rende Francesco così largamente umano. È quanto esprime la folgorante risposta di Mark Twain alla domanda su dove avrebbe voluto andare dopo la morte: “In paradiso per il clima, all’inferno per la compagnia…”: come a dire che i peccatori suscitano un’immediata simpatia perché li sentiamo a noi familiari, anche se non può non attrarci la bellezza del cielo… Francesco ci parla anzitutto perché parte da quello che ci accomuna tutti: la nostra fragilità, la lista più o meno lunga dei nostri difetti, di cui alcuni - ambizioni, vanità, ricerca dell’immagine a prezzo della verità, dipendenza dagli indici di gradimento, leggerezza nel mantener fede agli impegni - ci appaiono così drammaticamente attuali!
Avvenne però nella vita del giovane di Assisi qualcosa di nuovo e d’imprevisto, che Tommaso narra con tratto tenerissimo, guidato dalla fede: la mano del Signore si posò sopra di lui e lo trasformò. A Francesco non risultò affatto facile conformare la sua volontà a quella divina, ma poi, liberatosi da ogni vanità, pronunciò il suo “no” al passato e il suo “sì” alla rinuncia ad ogni possesso e ad ogni potere, mostrandosi dinanzi al mondo nudo e indifeso.
Non si tratta solo di una scelta di sobrietà, pur così importante e necessaria allora come oggi: è una logica che appare sovversiva rispetto agli arrivismi ed alle avidità di questo mondo. Non è l’ “audience” che conta, né il successo o il denaro, ma la nuda verità di ciò che siamo davanti a Dio e per gli altri! Ed è proprio questa libertà dell’essenziale che lo avvicina a tutti e lo rende inquietante per tutti!
Cominciò così la sua nuova vita al servizio di Dio e molti giovani lo seguirono.
Francesco si mette alla scuola di Gesù Crocifisso e impara l’umiltà: anche in questo la provocazione che lancia al nostro presente è bruciante: “Un frate chiede a Francesco: ‘Padre, cosa ne pensi di te stesso?’ ed egli rispose: ‘Mi sembra di essere il più grande peccatore, perché se Dio avesse usata tanta misericordia con qualche scellerato, sarebbe dieci volte migliore di me’ ”. Lo spogliamento di sé caratterizzerà sempre più il suo cammino.
Gli occhi di Francesco si chiuderanno presto alla luce del mondo: ma la luce della Sua fede e del Suo amore umile continuerà a risplendere. Non fu la Sua una fuga dal mondo. Se non avesse amato profondamente questa terra, non avrebbe composto il Cantico delle creature. La sua è anche una spiritualità del rispetto e dell’amore del creato. Tutto in Francesco fu motivato dall’aver compreso qual è la perla preziosa da cercare ad ogni costo: sobrietà, povertà, tenerissima carità, umiltà, rispetto per ogni creatura e per tutto il creato sono volti di quest’unico amore. E non è di esso che ha bisogno anche l’Italia di oggi, come quella del suo tempo e il mondo intero con lei?
Francesco parla a chiunque voglia ascoltarlo….
di Raniero La Valle
Discorso tenuto il 16/09/2016 a Messina nel Salone delle bandiere del Comune in un’assemblea sul referendum costituzionale promossa dall’ANPI e dai Cattolici del NO e il 17/09/2016 a Siracusa in un dibattito con il prof. Salvo Adorno del Partito Democratico, sostenitore delle ragioni del Sì.
Cari amici, poichè ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose. Non sarebbe necessario essere qui per dirvi come sono andate le cose, se noi ci trovassimo in una situazione normale. Ma se guardiamo quello che accade intorno a noi, vediamo che la situazione non è affatto normale. Che cosa infatti sta succedendo? Succede che undici persone al giorno muoiono annegate o asfissiate nelle stive dei barconi nel Mediterraneo, davanti alle meravigliose coste di Lampedusa, di Pozzallo o di Siracusa dove noi facciamo bagni e pesca subacquea. Sessantadue milioni di profughi, di scartati, di perseguitati sono fuggiaschi, gettati nel mondo alla ricerca di una nuova vita, che molti non troveranno. Qualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni. E l’Italia che fa? Sfoltisce il Senato. E’ in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto il mondo. Aleppo è rasa al suolo, la Siria è dilaniata, l’Iraq è distrutto, l’Afganistan devastato, i palestinesi sono prigionieri da cinquant’anni nella loro terra, Gaza è assediata, la Libia è in guerra, in Africa, in Medio Oriente e anche in Europa si tagliano teste e si allestiscono stragi in nome di Dio. E l’Italia che fa? Toglie lo stipendio ai senatori. Fallisce il G20 ad Hangzhou in Cina. I grandi della terra, che accumulano armi di distruzione di massa e si combattono nei mercati in tutto il mondo, non sanno che pesci pigliare e il vertice fallisce. Non sanno che fare per i profughi, non sanno che fare per le guerre, non sanno che fare per evitare la catastrofe ambientale, non sanno che fare per promuovere un’economia che tenga in vita sette miliardi e mezzo di abitanti della terra
|
“Sono cresciuto assieme al pianoforte, ne ho imparato il linguaggio mentre iniziavo a parlare”. (Intervista a Panorama, giugno 2011)
Luce e silenzio. Una fattoria dell’ottocento in un anonimo fitto bosco del New Jersey. Migliaia di volumi, una collezione di vecchi spartiti. E ancora, un’imprecisata quantità di vecchi orologi meccanici, alcuni di essi a pendolo. Un uomo è chino su uno Steinway, forse un grancoda. Sembra in preghiera. Attende, questo non è dato sapersi, l’inizio o la fine di un Dialogo. Appena fuori dalla fattoria, l’acqua di un fiume scorre velocissima. Una goccia sta per cadere dal cielo. E’ una goccia di suono. Pura, assoluta, divina. L’uomo l’attende, l’orecchio teso. La sua è una corsa lieve alla cattura, prima che la goccia, precipitando a tradimento sui tasti bianchi e neri, si dissolva in infinite molecole, negando la sua consistenza. In un’inaudita e forse spaventosa solitudine, ciò a cui sarebbe dato di assistere, altro non si chiamerebbe se non lotta: un combattimento di natura infondo impari tra la mente umana e la genesi del suono, il rincorrere senza fine quella Goccia che viene dal Cielo e che cade, atomo divino di musica, accecante bolla di sapone, ad accarezzare direttamente i poveri tasti ebano e avorio con dolcezza e furia, con impeto e con malinconia, segno diretto di quella Forza che muove l’intero universo. Keith Jarrett. Il pianoforte. Una storia, una vita. Lui, il compositore statunitense che più o meno in questi termini inaugurò il fenomeno del “Piano Jazz Solo”. Ad oggi uno dei maggiori compositori viventi.
|
Il Movimento Azzurro per primo, nello scenario politico italiano, ha sollevato la questione etica rispetto ai temi dell’ambiente e della politica per la risorse ambientali e questo è stato il motivo conduttore dell’impegno dell’Associazione M.A. rispetto al variegato mondo dell’ambientalismo e rispetto al rapporto con la società e la politica da ormai più di un ventennio.
-Liberazione dell’intera umanità dai bisogni concreti, che non possono essere soddisfatti che da tutta l’umanità per tutta l’umanità, a cominciare dal problema certo universalismo dell’umanità stessa che non può che riconoscersi in un unico codice morale di base che pur salvi e anzi protegga le varie esperienze culturali ed i “credo”, in tutto ciò che è compatibile con le superiori esigenze;
-responsabilità, quindi, dell’uomo verso l’ambiente ed impegno che deve però correlarsi a precisi valori etici e, per quanto riguarda il M.A. e l’ambientalismo cattolico, a riferimenti culturali, sociali ed anche politici, ben individuati;
- distinzione tra la critica allarmistica e la proposta costruttiva;
- definizione interdisciplinare di ambiente;
- corretta e responsabile comunicazione della questione ambientale.
Tutto questo, con la convinzione che l’ambiente non è soltanto quello che appare secondo la parcellizzazione consueta dei suoi aspetti - suolo, acqua, aria, foreste, agglomerati urbani e poi ancora, le risorse energetiche e materiali, ma perché l’ambiente è tanto il canale delle nostre azioni quanto la risultante del nostro agire. La conclusione è ovvia: la responsabilità etica investe tutte le nostre azioni e quindi il nostro “ambiente”.
L’etica ambientale non è quindi un settore a parte della riflessione morale e non implica doveri nuovi o speciali.
Negli scorsi anni, il movimento mondiale delle Scuole di etica ed economia, in collaborazione con il Movimento Azzurro-Proposte per l’Ambiente ed altre importanti organizzazioni tra le quali: La Comunità di Sant’Egidio, la Compagnia delle Opere, il Movimento dei Focolari, ha promosso il II^ Forum mondiale Nord Sud per contribuire alla diminuzione del divario fra Nord e Sud del mondo attraverso uno sviluppo equo e sostenibile.
|
Gli individui che hanno raggiunto grandi risultati sia in politica sia in filosofia sono più rari dei campioni di pallacanestro e di calcio. Marco Tullio Cicerone dovrebbe avere un posto d’onore in qualsivoglia lista di “superstar” della politica e della filosofia.
Cicerone condivideva l’opinione di Aristotele sul fatto che la scienza della politica e il perseguimento della conoscenza fossero le vocazioni più alte per coloro che avevano il talento di perseguirle. Ma era in buona compagnia con l’autore della Politica anche riguardo alla convinzione che una vita di servizio pubblico fosse la strada percorsa sempre dagli uomini migliori. Nessun discorso filosofico è così giusto, sottolineava, <<al punto che meriti di essere messo sopra la legge pubblica e i costumi di uno Stato ben ordinato>>. Seguendo Aristotele, sosteneva che l’eccellenza morale è questione di prassi e gli pareva dunque evidente che il campo più importante di tale prassi fosse il governo dello Stato.
I filosofi, diceva, mettono in circolo teorie sulla giustizia, la decenza, il ritegno, la fortezza, ma gli uomini di Stato sono coloro che devono in realtà mettere in atto le condizioni per far crescere le virtù necessarie perché una gestione politica funzioni bene. L’ideale di uomo di Stato di Cicerone è quello di un uomo le cui azioni sono illuminate dalla filosofia, dalla quale egli trae una teoria etica e politica.
Nell’ultima età repubblicana di Roma, come accade anche oggi, molti dei cittadini più capaci decidevano di non entrare nella vita pubblica, a causa del disgusto verso la condizione della politica o del desiderio di trarre vantaggi personali. Cicerone non discusse mai con coloro che reclamavano che la politica romana fosse piena di personaggi corrotti, ma sostenne: <<Quale più alta ragione può avere un uomo coraggioso e aperto di mente per entrare in politica rispetto alla determinazione di non mettere la stessa politica nelle mani di un uomo debole, per non permettere che lo Stato venga sfigurato da persone simili?>>.
La vita di un politico è compatibile con una vita privata soddisfacente? Nel caso di Cicerone pare di sì, perché le delusioni della sua vita personale erano simili a quelle che chiunque potrebbe sperimentare, dentro e fuori dallo spazio pubblico.
In una lettera all’amico Attico, Cicerone lamenta la sua solitudine, nonostante la vita pubblica: <<…Mio fratello è lontano e dove sei tu?...>>. Ciò che ricorda uno dei famosi detti di Herry Truman: <<Se vuoi un amico a Washington, prenditi un cane!>>.
Durante la sua carriera Cicerone ha sofferto delle stesse preoccupazioni che oggi tengono i ragazzi più onesti lontani dalla politica: tradirò i miei principi nel momento in cui cercherò di ottenere e mantenere un ruolo pubblico? Egli lottò costantemente con il “se”, il “quando”, il “come” compromettersi per la salvaguardia del sistema repubblicano. Nel suo saggio De Officiis valutò la difficoltà di decidere cosa fare quando un diritto apparente cozza con un vantaggio apparente, tenuto conto che in alcuni casi un passo che sembra naturale e giusto può trasformarsi in qualcosa di totalmente sbagliato.
Seguendo Aristotele, affermava che l’uomo di Stato deve agire nell’ambito di quel che è possibile, cercando il meglio ma mettendo in conto il peggio.
Cicerone non abbandonò mai i suoi sforzi di preservare i principi repubblicani dalle invasioni della dittatura da una parte e dalla legge di massa dall’altra. E fece tutto questo con grande rischio personale.
Preparazione filosofica e passione politica raramente si coniugano e si esaltano, come accadde nell’oratore romano. E nelle nostre società molti, soprattutto giovani, si allontanano dall’impegno politico, a causa del pessimo esempio che esso fornisce.
Ecco, Cicerone è un esempio da cui imparare.
|
Nel mese di maggio di questo anno a San Giorgio Albanese incontrai il Prof. Andrea Shundi - Chapel Hill University - Nord Carolina - USA e affrontammo insieme l'argomento anche per dare un giusto e doveroso seguito alla sua monumentale opera "E(t)nogastronomia Arbereshe". Anche se' il Prof. Shundi, pur esprimendosi a favore di un museo dell'Aglianico delle popolazioni dei comuni del Vulture, era orientato di più a un museo del Vino nei comuni di Maschito, Ginestra e Barile per le sue chiare origini albanesi, credo che accettasse in linea di principio e di azione l'idea progettuale di un "Brand Vulture" nel quale trovava posto un museo del Vino Aglianico. Esprimevo con decisione il fatto che solo valorizzando le idee che si legano alle energie e alle risorse autoctone di una micro area, si potranno ottenere i primi risultati e questo suo suggerimento, andava in quella direzione. Occorrerebbe avere in ogni caso un progetto complessivo quindi, un progetto VULTURE che sommi il Vino Aglianico, le acque, gli oli, la gastronomia, la bellezza di alcuni luoghi (Sheshi Barile, Cantine grotte di Rapolla, Venosa, Banzi, i laghi, i castelli, il Museo Fiat, il Museo degli oli e delle acque, la foresta del monte Vulture, Aglianica, Cantinando, la Varola, il Pecorino di Filiano, i comuni arroccati di Forenza e Ripacandida, ecc.), in sintesi un progetto con un brand "VULTURE", focalizzato nel creare economia, nel creare posti di lavoro, nel creare turismo, nel creare attività, nel creare attrattivitá, nel creare sinergie e scambio di capitali e cultura.
Occorrerebbe che le istituzioni pubbliche coinvolte (regione e comuni) facciano, o un GROSSO passo avanti, coordinandosi in una società mista pubblico privato, o forse meglio, UN PASSO INDIETRO, lasciando ai privati, un equilibrato utilizzo del territorio, delle iniziative, della creazione di un volano di sviluppo che finora il potere pubblico non è stato capace di creare ma bensì, alcune volte, capace di ostacolare. La società Vulturina ha ormai chiara percezione di questo. Io auspico un modo nuovo di fare progetti pubblici, un modo etico di fare economia, facendo della responsabilità degli organi dello stato, il terreno dello sviluppo etico sostenibile e non, come da secoli siamo "educati" e quindi abituati, a sopportare il peso di organi dello stato adibiti al CONTROLLO SOCIALE e non adibiti ALLO SVILUPPO ETICO DEI TERRITORI e delle sue popolazioni. In questa logica ben venga il progetto Museo del Vino Aglianico, proposto dal Prof. Shundi. Io sarò sempre tra quelli che vogliono FARE, tra quelli che FANNO, tra quelli che PROGETTANO ED ESEGUONO, tra quelli che FORMANO ETICAMENTE LE MENTI aggregando valori progressivi, per giungere a una economia umanizzata e quindi a una società felice, preparandoci quindi ad affrontare il tempo prossimo della roboteconomy o la Teslaeconomy (Autoeconomy), come altri pionieristicamente definiscono la sociopoli del futuro.
Prof. Dr. Antonio ROMANO
www.antonioromano.org
|
Esimio dottore, come le ho detto nel pomeriggio di oggi, le confermo la mia segnalazione dal mio telefono n. 3388970471.
A Monticchio Laghi, costone del Vulture laterale alla Badia di San Michele, molte piante di alto fusto (sembrano pini o abeti) mostrano segni di secchezza come fossero morte sicuramente colpite da una qualche forma di malattia da insetti, afidi, funghi non so, ma è certo che stanno determinando la morte di decine e decine di piante. E quella macchia di morte si sta propagando verso l'alto a chiazze rossastre sicuramente per un'epidemia, o se si tratta d'altro ditelo voi, esperti più di me in questa disciplina. Le segnalo quanto ho visto e la prego di farmi conoscere i motivi che determinano questo evento. E poiché tale epidemia non si espande da un giorno all'altro, voglio augurarmi che gli uffici preposti alla salvaguardia e alla tutela del bene-ambiente, siano già intervenuti secondo direttive imposte al ruolo ed al lavoro per il quale ognuno è regolarmente pagato dalla pubblica amministrazione.
Sono stato informato del fatto e chiamato sul posto perché giornalista-pubblicista dal 1983. Ho accertato il fatto, lo segnalo a lei, esimio dottore, perché ho stima del suo ruolo nel Corpo Forestale dello Stato e per le capacità delle quali se ne dice un gran bene. Perciò lo segnalo con questa mail prima di un possibile intervento sulla stampa regionale ed ovviamente anche presso gli uffici della Procura della Repubblica se chi ha responsabilità di intervento non fa ciò che avrebbe già dovuto fare.
Proverò a chiamare anche domani al numero che mi ha indicato presso l'Ufficio fitosanitario della Regione Basilicata dove sicuramente ci sono impiegati, funzionari, dirigenti, magari con posizioni organizzative che costano fior di quattrini al contribuente lucano a fronte di un lavoro volto a fare le cose. Per favore, dottore, se ha l'indirizzo mail dell'Ufficio fitosanitario di Matera, inoltri questa mia mail. Mi permetterò, se me lo consente, di disturbarla tra qualche giorno per averne conferme o con una telefonata o con un'altra mail.
Io, con la struttura che coordino, resto disponibile ad evidenziare altre criticità che incombono su Monticchio Laghi, località turistica che a noi pare abbandonata dai pubblici poteri regionali e locali, sia politici che di ordine pubblico.
Le riconfermo la mia stima personale.
Rionero, 23 agosto 2016
|
L'8 agosto 1806 venne emanata da Giuseppe Bonaparte la Legge n. 132 "sulla divisione ed amministrazione delle provincie del regno" che riformava profondamente l'assetto del territorio e delle amministrazioni locali del Regno di Napoli. A capo della Provincia si creò la figura dell'Intendente, quale unico magistrato e rappresentante dell'autorità amministrativa, egli doveva eseguire e far rispettare le leggi dello Stato emanate dal Sovrano e dai suoi ministri. Le divisioni circondariali comprendevano un certo numero di comuni, enti municipali che sostituirono le antiche Università feudali, composti da un parlamento comunale formato dai "capi famiglia che contribuivano maggiormente ai tributi dello Stato" ai quali spettava, altresì, il diritto di eleggere il consiglio comunale o decurionato, gli amministratori o decurioni ed il Sindaco.
Due mesi prima la formazione dei decurionati, secondo quanto stabilito dalla legge, si compilava un registro di tutti i maggiori proprietari con la rendita richiesta per poter procedere al sorteggio; il decurionato a sua volta designava il Sindaco. I francesi introdussero, quindi, nel regno di Napoli il principio del primato della legge e questo complesso normativo, di riforma amministrativa, rientrava in uno smantellamento dell'apparato giuridico-economico feudale, dove invece privilegiava l'abuso e l'arbitrio baronale. Tale assetto legislativo vedeva al centro del suo interesse la proprietà borghese e la capacità contributiva, tipico dello stato liberale dell'800. Nel caso del Comune di Rionero in Vulture, le vicende storiche furono maggiormente complicate perché Rionero era casale di Atella, cioè un insediamento rurale a ridosso della città-madre. Tale Comune ebbe l'autonomia da Atella soltanto nel 1811 con Regio Decreto di Gioacchino Murat ma senza alcuna assegnazione territoriale, soltanto il suo centro urbano. In questo periodo si accrebbe notevolmente l'importanza e la potenza delle famiglie locali, perché ai Comuni, secondo le leggi napoleoniche, spettava la divisione e l'assegnazione delle terre ex feudali, e coloro che amministravano disponevano certamente di una certa liquidità economica e l'influenza politica per avere accesso a tali beni come "proprietari" e non più come fittavoli e tenuti alle prestazioni feudali d'un tempo.
|
Negli ultimi anni il dibattito sulla salubrità o nocività della carne e dei prodotti di origine animale in genere si è fatto molto acceso. Da un lato la crescente popolarità del veganesimo (o del veganismo… non si mettono d’accordo manco sul nome), dall’altro le dichiarazioni dell’OMS e di autorevoli esponenti della medicina, Veronesi in primis, abilmente manipolate a scopi sensazionalistici da giornalisti che, ahinoi, s’improvvisano esperti del settore, hanno fatto breccia nel sentire comune instillando la paura, o quantomeno il dubbio, che la carne sia dannosa per la salute umana e tra i principali agenti cancerogeni.
Ma la carne è davvero demonizzabile?
Omnia venenum sunt nec sine veneno quicquam existit, dosis sola facit ut venenum non fit
(cit. Paracelso)
Come dare torto a Paracelso? Tutto è potenzialmente dannoso, è la dose, la quantità che fa da limen tra “buono” e “cattivo”. Per fare un esempio concreto anche l’acqua, elemento vitale per antonomasia, può essere un veleno a dosi elevate determinando una condizione clinica caratterizzata da iperidratazione con grave iponatriemia (bassa concentrazione di sodio nel sangue) che porta a sintomi quali vomito, nausea, confusione, allucinazione e addirittura coma!! Nonostante ciò sfido chiunque a dire che l’acqua in sé sia dannosa.
Mangiare carne non fa male. Mangiarne molta, troppa, fa male! O meglio, potenzialmente potrebbe fare male in soggetti che per cause varie e contingenti si trovano particolarmente predisposti a determinate patologie (cardiovascolari, tumorali, etc…).
Veniamo ora a un altro tema spinoso: le proteine animali sono in tutto e per tutto sostituibili da quelle vegetali? Questo è il mantra che sentiamo ripeterci giornalmente da vegetariani e vegani i quali sono sicuramente mossi da nobili intenti nei confronti degli animali allevati per la macellazione, ma non tengono in considerazione numerosi punti validati dalla scienza.
L’apporto delle proteine con gli alimenti è finalizzato a fornire all’organismo gli aminoacidi necessari per le sintesi proteiche connesse a varie attività vitali, pertanto il “valore” delle diverse proteine si stima in base alla quantità e qualità di aminoacidi assorbiti e dalla efficienza della loro utilizzazione a livello metabolico, quando vengono utilizzati nell’anabolismo proteico, cioè quando fungono da “materiale di costruzione” per le nostre proteine. Tra gli aminoacidi ci sono alcuni definiti “essenziali” cioè che non possono essere sintetizzati dall’organismo in quantità idonee, ma devono essere introdotti con la dieta.
Le proteine di origine animale sono caratterizzati da più alti valori biologici rispetto a quelle di origine vegetale; il valore biologico è un aspetto nutrizionale che descrive il potenziale plastico degli aminoacidi contenuti negli alimenti… in parole più comprensibili si può dire che quanto più la “miscela di aminoacidi” (ergo le proteine) ha composizione simile a quella delle proteine da sintetizzare, tanto più alto è il valore biologico delle proteine assunte. Le proteine animali hanno sicuramente una composizione più simile a quelle umane rispetto alle vegetali.
Le funzioni delle proteine sono molteplici:
-strutturali à costituenti di molti organi e tessuti (cheratina, collagene…)
- funzionali à enzimi, anticorpi…
-energetiche àalcuni aminoacidi, in particolari condizioni di necessità, e dopo opportune trasformazioni biochimiche possono fungere da fonti di energia.
Per quanto riguarda il pericolo microbiologico e chimico legato al consumo di carne, ovvero la trasmissione di patogeni e la veicolazione di tossine e inquinanti chimici,questo è concreto ma risibile grazie alle attente analisi e al sistema di controllo normato da leggi nazionali e direttive comunitarie rientranti nel cosiddetto “pacchetto igiene” (per chi volesse approfondire questo punto, può aprire questo link http://www.federalimentare.it/documenti/schedapacchettoigiene.pdf ).
Ancora ,il millantato sovra- utilizzo di antibiotici negli allevamenti (che ci vedrebbe costretti , a nostra insaputa ,a ingerire piccole quantità di antibiotici tutti i giorni) è un problema sovradimensionato dagli allarmismi di certa informazione d’inchiesta, tra cui un recente servizio della trasmissione Report; in realtà sono ammesse solo alcune categorie di antibiotici per gli animali da produzione e,quando usati , sono previsti dei periodi di sospensione (cioè periodi in cui è vietata la macellazione e la vendita di latte ad uso umano) finché i residui di farmaco presenti non vengono eliminati dall’animale.
Certo esiste anche chi a scopo di profitto cerca di aggirare i controlli, ma parliamo davvero di gocce nel mare.
In sostanza il pericolo più probabile derivante da un consumo adeguato e mai eccessivo di carne è quello di strozzarsi con un pezzetto d’osso non visto!
BUON APPETITO!!!
|
Lo scorso 7 luglio sulla Gazzetta di Basilicata il prof. Antonio Lerra ricordava il 150mo anniversario dell'approvazione della Legge n. 3036, 7 luglio 1866, di "soppressione degli Ordini e delle corporazioni religiose". Tale Regio decreto rientra in un complesso normativo già attuato in precedenza da alcuni stati preunitari; partendo dalle leggi napoleoniche "eversive della feudalità", nel Regno di Napoli, (che coinvolsero anche la soppressione degli Ordini religiosi e l'incameramento dei loro beni allo Stato), fino ad arrivare alle Leggi Siccardi, emanate nel Regno di Sardegna nel 1850, dove tali norme sancirono la "separazione fra Stato e Chiesa", abolendone i privilegi goduti fino ad allora dal clero cattolico. Questo quadro legislativo si estese, dunque, dopo l'Unità d'Italia con la Legge Rattazzi e la Legge n. 3848, 15 agosto 1867. Il principio filosofico-giuridico da cui partirono e presero spunto tali normative, fu certamente quella corrente di pensiero "giurisdizionalista", sviluppatasi nel corso del XVIII sec., mirante ad affermare l'autorità dello Stato, cioè della giurisdizione laica, su quella ecclesiastica (pensiamo alle politiche attuate da Maria Teresa d'Austria, da Giuseppe II d'Austria ecc...).
Alla base di questa legislazione, nel corso di tutto l'800, vi era una sola aspirazione per le masse popolari del neonato Regno d'Italia, e di quelle meridionali principalmente, cioè: il possesso della terra. Questo sogno dei contadini, di avere un pezzo di terra, si vide realizzabile col vento rivoluzionario dei Francesi nel Regno di Napoli che, decretando nel 1806 la fine della Nobiltà feudale, sia laica che ecclesiastica, le loro leggi, insieme al Codice civile Napoleone del 1804, proponevano la creazione di un largo ceto di medi e piccoli "proprietari", attraverso l'alienazione della proprietà fondiaria e immobiliare di tutti i beni ecclesiastici posti in vendita. Analizzando i documenti del tempo, nel caso specifico della zona del Vulture, ne abbiamo alcuni esempi: nel novembre 1807 Giuseppe Pessolano di Rionero comprò con altri la Certosa di S. Lorenzo di Padula e Sala e quella di S. Nicola di Chiaromonte; il 25 aprile 1814 Don Samuele De Martinis, Sindaco di Rionero, acquistò un terreno di 6 tomoli insieme al Convento di Santa Maria degli Angeli dei Riformati di Atella, tra cui la Grangia di Rionero (che diverrà l'attuale ex-carcere) e tutte sue pertinenze fino alle vigne nella tenuta delle Querce, al prezzo di £ 711,36 e di £ 343,36.
Sempre nello stesso periodo, il 17 agosto 1808, Don Nicola Rosario Corona insieme a Don Francesco Pierri, pro-Sindaco di Rionero, coll'intervento dei notai Carmine Giannattasio e Vincenzo Tedeschi della Terra di Rionero, si presentarono nel Convento di S. Michele a Monticchio (erede dei titoli feudali della più gloriosa Badia di S. Angelo del Vulture di Monticchio) per far l'inventario dei beni che la comunità francescana fu costretta a lasciare per passare sotto la direzione di Casa Reale come credito particolare di Gioacchino Murat. Con la Restaurazione del 1815 l'Abbazia di S. Michele ritornò all'Ordine Costantiniano ed ai francescani fino al 7 luglio 1866, quando i beni del Convento di Monticchio furono incamerati nel Demanio dello Stato italiano. Col decennio francese, quindi, i Napoleonidi tentarono di redistribuire la terra alle masse contadine meridionali, rivoluzionando anche le pubbliche Amministrazioni, dalle Università feudali si passò ai Comuni, i cui rappresentanti e amministratori venivano eletti tra la piccola e media borghesia in ascesa a quel tempo e sottoposti alla Legge civile dello Stato, non più all'arbitrio del particolarismo giuridico feudale. Vicenda di altrettanto interesse è il casale di Gaudiano, in agro di Lavello, donato nell'anno 1097 da Ruggero Borsa, figlio del Guiscardo, in favore del Vescovo di Melfi: EPISCOPUS MELPHIE TENET GAUDIANUM ET HABET IBI DE DEMANIO FEUDO II MILITUM (catalogo dei Baroni normanni stilato da Ruggero II nel XII sec.).
Orbene, il Vescovo di Melfi ha dunque vantato il titolo di conte di Salsola e barone di Gaudiano fino agli inizi del XX sec., quando si registrò un contenzioso tra l'allora vescovo Camassa ed il meridionalista On. Giustino Fortunato, circa la legittimità di detti titoli. La famiglia Fortunato di Rionero risultava presente in Gaudiano come "affittuaria" dei vescovi di Melfi già nel XVIII sec.; nel 1839 tutte le terre della Mensa Vescovile di Melfi, poste nell'ex feudo di Gaudiano, vennero concesse in enfiteusi perpetua dal Vescovo di Melfi a Don Anselmo Fortunato, nonno di don Giustino. Per circa 30 anni i Fortunato di Rionero versarono al presule melfitano il canone enfiteutico per le terre di Gaudiano, di cui divennero "proprietari" nel 1869 proprio a seguito della legge 7 luglio 1866 e successive leggi eversive. A differenza del Legislatore francese del 1806 che aprì le vendite delle terre feudali alle masse contadine, favorendone però in parte l'ascesa, tentando di trasformare radicalmente la società meridionale attraverso la "proprietà borghese" tipica dei primi dell'800; il Legislatore del neonato Regno d'Italia, invece, accentrò la proprietà fondiaria a quelle poche grandi famiglie terriere.
A mio modesto avviso queste norme eversive, di soppressione e incameramento dei beni ecclesiastici, attuate dal Parlamento italiano post unitario, non furono il frutto di ideologie anticlericali del legislatore sabaudo (p.e. lo Statuto Albertino riconosceva la religione cattolica come religione di "Stato"); ma il giovane Regno d'Italia affrontò nel 1866 una difficile e dispendiosa guerra d'indipendenza contro l'Austria, così il disavanzo pubblico salì vertiginosamente, lo Stato si trovò in grave crisi finanziaria, e dunque l'obiettivo dello Stato fu quello di costringere la Chiesa a convertire i propri beni immobili (i cui Enti ecclesiastici, non lo dimentichiamo, attraverso le Opere pie, Monti di pietà ecc... redistribuiva no a sostegno delle classi meno agiate e bisognose, i redditi provenienti dalle attività agricole di conventi e monasteri) in beni mobili liquidi, ad es. titoli di Stato. A conclusione di tale dissertazione, il neonato Regno d'Italia mosso dallo stato di bisogno delle casse pubbliche, sacrificò attraverso la vendita dei beni ecclesiastici gli innumerevoli benefici che questi sopperivano alle classi meno abbienti accentuando maggiormente il problema definito: Questione meridionale.
|
Oggi, dopo qualche giorno e a mente fredda, scrivo a proposito della strategia economica
"SULLO SPOSTAMENTO DEGLI INVESTIMENTI PUBBLICI DALLE PERSONE ALLE COSE"
e la connessione con il terribile incidente ferroviario di Corato.
Tutto questo può accadere, quando si investono risorse pubbliche sulle persone al solo scopo di "mantenere" centinaia di migliaia di dipendenti pubblici al 50% inutili, incontrollabili e inefficienti (256.000 dipendenti pubblici complessivi in Puglia a tempo indeterminato, mentre la Svizzera intera ne ha solo 126.000 efficientissimi tra l'altro in riduzione dal 2015) ed invece queste spese pubbliche, non si investono alla realizzazione di opere utili che danno lavoro e servizi moderni ad esempio come il raddoppio di strade ferrate monorotaia o strade a mono corsia.
Trasferire soldi alle persone non aiuta l'economia, anzi la deprime, deprime la creatività e aiuta l'aumento del debito pubblico.
Pensate bene, lo stato italiano spende in Puglia AL MESE, 1.024.000.000 (un miliardo e 24 milioni di euro), per mantenere e pagare un esercito di impiegati pubblici pugliesi e poi non riesce a spendere 47 milioni di euro per fare il raddoppio delle Ferrovie Bari Nord, non al mese, ma solo una volta e .... per sempre.
Non riesce neanche a "liberare" o autorizzare un progetto di finanziamento privato (project financing) per raggiungere lo scopo o per collegare l'aeroporto di Bari all'autostrada.
Niente, nulla, lo Stato (Regione) non sono in grado di fare nulla e neanche pensare in forma creativa, economica e proattiva.
Comprendere, che si spendono più di un miliardo al MESE per "mantenere" una moltitudine umana senza responsabilità e produttività e che almeno il 50% di questi hanno funzioni inutili o meglio inventate e non si riescono a spendere 47 milioni una volta e per sempre, per fare il raddoppio di una ferrovia che serve 1.450.000 abitanti, è davvero una cosa tanto difficile da capire ???
È davvero una problematica tanto difficile da superare, decidendo di far fare a privati o delegare un project financing ??
Non bisogna essere Socioeconomisti per comprendere e risolvere questi micro problemi.
Inoltre, non è altrettanto chiaro che in questo modo, il danaro pubblico è usato evidentemente per voto di scambio e consolidamento del potere ????.
Basterebbe solo un po' di buon senso e di competenza o semplicemente copiare come gli asini, o di imitare come i pappagalli, altri paesi che usano il sistema economico
"INVESTIMENTO PUBBLICO, CONTROLLO, EROGAZIONI DI SERVIZI, REDDITIVITÀ, SVILUPPO), cioè, investimenti sulle cose e non sulle persone.
Le persone devono ottenere benefici dagli investimenti produttivi dello Stato e non ricevere benefici creando lavoro improduttivo e senza dare in cambio servizi migliori e avanzati.
Adesso si cercano i colpevoli e le colpe del disastro che ha distrutto la vita di tante famiglie, ma i veri colpevoli si trovano tra la classe politica e l'amministrazione pubblica che è miope, costosa, inadeguata, inefficiente, inefficace, antica e mafiosa nei comportamenti.
Un autentico insensibile mostro amministrativo che nessuno vuole modificare e che solo un GOVERNO competente e deciso può modificare.
La politica, gli italiani e lo stato, sono incapaci di comprendere le grandi questioni e pianificarle, avere una strategia e obbiettivi.
Gestire il "giorno per giorno" non funziona e non ha mai funzionato se non per creare disastri e debito pubblico progressivo.
Il numero di 3.238.474 di dipendenti pubblici a tempo indeterminato, più migliaia di consulenti, più migliaia di dipendenti parastatali o equiparati, più dipendenti a termine o supplenti, più i migliaia di dipendenti del Senato, della Camera, del Quirinale e della Corte Costituzionale, più tutti quelli che vivono della politica e dei finanziamenti pubblici, (ben oltre 5 milioni di persone), sono una massa multiforme senza controllo, senza un obbiettivo, senza una direzione, senza formazione, senza una performance quantitativa verificabile, quindi, senza una strategia.
Sento giornalmente i commenti di studiosi e ricercatori stranieri (sociologi, economisti) che si occupano dell'Italia e del comportamento pubblico dello stato italiano e onestamente provo un discreto senso di vergogna nel condividere le loro giuste e ovvie osservazioni che sono anche le mie da anni.
|
Quando mai s'era visto che la Santa Sede fosse stata presa a cannonate, per giunta dagli Italiani, specificatamente dai Piemontesi!
Certo s'era assistito, nel tempo, che papa Bonifacio VIII fosse stato oggetto di oltraggio nella sua dimora di Anagni – si è parlato di uno schiaffo, fisico, si intende – ad opera di un alleato del re di Francia, perché lo stesso re francese voleva tassare di sua mano gli ecclesiastici francesi per sue necessità finanziarie abbastanza impellenti. Ma questo episodio risale ai primi anni del 1300. Invece le cannonate alle mura della Santa Sede sono del 1870, esattamente il XX Settembre (il mio paese . Rionero e non solo Rionero - ha intestato all'avvenimento addirittura una piazza centrale!).
Il re di Francia Filippo IV “Il bello” si era limitato a sottrarre un po' di soldi al clero francese (in verità col trasferimento della Chiesa da Roma ad Avignone in Francia mise anche a morte i Templari per mettere le mani sul tesoro). I Piemontesi invece nel 1870 mettono le mani su una intera città, elevandola a capitale d'Italia ma di una Italia sfacciatamente piemontese e marcatamente a direzione settentrionale (si ha notizia che un decennio prima Garibaldi entrando in Sicilia abbia reso più leggero il tesoro del Banco di Palermo e subito dopo Vittorio Emanuele proclamatosi re d'Italia, chissà per emulazione, abbia portato con sé l'oro del Banco di Napoli a Torino a riparo delle dissanguate finanze rese tali dalla II Guerra di Indipendenza.
Fatto sta che quell'episodio (il furto di una città e di un regno – lo Stato Pontificio – successivo a quell'altro furto di città e del Regno di Napoli), la presa da Porta Pia il XX Settembre 1870 di Roma e del Lazio e la spoliazione del beni della Chiesa tornati a tutto vantaggio degli aristocratici e liberali e democratici e massoni, determinano una Questione Romana e una Questione Cattolica le quali, insieme, renderanno improcrastinabile una presa di coscienza da parte delle più avvedute sensibilità cattoliche tese sì a volere l'unità del territorio italiano entro una struttura politico-istituzionale comune, ma a patto che essa fosse anche condivisa.
Tale non è l'occupazione di Roma da parte delle truppe piemontesi.
Qualche esempio per tutti.
Il barone Vito D'Ondes Reggio, eletto deputato in Sicilia nel 1861 e mandato a sedere nel Parlamento Subalpino di Torino, eletto nel 1865 in altri sette collegi siciliani, appena informato, lo stesso giorno 20 settembre 1870, dell'entrata delle truppe italiane a Roma, rassegna le sue dimissioni da deputato e si ritira definitivamente in Sicilia, lasciando palesemente intendere che tutto così sarebbe cominciato.
Il teologo Margotti, direttore di alcune importanti riviste (l'Arminia, l'Unità Cattolica) ammonisce i cattolici militanti e li invita ad agire, organizzarsi. Un ammonimento rimasto famoso:
“Preghiamo Iddio che la rivoluzione muoia domani, ma lavoriamo come se essa dovesse vivere per sempre”.
Le forti idealità che sostenevano almeno una idea di azione, comunque tutta da pianificare, erano chiare a tutti: affermazione la Chiesa di Pietro in regime di libertà e democrazia, negare le pratiche massoniche come incontro di vertici italiani e stranieri per la soluzione di conflitti regionali, rifiutare il liberalismo e il socialismo perché ideologie anticlericali che non aggregano ma dividono.
Al primo congresso cattolico italiano del 1871 partecipano tre formazioni in forte crescita: la Società della gioventù cattolica italiana con sede a Bologna, l'Unione cattolica per il progresso delle buone opere in Italia con sede a Firenze, la Federazione Piana con sede a Roma fortemente voluta da Pio IX.
Il secondo congresso cattolico del 22 settembre 1875 si tiene a Firenze. Emerge la necessità di fondare un Comitato permanente, e poi quella di istituire un Comitato parrocchiale in ogni parrocchia sotto a direzione del parroco, e poi la costituzione di comitati diocesani quali collegamenti con i comitati parrocchiali, poi si pensa di costituire comitati regionali. Più tardi – siamo nel 1881 – si deciderà di chiamare questo gran movimento cattolico in via di organizzazione Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici in Italia con lo scopo di riunire i cattolici e le associazioni cattoliche in Italia in una comune e concorde azione.
I leaders cattolici sono nomi noti, almeno per quelli come me che si sono formati alla scuola di militanza cattolica sorretta da idealità piuttosto ferme: Salviati, Acquaderni, Venturosi, ma soprattutto Paganuzzi, avv.. Giambattista Paganuzzi, il più inflessibile, apostolo infaticabile, figura pulita, generoso, capace.
A un congresso cattolico tenuto a Bergamo nel 1877 Paganuzzi ammonisce: “Senza l'Opera dei Congressi e dei Comitati periferici non è possibile movimento cattolico che meriti il nome di italiano. Potrà essere romano, milanese, napoletano, fiorentino. E invece la necessità induce a chiamare sotto uno stendardo i cattolici italiani per opporsi agli attentati scellerati onde la rivoluzione minaccia la fede non soltanto a Milano, a Roma, a Firenze, a Napoli ma in tutta intera l'Italia cattolica. Il pericolo è comune, universale: dobbiamo costituirci in un solo esercito senz'armi se non vogliamo esser vinti, presi alla spicciolata”.
L'Opera dei Congressi viene affiancata da altre importanti organizzazioni cattoliche. Ma la dimensione sociale del movimento cattolico in Italia è ancora incerta, imprecisa, insicura. Si avverte evidentemente la necessità non tanto di raccordi tra il centro e le periferie, quanto di una sorta di statuto comune, un comune proclama, un indirizzo certo ma anche autorevole a cui tutti potessero fare riferimento. Ovviamente si guarda al papa, quel grande papa Leone XIII asceso al soglio pontificio nel 1978 e subito interessato alla questione politico-sociale sorta dopo l'occupazione di Roma.
La svolta matura con la sua enciclica del 15 maggio 1891, la Rerum Novarum.
In essa si afferma che la Chiesa non può gradire il conservatorismo ottuso dei liberali e neanche il rivoluzionarismo socialista. Anzi, essi si presentano come due sistemi ideologici anticlericali, dichiaratamente ostili ai principi della cristianità e il suo corpo di valori. E la chiesa comincia a far capire da quale parte sta. O meglio, da quale parte non sta. Né con la destra e né con la sinistra. Piuttosto, afferma una teoria sociale di tipo solidarista, basata sull'incontro e la comprensione dei ruoli tra capitale e lavoro, ossia quella che Alcide De Gasperi individuerà, dopo la seconda guerra mondiale, nella nozione di interclassismo.
La Rerum Novarum di Leone XIII diviene il primo organico documento della Chiesa e dei cattolici in chiave sociale. E' un iniziale superamento della Questione Romana aperta con l'occupazione di Roma; ed è un tentativo di andare oltre la nozione del Non Expedit pronunciata dal suo predecessore Pio IX, poi divenuta Non Licet. Che significano: non è opportuno, è sconsigliabile e dannoso, non è lecito che i cattolici si impegnino nella vita politica italiana. Il loro impegno significa dar fiato ad uno Stato e un suo sistema di politica ove i suoi alti dirigenti sono massoni e anticlericali.
Non è un divieto divenuto tale per una legge. Ne mancano le condizioni. Ma l'invito a non entrare in politica attiva è forte e pressante.
Il più convinto assertore di questa linea in chiave laica è proprio Paganuzzi. E Paganuzzi è una voce autorevole. Del resto, l'esempio del barone Vito D'Ondes Reggio, divenuto deputato siciliano e poi italiano che sdegnosamente si era dimesso lo stesso giorno dell'occupazione di Roma era un segnale forte, era l'indicazione di una scelta per tutti. Qui, nel Sud, tutti gli intellettuali cattolici lo avevano conosciuto anche di persona, dalla Sicilia, alla Sardegna, alla Campania. Questi erano i suoi percorsi privilegiati per spiegare il suo “gran rifiuto”.
Mons. Gioacchino Pecci, arcivescovo di Perugia divenuto dal 1878 Leone XIII, tuttavia non se la sente di cancellare il Non Expedit, nonostante la portata storica e straordinariamente innovativa della sua enciclica. Confessa ai suoi fedelissimi di avere non poche perplessità. E pur negando la possibilità della creazione di un partito cattolico nazionale, prima fa intravedere la possibilità di cancellare il Non Expedit, poi risponde con una enciclica, quasi volesse dire: Guardate che i cattolici non sono ancora un mondo perché non hanno ancora una struttura od una capacità organizzativa.
Ed è proprio questo che l'avv. Paganuzzi sostiene: la necessità di pianificare una azione, di organizzarsi, di essere esperti.
“Se non siamo uniti, se non siamo forti, ci prenderanno una alla volta, e ci faranno a pezzi”.
Questo accadeva quando i cristiani erano cristiani sul serio!
Bisognava cominciare a muoversi, magari a tappe. E i cattolici lo fanno con l'Opera dei Congressi, con i Comitati parrocchiali, diocesani, regionali e col Comitato nazionale permanente in un raccordo tra il centro le periferie.
Comincia a sciogliersi il primo nodo della difficile coesistenza fra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica. Il cammino sarà ancora lungo e difficile per tutto il cinquantennio che va dal 1870 al 1922, la marcia su Roma e la presa del potere di Mussolini, complice un pavido re piccolo piccolo, Vittorio Emanuele III.
Per la verità, io aggiungerei un'altra data che prolunga un'era storica e ne apre un'altra. E' l'11 Febbraio del 1929, data storica perché viene firmato il Concordato tra la Stato e la Chiesa.
Quel cinquantennio, o quel sessantennio, sono però l'inizio di una storia, di un grande ed anche difficile ma anche esaltante ma anche drammatico percorso dei cattolici nelle strutture sociali economiche culturali politiche burocratiche amministrative.
Si era cominciato con l'Opera dei Congressi, primo organico raggruppamento cattolico di carattere sociale che aveva dato vita a una serie di attività quali le casse rurali, le società operaie, le banche cattoliche, le società di assicurazione.
Siamo nel 1894, XII Congresso cattolico italiano di Pavia, Regolamento delle unioni cattoliche rurali.
Solo qualche articolo.
“Nelle varie zone o nei centri agrari si fondano – per la protezione e il miglioramento della classe rurale – gruppi professionali col nome di Unioni cattoliche rurali. Ne faranno parte i proprietari fondiari e gli agricoltori di qualunque categoria: coloni, fittaioli, livellari, agenti o fattori di campagna, lavoranti giornalieri. Per essere ammessi all'Unione gli aderenti debbono dare propva di sentimenti cattolici, di retto spirito di famiglia, di buona condotta. Vi si manterrà spirito di solidarietà tra le varie componenti che giovi al comune benessere e miglioramento del ceto campagnolo. I componenti svilupperanno la fede e la morale nelle campagne opponendosi in modo speciale alle insidie delle sette ed alle propagande della incredulità e del socialismo”. Bisognerebbe leggerli tutti quei 21 articoli.
Ebbene anche questo regolamento delle unioni delle casse rurali italiane è il risultato di quella enciclica papale che ha segnato senz'altro l'inizio di una storia del movimento cattolico in Italia. Quella è l'aria che si respira, quello il clima in cui si sono formati i sacerdoti italiani e gli spiriti più eletti.
Quelle società, quelle aggregazioni operaie, rurali, intellettuali fioriscono rigogliosamente e si vanno traducendo prima sul terreno ideologico, in forza ad un ragionamento che bisogna fare la mente prima di passare all'azione. Uno dei sette saggi della filosofia greca precedente a Socrate ammoniva: Fa' in modo che l'azione non corra davanti al pensiero.
Quella forte presa ideologico-dottrinale su gran parte della popolazione italiana si tramuterà – in forma organizzativa – nella prima formazione della Democrazia Cristiana di Romolo Murri.
I partiti laici e più ostinatamente conservatori cominciano a parlare di pericolo clericale. Veramente lo fanno anche oggi quando esponenti della Chiesa o intellettuali laici parlano di tentativo strisciante di scristianizzazione dell'Italia e dell'Europa, specie nella occasione della mancata menzione delle radici cristiane dell'Europa nel preambolo della Costituzione Europea. Ricorderete con me che a questo proposito il Santo Padre Giovanni Paolo II “Il Grande” invitava a non strapparsi i capelli certo, ma ammoniva che l'evento negativo per la cristianità deve risolversi in una forte presa di coscienza di un qualche stato di minorità nel quale ci troviamo, ossia della consapevolezza che bisogna rimboccarsi le maniche e riprendere a lavorare, in spirito di umiltà, di unità per affermare nella società i valori nostri che oggi progressivamente si vanno soffocando.
Il 1894 è l'anno della nascita della Democrazia Cristiana. Essa si svilupperà negli anni successivi per esaurirsi tra il 1904 e il 1906.
Sono anni di modificazioni profonde del tessuto sociale italiano; sono palpabili i mutamenti nella gestione del potere pubblico e dell'economia in generale. Sono in atto trasformazioni, c'è più volontà di fare e di operare. Comincia in pratica il periodo in qualche modo felice e fecondo che successivamente verrà chiamato Belle Epoque. Nessuno avrebbe scommesso su una guerra imminente. E invece covavano sotto le volontà di potenza dei governi europei che si armavano in vista di una ulteriore espansione coloniale soprattutto verso l'Africa, facendo intendere ai cittadini che interi paesi africani fossero ricchi di materie prime. Anzi, compito dell'Europa era quello di portare civiltà, meglio dire civilizzazione quasi si trattasse di un impegno disceso metafisicamente sull'Europa per i destini che essa non poteva non imporre ai popoli di pelle nera sottosviluppati.
Ma sono gli anni anche delle contraddizioni sociali. Moti e sommosse popolari e operaie mostrano qua e là le contraddizioni di un sistema sociale ed economico che in Italia provocano fortissimi squilibri. Spesso si tratta di lotta per il pane.
Nel 1898 a Milano la polizia e l'esercito intervengono duramente per reprimere una sommossa nata spontaneamente per lucro di pane. L'esercito impiega i cannoni addirittura. Rimangono a terra 100 morti, oltre 500 sono i feriti. Vengono accusati anche i cattolici. Ma si tratta solo di una accusa interessata, mancano le prove accertate.
Nel 1892 era sorto il Partito Socialista che operava specie nel Nord quale primo catalizzatore della base sociale. Lo stesso non si poteva dire dei cattolici. Erano ancora divisi. Alcuni continuavano a reclamare il Non Expedit, altri invitavano all'impegno ad entrare in politica, altri ancora avevano coniato il motto: Né eletti e né elettori. Certo, la Rerum Novarum è illuminante per tutti. Ma la Chiesa non è ancora convinta per il gran passo, nonostante la rivista di don Romolo Murri e l'adesione di un altro sacerdote, in verità ancora piuttosto giovane in quegli anni, don Luigi Sturzo, siciliano di Caltagirone, ma non per questo uno sprovveduto. Don Luigi Sturzo è già un talento che si mostra.
Tuttavia, i cattolici sono messi di fronte al grande problema: predisporre una strategia autonoma per un recupero del proletariato e delle masse contadine che si erano sottratte all'influenza della Chiesa a causa del suo Non licet. Occorreva recuperare un mondo popolare cattolico. I socialisti esercitavano una potente attrazione su quel mondo.
Sorgono in molte città italiane (Roma, Napoli, Palermo, Cagliari, Milano, Torino, Bologna) molti gruppi cattolici. Ci sono laici e ci sono sacerdoti. Ed è proprio il sacerdote marchigiano Romolo Murri a scrivere la prima pagina del primo partito cattolico, la Democrazia Cristiana, attraverso il periodico di cui è direttore, la Vita Nova. Scopo del giornale è quello di testimoniare – con la presenza e lo studio – la volontà di combattere contro lo stato borghese e liberale per affermare invece la volontà di cambiamento e di rinnovamento. Queste le attese e gli sforzi dei giovani cattolici, laici e sacerdoti insieme, dentro un unico progetto condiviso.
Il loro programma, lo si vede subito, si presenta come un ampio rinnovamento delle strutture politiche, sociali ed economiche dello stato liberale: libertà sindacale, introduzione del sistema proporzionale nelle elezioni, istituzione del referendum quale ulteriore forma del diritto di iniziativa popolare, decentramento amministrativo (si trattava di scardinare la struttura centralistica del vecchio stato borghese), riforma tributaria e fiscale più giusta e vicina agli interessi dei meno abbienti, lotta contro la speculazione capitalistica, tutela della libertà di stampa, possibilità di riunirsi e di organizzarsi liberamente, ampliamento del suffragio universale, disarmo generale.
Don Romolo Murri è alla guida di questo movimento.
Leone XIII in una enciclica (Graves de communi) del 1901 stabilisce che il nome Democrazia Cristiana può essere usato dai cattolici, ma limitatamente al terreno sociale quale espressione di desiderio di lotta per la giustizia sociale, dunque non in chiave politica.
Sono anni di grandi cambiamenti e di facili entusiasmi. I cattolici avvertono i tempi dei cambiamenti, alcuni vi si buttano a capofitto. Ci sono personalità di grande rilievo che si apprestano alla lotta per il cambiamento. C'è il prof. Giuseppe Toniolo, docente di economia all'università di Pisa, esponente prestigioso della scuola sociologica cattolica. E' una autorità culturale riconosciuta. Il movimento attraversa quasi tutta l'Italia, più al Nord che al Sud. Ma qui, nel meridione, c'è però un giovane sacerdote nato a Caltagirone – si chiama don Luigi Sturzo – affascinato da quel vento ma non vuole però esserne trasportato. Si vede già che vuole dominarlo, indirizzarlo. Ma ci sono tantissimi altri giovani sacerdoti pronti a buttarsi nella mischia.
Sono anche tempi controversi. I cattolici non hanno ancora una comune linea. Ci sono gli intransigenti, legati alla nozione del Non Expedit che ancora non tollerano che lo Stato liberale sia riconosciuto dalle strutture cattoliche e ci sono quelli i quali ritengono oramai giunto il tempo di governare gli eventi e grave sarebbe continuare a starsene sdegnosamente lontani.
Nel 1903 nuovo papa diventa Pio X. Mentre il predecessore Leone XIII sollecitava ad uscire dalle sacrestie, Pio X invece comanda di rientrarne, più disposto per un laicato obbediente e sottomesso all'autorità diocesana. Nel 1904 scioglie l'Opera dei Congressi, organismo nato trent'anni prima, che aveva cominciato a far sentire ai cattolici l'appartenenza ad una unica coscienza sociale.
Don Romolo Murri non obbedisce. Fonda la Lega Democratica Nazionale. E' il tempo in cui un nuovo atteggiamento di pensiero, il “modernismo”, propone alla Chiesa di aprirsi e finalmente si concili con la cultura moderna. Don Romolo è uno degli interpreti del modernismo. Intanto Pio X promulga una nuova enciclica, Pascendi, nel 1907: il modernismo viene apertamente condannato, don Romolo viene sospeso dal sacerdozio. Diviene deputato. Sarà riammesso nella Chiesa solo poco prima della sua morte, avvenuta nel 1944.
Il giovane sacerdote siciliano, don Sturzo, nel 1905, in un memorabile discorso tenuto a Caltagirone, propone la nascita di un partito democratico, laico, di ispirazione cristiana, che tenga ben distinte le legittime ragioni del papa e dei vescovi e dunque del clero da quelle dei laici e le loro libere necessità di volgersi verso la politica.
Quel discorso di Caltagirone di don Luigi Sturzo non ottiene l'imprimatur della Chiesa (tutto sommato forse Sturzo neanche questo vuole). Ma non viene neanche condannato.
Sono tempi di grande incertezza. Anche dalla Santa Sede non arrivano segnali certi, sicuri. Non ci sono direttive precise. Si va dall'appoggio ai “cattolici deputati” eletti a titolo personale e non in rappresentanza di un partito, all'appoggio di candidati liberalconservatori, anche massoni, pur di impedire l'elezione del candidato socialista, dichiaratamente anticlericale.
Il movimento cattolico in forma sindacale in quegli anni conosce grandi adesioni. Si contano – censite – 375 leghe bianche con 100mila iscritti solo nel Nord. Nel 1909 nasce il primo sindacato nazionale cattolico degli operai tessili (nel 1906 era nata la Cgl, gli aderenti erano tutti socialisti, divisi tra ala massimalista-rivoluzionaria e ala riformista più disposta ai cambiamenti all'interno del regime). Nelle campagne romagnole nascono le leghe bianche quale necessità di essere presenti ed evitare gli urti e le spinte rivoluzionarie delle leghe rosse. Poi, il cosiddetto Patto Gentiloni del 1913. Sono le prime elezioni a suffragio universale maschile.
Il presidente dell'Unione elettorale cattolica, conte Ottorino Gentiloni, propone ai cattolici di votare per quei candidati liberali che si impegneranno, da deputati, ad opporsi all'introduzione della legge sul divorzio, a tutelare l'insegnamento della scuola privata, a riconoscere le formazioni sindacali cattoliche. Vengono eletti 200 deputati individuati dai patti gentilonizi con un grande segnale politico: con i cattolici moderati si vince.
Ma sono tempi di grande incertezza storica e politica, ma anche culturale.
Diciamo anche che è questo il periodo di trapasso di culture, anche filosofiche.
E' la crisi del Positivismo, quella corrente più propriamente filosofica sorta nella seconda metà dell'Ottocento, in tempi di grande rivoluzione tecnologica ed industriale, che aveva la pretesa di estendere il procedimento scientifico, proprio della scienza moderna già introdotta nel Seicento da Galilei, anche alle scienze umane e sociali, come se si potessero sperimentare, quindi in maniera reversibile, anche gli avvenimenti sociali ed umani al pari di quelli fisici. Il Positivismo aveva la pretesa di spazializzare, matematizzare il tempo della coscienza al pari di quello geometrico, matematico dimenticando che 5 minuti non sono mai gli stessi se riferiti ad ambiti e situazioni diversi.
E' la grande crisi morale, politica, culturale. Sono tempi di grande trapasso. I grandi della terra non se ne accorgono in tempo, troppo presi dalle stupidità umane fatte di orgoglio, passioni incontrollate, volontà di potenza, sgambetti anche tra alleati. Sono gli anni del grande riarmo. Gli anni della grande guerra – 1914/ 1918 – gli anni della “inutile strage” sentenziata da Benedetto XV (bisognerebbe dare maggiore ascolto ai papi). Una strage costata, per desiderio di egemonia europea e mondiale, ben 8 milioni e mezzo di morti, 20 milioni tra feriti gravi e mutilati, e lo scenario europeo rimasto quasi intatto, pressoché immutato tranne piccoli spostamenti territoriali. Una strage inutile. Ampiamente prevista.
Il Gennaio 1919 segna un'altra tappa importante per i cattolici. In un formidabile discorso fatto “Ai liberi e ai forti”, don Luigi Sturzo fonda il Partito Popolare Italiano.
Ma questa è già storia cattolica di un'era successiva a quella sulla quale io sono stato chiamato dal prof. Don Felice Dinardo per un veloce percorso sulle origini della storia dei cattolici nelle tematiche sociali e politiche ed anche per una qualche mia proposta interpretativa sui fatti.
La nascita del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo è un'altra parte della storia che va esaminata a parte e con più tempo. Appena qualche nota, sul suo discorso del 1905. Scriveva don Sturzo 100 anni fa:
“A me, democratico autentico, convinto e non dell'ultima ora, è inutile chiedere quale delle due tendenze politiche io creda che risponda meglio agli ideali di quella rigenerazione della società in Cristo, che è l'aspirazione prima e ultima di tutto il nostro precorrere, agire, lottare. Io stimo inopportuna la posizione di un partito cattolico conservatore a rimorchio dei liberali. Io credo necessario un contenuto democratico del programma dei cattolici nella formazione di un partito nazionale.(…) Noi però dobbiamo viaggiare da soli, specificatamente diversi come siamo sia dai liberali che dai socialisti, liberi nelle mosse, con un programma consono, concreto, basato sopra elementi di vita democratica. Non la monarchia, non il conservatorismo, non il riformismo socialista ci potranno attirare nella loro orbita. Noi saremo sempre, e necessariamente, democratici e cattolici”.
Pasquale Tucciariello
Barile, 19 novembre 2005, Centro sociale. Relazione tenuta in occasione della presentazione del libro di don Felice Dinardo, “Mons. Emanuele Virgilio, Una storia folle di ordinaria santità”
|
La vita di mio padre, Amedeo Forcignanò, è strettamente legata alla prima guerra mondiale: 3 agosto 1914 – 4 novembre 1918,
Austria e Germania da una parte, Serbia, Russia e Francia dall’altra.
La rivalità ed i contrasti tra queste potenze erano insanabili.
La scintilla che fece scoppiare la guerra fu l’uccisione di Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, da parte di uno studente serbo.
Il modo di condurre una guerra si era trasformato: milioni di uomini vivono e combattono nelle pieghe del terreno sotto la pioggia e il gelo.
L’Italia dichiarò guerra all’Austria il 24 maggio 1915 e dure battaglie furono combattute sul Carso e sull’Isonzo.
I tre fratelli Forcignanò furono chiamati alle armi ed Amedeo entrò a far parte del Corpo dei bersaglieri con la diviso grigio-verde ed il cappello piumato.
L’offensiva dell’esercito italiano logora, certamente, l’esercito austriaco, ma costa un presso troppo elevato di vite umane e sul Carso perdono la vita due dei fratelli Forcignanò, i cui nomi figurano sul monumento dei caduti in guerra di S. Cesario di Lecce.
Amedeo rimane solo. Finita la guerra, prese la via del ritorno dalla vecchia madre.
Senza denaro, lacero, contuso, con una divisa che cadeva a brandelli, le piume al cappello, ormai al vento.
Tornato a casa, si prese la testa tra le mani e cominciò a pensare come ricominciare. L’idea gli venne dalle squadre di giovani che, all’alba, uscivano di casa per recarsi, a piedi, per lavorare nelle cave per l’estrazione e la quadratura della pietra. Assente la tecnologia si poteva contare solo sulla forza dei muscoli. Trovare un mezzo di trasporto economico, pratico, semplice, che aiutasse i giovani a raggiungere il posto di lavoro fu il suo primo impegno. Quale poteva essere? La bicicletta.
Il problema più pesante era trovare il denaro necessario. Ad Amedeo non rimase che rovistare tra i ferri vecchi. Prese l’utilizzabile, costruì con le sue mani un telaio che dipinse verde – oliva, comprò a rate due copertoni e due camere d’aria dalla soc. Michelin. Nasceva la prima bicicletta Forcignanò che espose al pubblico. Fu una fiammata. Le biciclette, in breve, si moltiplicano, gareggiano con le più grandi marche del momento: Bianchi e Legnano, partono per tutte le città italiane, valicano i confini, vengono spedite in Africa Orientale ad Addis Abeba, a Tirana, in Francia, per lidi sconosciuti.
Amedeo non si ferma: forma, a sue spese, una squadra ciclistica dove gareggiano Binda e Girardengo che si contendono la vittoria sulle strade e che le ragazze coprono di fiori.
Chiamò Girardengo il suo secondo figlio in omaggio al più grande corridore di tutti i tempi. Continuò a lavorare fino alla fine dei suoi giorni, visse e operò per quell’ideale.
Chiuse gli occhi per sempre raccomandando ai suoi figli la grandezza del suo nome.
Io, figlia primogenita, trovai in soffitta una biciletta verde-oliva ed una lacrima mi rigò il viso senza piangere.
Con gli anni lo sviluppo dei motori e delle macchine divenne pauroso ma, la biciletta, da sempre indiscussa protagonista della nostra vita continua il suo canto di giovinezza in una tradizione senza fine.
Il Comune di S. Cesario, riconoscente, dette il nome dell’illustre cittadino ad una strada e ad una Piazza del Paese perché negli anni il nome di Amedeo Forcignanò rimanga tra quelli degli eroi.
|
Il territorio del Vulture rappresenta attualmente il primo motore di crescita dell’economia in Basilicata. Il comparto delle produzioni agroalimentari, rappresenta il 27 % del totale delle produzioni lucane, per un valore di 159 milioni di euro. Aggiunto a questo comparto agroalimentare, esiste un comparto industriale formidabile (SATA e indotto) che produce un fatturato valutabile in 7 miliardi di euro annui e che porta quindi, di gran lunga al primo posto, in Basilicata, il fatturato totale delle produzioni in questa area.
Il reddito pro capite netto nella zona del Vulture nel 2015 è pari a 20.450 euro, risultato che pone al primo posto in Basilicata le popolazioni residenti. Con questi dati positivissimi LA PROGRAMMAZIONE del legame tra Turismo, Agricoltura, Servizi e Industria rappresenta il punto centrale per la creazione del valore economico delle imprese, dei commerci e dello sviluppo programmato del territorio. Il Vulture deve diventare un territorio, dove attuare, un modello di sviluppo sostenibile fondato sul rafforzamento programmato dei legami tra agricoltura, attività economiche, territorio e ambiente. Tale modello di sviluppo si deve fondare sulle produzioni tipiche (DOC e DOOP), sui servizi di qualità, sulla rinnovata cultura industriale mutuata dagli insediamenti industriali, sul rispetto del paesaggio e delle risorse naturali, sul capitale storico e quindi turistico, sulle risorse idriche e sulle bellezze naturali come i laghi di Monticchio. Il settore agro-industriale del Vulture rappresenta quindi, una opportunità di crescita, in una logica di “sistema” che punti a superare le attuali debolezze legate alla piccola dimensione delle imprese agricole, commerciali, artigianali. Settore che vede aziende con una scarsa propensione agli investimenti in ricerca e sviluppo, con una inadeguata ricerca del marchio e inadeguata distribuzione, senza tralasciare il ritardo del necessario cambiamento culturale che tenda a favorire l’integrazione e l’internazionale delle aziende locali.
Naturalmente, in una ottica programmatoria che segue il principio dello spostamento degli investimenti dalle persone alle cose, diventa sempre più necessario agire secondo un piano socioeconomico strutturato che possiamo così definire: “ ottenimento del risultato, raggiungendo una meta prefissata, in un tempo certo”.
Con questo vogliamo dire che la socioeconomia di un progetto di sviluppo può solo essere costruito da un piano economico che abbia nell’obbiettivo prefissato il suo successo o il suo fallimento.
Facciamo due esempi concreti:
- PROGETTO PARCO DI MONTICCHIO E SUO UTILIZZO TURISTICO. La giunta regionale della Basilicata ha approvato, con decenni di ritardo, il disegno di legge per l’istituzione del Parco naturale regionale del Vulture. L’area
protetta, dovrebbe comprendere i comuni di Melfi, Rionero in Vulture, Rapolla, Barile, Ripacandida, Ginestra, San Fele, Atella e Ruvo del Monte, in provincia di Potenza, e sarebbe costituito da un’area centrale, che corrisponderebbe con la Zona di conservazione speciale e Zona di protezione speciale del Monte Vulture.
CONSIDERAZIONI:
A) Ritardo mostruoso nella istituzione del Parco.
B) Nessun progetto concreto di uso turistico e quindi economico del Parco e relativi tempi di realizzazione. Nessun progetto di marketing e di attrazione turistica.
C) Nessuna programmazione e progetti sul miglioramento della fauna, flora, acque, aree turistiche per infrastrutture, aree edificabili per ricettività ecocompatibili, aree per attività ludiche (golf e sport ecocompatibili, ciclismo, tiro con l’arco, sport equestri, nuoto), aree di divertimento e tempo libero, creazione di spiagge artificiali protette nel lago grande (piscine lacustri), piste ciclabili, sentieri montani, attivazione rifugi di vetta, funivia, depurazione e smaltimento delle acque, sistema viario moderno ed ecocompatibile, ecc.
CONCLUSIONI: è venuto meno il principio dell’ “ottenimento del risultato, raggiungendo una meta prefissata, in un tempo certo”. Quindi ?? Nessuna realizzazione così come descritto sarà realizzata nei prossimi 10 anni, quindi, …………… NESSUN RISULTATO.
- PROGETTO VALORIZZAZIONE PARCO INDUSTRIALE DI SAN NICOLA DI MELFI CON RELATIVA INTEGRAZIONE, TRA INDUSTRIA, RICERCA, SCUOLA E TERRITORIO.
E’ passato più di un ventennio da quando esiste il più avanzato complesso industriale produttivo d’Europa nel Vulture che ha portato modifiche nella struttura sociale ed economica della zona intera. Straordinario evento che solo è stato usato come luogo di lavoro, ma che non è stato inserito in un contesto socioeconomico di integrazione culturale e sociale di sviluppo. Bisogna domandarsi se occorreva prestare una maggiore attenzione a questo investimento ?? Bisognava pensare in termini di turismo industriale ?? Bisognava migliorare “l’effetto calamita” SATA per l’aumento demografico ?? Bisognava istituire a cura delle amministrazioni pubbliche di concerto con FIAT un museo delle prime serie di ogni auto o modello costruito in SATA, aperto al pubblico? Bisognava integrare sempre di più e sin dai primi anni le scuole con il Parco Industriale ?? Bisognava rendere sempre più “bello”, dal punto di vista strutturale e viario, il Parco Industriale e non lasciarlo per anni con strade piene di buche, senza alberi ornamentali e giardini, al fine di umanizzare e europeizzare l’ambiente ?? Bisognava creare aree di parcheggio meglio servite ?? Bisognava realizzare dibattiti e simposi culturali motivazionali sulla presenza della SATA e del suo indotto ?? Da parte delle istituzioni, bisognava conoscere e far conoscere di più alla popolazione del Vulture le potenzialità enormi di questa grande presenza sul territorio ??? Bisognava concludere 15 anni fa il raddoppio della strada POTENZA – MELFI – OFANTO? Bisognava concludere 20 anni fa la costruzione della strada detta “Oraziana” (Rionero – Venosa – Bradanica) e bisognava concludere almeno 25 anni fa, la famosa strada Bradanica, che
avrebbe messo in comunicazione il materano con il Vulture, progettata nel 1969 e ancora oggi non ultimata ??? NON ULTIMATA IN BEN 47 ANNI.
CONCLUSIONI: è venuto meno, anche qui, il principio del “ottenimento del risultato, raggiungendo una meta prefissata, in un tempo certo”, quindi, nessuna realizzazione conclusiva e come da progetto nei prossimi anni a venire.
Diventa inutile parlare di progetti, di pianificazione territoriale, di brand territoriale, di marketing territorio/prodotti, di sviluppo del turismo, di aumento del PIL territoriale con ricadute sul reddito pro capite, su una maggiore integrazione culturale socioeconomica espressa dal concetto:
“TERRITORIO, PRODUZIONI, BRAND, OBBIETTIVI DI BREVE E MEDIO PERIODO.
La stessa incapacità programmatoria territoriale, porta a un sentiment di abbandono, a un sentiment di insicurezza degli investimenti personali, a un sentiment del “meglio andare via che rimanere”, a un sentiment “che è meglio vivere straniero fuori che residente in patria, che residente nel territorio di nascita”. Ecco, tutto questo solo perché, anziché concentrarsi su pochi obbiettivi di natura economica moltiplicativa, ci si concentra su una vecchia politica di gestione del territorio vetusta e cieca, indirizzata verso le persone e non verso le cose (Piano economico, strategie, infrastrutture, progetti, programmazione strutturale, obbiettivi in TEMPI CERTI e quindi mete da raggiungere). In sintesi, su un territorio dove vivono 75.000 individui, gli amministratori pubblici dovrebbero portare a conclusione come armonica e unica opera, politiche socioeconomiche studiate sul territorio e realizzate secondo i principi dell’economia del tempo, con nessun spreco di risorse pubbliche a servizio delle persone, ma dell’utilizzo di tali risorse al servizio delle cose, degli obbiettivi sociali, strutturali e di progetto. Questo porterebbe al raggiungimento di un incremento sostanziale del PIL territoriale e quindi, di un maggiore reddito pro-capite, di una migliore qualità della vita, di una aumentata attrazione di talenti riducendo la fuga delle stesse, ed infine, un uso equilibrato del territorio e delle sue ricchezze.
La classe politica e l’amministrazione dello stato, dovrebbero avere come unico obbiettivo di lavoro, il miglioramento programmato del territorio di appartenenza. Questo vuol dire, uscire dagli stereotipi educativi, culturali, politici e di mera attività amministrativa ai quali siamo abituati. Cominciare a ragionare, seppur con grande ritardo, in forma macroeconomica ed iniziare ad amministrare secondo tecniche di socioeconomia programmate del territorio. Ripeto il concetto: è veramente fuori luogo pensare di fare il “l’amministratore del campanile” o l’amministratore della quotidianità o l’amministratore di una amministrazione pubblica, capace di gestire senza brillare in nulla solo il minimo indispensabile, in una visione di bassa efficacia e bassissima efficienza economica.
Essere capaci di spostare gli investimenti dalla persone alle cose per la creazione di valori economici nuovi è la grande sfida culturale di una nuova classe dirigente che pensa in forma diversa. Una classe dirigente colta e preparata, con formazione e
motivazione legata all’amore del territorio, con una forte responsabilità sui problemi della crescita e diciamolo pure con una buona preparazione culturale di macroeconomia territoriale e conoscenza geografica, economica e orografica della zona e quindi conscia delle enormi potenzialità esistenti. Le vere sfide sono: essere anzitutto un territorio omogeneo, portare il territorio ad avere un parco Nazionale sfruttabile dal punto di vista economico e turistico, portare a una vera definizione del territorio del Vulture (da Filiano a salire verso nord), creare infrastrutture viarie di tipo europeo, integrazione SATA con territorio (museo dell’auto, rally del Vulture Prima Categoria, integrazione con la scuola per la ricerca sulla trazione elettrica), servizi infra comunali integrati (smaltimento, acque, trasporti, scuole), pianificazione delle urbanizzazioni territoriali e quindi integrazioni comunali, valorizzazione con brand unico dei prodotti tipici, creazione del prodotto Vulture (Acqua, Olio, Vino). Quindi programmi economici e di studio del territorio, utilizzanti le moderne tecniche di mix marketing in un concetto di efficienza, efficacia e di gestione e uso del tempo, per ottenere il salto di qualità e portare la qualità della vita, i servizi e il territorio a livelli di efficienza e standard europei. L’obbiettivo, la meta, la sfida è recuperare il tempo e il terreno perso e portare ad un aumento del PIL le popolazioni del Vulture, con una ricaduta sul reddito pro capite dagli attuali 20.450 euro a circa 30.000 euro pro capite che rappresenterebbe un traguardo medio europeo di sicuro interesse per tutti e indice macroeconomico di sviluppo esogeno ed endogeno.
Prof. Antonio ROMANO
Progetti di Socioeconomia Applicata
|
La provincia di Potenza, di pari passo con il trend dell’intera Basilicata, sembra spopolarsi di anno in anno in maniera inesorabile; certo il tasso di natalità regionale (7,1)* non raggiunge il tasso di mortalità (10,3)*, ma una mano concreta a questo fenomeno la dà l’emigrazione giovanile.
*dati ISTAT
Siamo davvero condannati a vedere i lucani “invecchiare” progressivamente fino a scomparire del tutto? Davvero i pochi giovani rimasti in regione non hanno altra alternativa che andare lontano per poter lavorare? I disfattisti diranno sicuramente di sì, ma forse un’opportunità di cambiamento c’è. Dove? Beh, percorrete una qualsiasi strada che collega il vostro paesino a quelli vicini, per es. l’ex SS93, e guardate fuori dai finestrini. Non vedete niente? Sicuri? Vi do un aiuto: la terra!
Le attività rurali, l’agricoltura e l’allevamento, sono state per anni abbandonate a partire dal dopoguerra, ma sempre più vengono riscoperte in molte aree italiane perché oggi i consumatori hanno acquisito una sensibilità maggiore verso temi quali il biologico, il cruelty-free, il sostenibile e la filiera corta. Prodotti fino a dieci anni fa ritenuti di nicchia entrano prepotentemente anche nella grande distribuzione e ce n’è sempre maggiore richiesta. Questa oggi è una delle sfide di chi vuole credere nel made in Italy. Eppure sembra che questa opportunità, ben sfruttata nella vicina Puglia, non venga colta qui da noi se non da pochi. Certo avviare un’impresa richiede un’idea, un investimento iniziale e un po’ di spirito di iniziativa e di sacrificio, in una sola definizione di rischio imprenditoriale. Oggi abbiamo però il sostegno dell’Europa.
Vi invito a visitare il sito
http://www.basilicatapsr.it/politica-agricola-comune--2014-2020?jjj=1464866827638 .
Ogni nuova azienda agricola non darebbe “da mangiare” solo al proprietario e ai quattro-cinque operai assunti, ma anche a agronomi, geologi, veterinari, enologi, ecc…
Un ritorno alla terra oggi non vuol dire regredire, vuol dire riappropriarsi di una ricchezza sprecata. E chi pensa che sporcarsi le mani di terra sia avvilente, vada pure a Milano a prendere 400 € in un call-center.
Ecco alcuni dei bandi in scadenza:
M 6.1 - Incentivi per la costituzione di nuove aziende agricole da parte di giovani agricoltori
Scade il 29/07/2016
M 10.1.3 - Biodiversità, allevatori custodi
Scade il 15/06/2016
M 13.1 -Indennità compensativa per gli agricoltori delle aree svantaggiate di montagna
Scade il 15/06/2016
(altri bandi sono già disponibili e nuovi verranno pubblicati).
|
È possibile che il legame tra due persone sia così forte da potersi trasformare in una vera e propria prigione dalla quale, nonostante sia fonte di sofferenza, non si riesce ad uscire? Le vicende di cronaca che sempre più spesso siamo soliti leggere sui giornali ci confermano di sì.
Donne uccise dal proprio compagno, donne picchiate, maltrattate, perseguitate o minacciate, sono diventate questioni ormai all’ordine del giorno. Quante volte ci siamo chiesti : “ma perché arrivare a tanto?”. L’amore è un sentimento che dovrebbe portare gioia e serenità, dovrebbe completare e rendere migliori, non far soffrire. Chiunque si è domandato, almeno una volta, come facciano queste donne a continuare a rimanere legate ai loro uomini, nonostante questi continuino ad abusare di loro fisicamente, psicologicamente e verbalmente. Molti, in maniera “inconsapevole”, hanno pensato che, probabilmente, era “troppo innamorata”. In questo pensiero, per quanto banale possa sembrare, non c’è assolutamente nulla di sbagliato, anzi, la chiave di lettura molte volte è proprio lì.
Una delle causa della violenza sulle donne, infatti, è proprio “l’amare troppo” talmente “troppo”, da essere disposte ad accettare tutto, tanto da generare poi un sentimento poco sano, malato, una vera e propria dipendenza: una dipendenza affettiva.
Quella affettiva è una delle dipendenze meno tangibile e per questo anche una delle più pericolose, perché si fa fatica a riconoscerla e ad affrontarla. La persona non è dipendente da un oggetto concreto, ma è dipendente da un cuore, da una speranza, da una presenza. Il confine tra l’amore sano e l’amore malato è talmente labile che ci si ritrova in un labirinto privo di uscita, senza neanche rendersene conto.
Quando si ha la tendenza ad assoggettarsi a qualcuno che arriva a prendere il controllo della nostra vita, quando si è disposti a tollerare comportamenti sempre più intrusivi o si delega la propria libertà a qualcun altro, senza riuscire a reagire e ad opporsi, possiamo dire di trovarci di fronte ad una forma di dipendenza affettiva. Una relazione di questo tipo è caratterizzata dalla subordinazione dell’uno nei confronti dell’altro.
Ma chi sono le donne che amano troppo? Quali caratteristiche hanno, e soprattutto come si arriva ad essere una donna che ama troppo?
Durante il mio percorso professionale ho avuto modo di conoscere queste donne, di ascoltare le loro storie, di capirle, e di notare che molte di loro hanno le stesse caratteristiche. Sono donne che non hanno imparato a sviluppare né l’amor proprio, né l’autostima. Sono donne che vogliono essere amate ad ogni costo, senza sapere cosa significhi amare se stesse. Sognano un amore che colmi l’immenso vuoto che le pervade. Convinte di non meritare di essere amate vivono nella paura di non piacere, temono la solitudine , accettano di fare qualunque cosa per l’altro, anche se tutto ciò va contro i propri valori e la propria morale. Vivono costantemente nella paura di essere abbandonate e conoscono poco il loro valore personale.
Quasi sempre all’origine della dipendenza affettiva, c’è un trauma infantile. Un’infanzia in cui magari ci si è sentiti abbandonati, trascurati da una delle due figure genitoriali.
Le conseguenze generate dalla dipendenza affettiva sono tristi e dolorose, si va sempre più incontro ad una minor autostima e fiducia in se stessi, che non fa altro che alimentare e rendere ancora più forte il legame di subordinazione con il proprio partner.
Nasce spontanea una domanda: si può guarire dalla dipendenza affettiva? La mia esperienza sul campo mi permette di poter dire che ciò è assolutamente possibile. Il percorso di “guarigione” è però lungo e difficile Come dice Lao Tse (filosofo orientale vissuto VI secolo a.C.) : “Un viaggio lungo mille chilometri inizia sempre con un piccolo passo” e quello che mi sento dire a queste donne è “se iniziate ad amare voi stesse, avete già fatto il vostro primo piccolo passo”.
|
La vita umana, anche ammesso che superi i mille anni, sarà sempre chiusa in uno spazio ben limitato … ma questo spazio di tempo che per legge di natura scorre velocemente, anche se la ragione vorrebbe prolungarlo, è inevitabile che vi sfugga subito: siete voi che non sapete afferrare e trattenere o anche solo frenare questa che è la più veloce di tutte le cose; ma ve la lasciate scappar di mano come se fosse un accessorio qualsiasi che si può sostituire.
[Seneca, Il tempo, Stampa alternativa, Roma, 1994, p. 15]
Quasi duemila anni ci separano dal tempo in cui Seneca ebbe a scrivere queste parole. Eppure, se non se ne conoscesse l’autore, si potrebbe coltivare l’idea che a partorirle sia stato da un pensatore contemporaneo, tanto attuale la materia.
Il tempospazio: indolente ondeggiare che frena sovente la pulsione innovativa e colloca in irrigidimento la tensione creativa, complottando affinché gli affari umani siano accantonati come oggetti inutili. È soprattutto con l’avvento plateale della tecnologia (al servizio di) nuovi mezzi di comunicazione che la svolta perda la monodirezionalità prospettica per alludere e amplificare la propria materia esistenziale in un’immediatezza sensile e intellettiva. In un tempo (il Novecento) disposto all’interno di un alchemico montaggio, le arti – avulse dalla lineare posizione di icone contemplabili – perdono la vaganza per appropriarsi dei codici del nuovo, confluendo in un’energia complessa di movimenti tanto interiori che esteriori. Il riscontro pertanto è in un rinnovamento che mira a estirpare un immobilismo intellettual-creativo tendente a consolidare il fatto e mietere vittime come su un campo di battaglia, dove ciascun individuo perde la sua originalità e diviene cumulo di macerie, frantumazione di corpi in un anonimato assimilabile a disprezzo.
Questo il motivo per il quale s’intenda come la maniera di trattare l’arte attraverso il cinema acquisti un’evidenza maggiorativa di contro all’aspetto meramente visuale-contemplativo, talora caricaturale, con una finalità limata dalla copiabilità mediale del quotidiano. Di fatto, la neo-letteratura cinematica non si sottopone a metafore e simboli, ma è incline, attraverso gesti che riattivano la sanguignità delle cose, a includere, nell’aspetto organico, anche il valore. Valore del vivere.
Comprensiva – oltre alla semplice pagina scritta e all’arte pittorico-scultorea – della mobilità (pari alla mobilitazione delle potenzialità individuali), suffragata dal congegno cinematografico, la letteratura cinematica è luogo di esplorazioni intellettual-immaginative, nel quale la pienezza d’intervento dell’artista sembra scandire una traiettoria segnata dalla necessità di agire in cultura; di conoscere le basilarità della sintassi e del lessico specialistici per ottemperare a quella che definisco meta-ortografia sinestetica, sostenuta da un montaggio scenico meditativo, intenzionale, estensivo (di livello orizzontal-materico e intenzional-volontario), che agevola la pianificazione e la tensività dei volumi creativi.
Tutto ciò è preambolo alla letteratura del montaggio, coincidente con il tempo del (cine)dada, quando l’evocazione di una letteratura (nella specificità etimologica) riscontra, di fatto, potenzialità in continua evoluzione, che non ignora il fermento, ma lo dispone in una circadianità che evita, per ciò stesso, di paragonarsi a un’intelligenza agente in seconda mano.
È la cinematica dalle significazioni in svolgimento simultaneo (Le pensée se fait dans la bouche ‒ afferma Tzara nel Manifesto dada) che concorre al rifiuto di saperi consunti. Questo il motivo per cui anche nell’azione dadafilmica lo spostamento avvenga senza la prevalenza di atti primari e/o secondari, la dominanza dei soggetti protagonisti rispetto alle comparse, la scenografia rispetto alla coreografia, eccetera: la collocazione «è» continuo mutamento: ciò che si presenta nella velocità d’esposizione ha una rilevanza di forma interiore-esteriore-obliqua dal valore implicito, con un’originalità che presume la conoscenza di canoni pregressi, ai quali opporre una distanza perché l’accadimento affluisca nella contemporaneità.
In tal senso, la simultanea rappresentazione aniconica di elaborate inferenze e interferenze ‒ com’è nella vita quotidiana – realizza il montaggio inatteso d’imponderabilità. Inventato da G. Grotz e J. Heartfield, pionieri del montaggio fotografico, il sistema si consolida specialmente nel cinedada: qui, mediante una più sofisticata tecnica (che dà forma all’aspetto nomade, virtuale), il filtraggio genera un’immagine che richiama all’unisono le cosiddette arti topiche: scrittura, pittura, scultura, fotografia, eccetera, proponendone una cornice di totalità immaginativa. L’effetto ricercato è immediato, sicché ciascuna scena (singola e nella globalità) accartoccia e comprime, manovra il tatto come un’installazione e si appropria delle confluenze comuni distogliendole dall’abitudine stanca.
|
L’edificio dell’ex Istituto “G. Fortunato”, |
A Rionero lo chiamano “il castello” il caratteristico edificio posto a sud del centro abitato, lungo la strada che porta ad Atella.
La costruzione, dalla tipica caratteristica architettonica con torri circolari ai quattro angoli, risalirebbe al XVIII – XIX secolo. L’edificio a due livelli, con ampi locali e spazi coperti a piano terra, è simile ad alcune masserie fortificate che si trovano in Puglia. Secondo l’opinione di alcuni studiosi esso costituiva un posto di blocco della gendarmeria ai fini del pagamento del pedaggio, (una specie di dogana) per i viaggiatori e i mercanti che transitavano dalla strada che da sud (Atella) portava a nord (Rionero, Melfi ecc.) e viceversa.
Infatti, l’edificio si trovava, quando non esisteva ancora la strada statale 93, sull’unica via di grande transito fra sud - nord della zona alle falde orientali del Vulture.
Il massiccio edificio con i terreni circostanti apparteneva ai Granata, una facoltosa famiglia giunta a Rionero da Cassano Irpino (Avellino) prima con il sacerdote Mattia chiamato all’Economato della chiesa dei Morti e poi nel 1730 col capostipite Ciriaco (1704-1759) il quale sposò Maddalena Lauria (1719-1782) da cui ebbe 7 figli maschi e una femmina. Sulla facciata della palazzina era murato lo stemma dei Granata con melagrana e inciso questo testo: A.D. MDCCLXXXI - D.P. ED.CG.G.P. Evidentemente G. P. stava per Granata Pasquale (1736-1790).
Sono visibili, nelle vicinanze della parte posteriore dell’edificio, i resti del ninfeo, un piccolo santuario delle ninfe, divinità femminili delle fonti.
L’Istituto “Giustino Fortunato” in una foto del 1925 |
Il podere passò poi in proprietà al grande agronomo professore di Agronomia e Scienza silvana nella Reale Scuola di applicazioni dei Ponti e Strade, socio dell’Accademia Pontiana e della Real Società Agraria di Torino, autore di numerosi studi sull’agricoltura fra cui” Teorie elementari per gli agricoltori “, “Economia per lo Regno di Napoli” e un “Catechismo Agrario”, Luigi Granata (1776-1841), nipote del monaco carmelitano Michele Granata (148-1799) martire della Repubblica Napoletana impiccato in Piazza Mercato a Napoli il 12 dicembre 1799.
Su sollecitazione ed interessamento di Giustino Fortunato (1848-1932) l’edificio e i terreni circostanti (oltre 9 ettari) nel giugno 1921 per ben poco furono ceduti all’Opera Nazionale per i Combattenti, presidente Nicola Miraglia (Lauria 1835-1926), che fondò un Istituto agricolo con la finalità di migliorare ed incrementare la coltivazione della vite e delle varie piante da frutta. L’Istituto, voluto da Antonio Sansone (Laurenzana 1866-1923) a ricordo del grande meridionalista rionerese fu intestato a Giustino Fortunato e non ad un Granata, che aveva ceduto il terreno, come proponeva lo stesso Fortunato.
L’Istituto “Giustino Fortunato” ieri con alberi da frutta e barbatelle |
Scopo principale dell’Istituto “Giustino Fortunato” era il progresso della viticoltura della zona del Vulture, in tutte le sue forme, con la sperimentazione, con la propaganda, con la distribuzione di viti sanissime e vigorose. Scopo non meno importante era l’incoraggiamento alla diffusione della frutticoltura. Qui nel 1922 venne, in breve tempo, impiantato un vivaio di viti americane per tutta la regione, minacciata dalla filossera. Infatti, intorno all’Istituto si estendevano nove ettari e mezzo di terreno, in cui furono impiantati, a più riprese, viti americane e piante di frutta che costituivano magnifici barbatellai con varietà di vitigni (Aglianico, Sangiovese, Barbera, per l’uva nera da vino; Trebbiano, Bambino bianco, per l’uva bianca da vino; Moscato, Malvasia e Aleatico per l’uva aromatica ed altri tipi di vitigni per l’uva nera e bianca da tavola) e vasti vivai di piante fruttifere fra cui albicocchi, ciliegi, peschi, peri, meli, susino.
Vari e fortunosi furono i passaggi di proprietà dell’Istituzione secondo Carmine Brienza, figlio di quel Michele prezioso collaboratore del prof. Gaetano Brigante, noto agronomo dell’epoca nella gestione dell’Istituto Giustino Fortunato. Gaetano Brigante (nato a Grassano nel 1883 e morto nel 1934) nel 1927 pubblicò l’interessante volumetto, con alcune belle fotografie, “L’Istituto Giustino Fortunato” nei primi cinque anni di vita”, riportato pure nella Rassegna dell’Opera Nazionale per i Combattenti “Italia Augusta”.
Già durante il periodo fascista, secondo quanto riferito dall’ing. Giuseppe Catenacci (1896-1975) nel corso di un consiglio comunale (vedi delibera consiliare n. 14 del 1 settembre 1958 e riportata nel nostro volume “Municipio e Paese “a pag. 210), ci fu un primo tentativo di liquidare l’Istituto nel 1929, promotore l’allora presidente Valentino Orsolino Cancelli (1898-1971), cui però si oppose il nome e l’autorità del senatore Giustino Fortunato. Morto quest’ultimo, il podere subì vicende diverse.
Nel 1923 l’O.N.C., sempre secondo l’ing. Catenacci, lo cedette al Consorzio Provinciale per la Viticoltura di Potenza che, fra il 1933 ed il 1934 lo ampliò, facendosi donare dal Comune di Rionero quella striscia di terreno situata di fronte all’attuale Agip, precisamente tra la strada e il fosso allora adibita a letamaio. Nel 1939 il podere fu trasferito al Consorzio Provinciale tra 10 produttori dell’Agricoltura, sezione viticoltura. Dopo la liberazione il podere fu trasferito al Ministero dell’Agricoltura che l’amministrò fino al 1943, epoca in cui passò all’Ente Riforma di Puglia, Basilicata e Molise. Nel 1957, infine, il Ministero del Tesoro, avvalendosi delle disposizioni di cui alla legge 4-12-1956, n. 1404, vendette il podere a privati. Così il menzionato terreno venne utilizzato come suolo edificatorio ed intensamente urbanizzato.
Il caratteristico edificio, con il poco terreno circostante rimasto, già sede di abitazione, ufficio e deposito dell’azienda è ora abbandonato e in grave stato degrado, ricettacolo d’immondizia e covo di giovinastri. Sembra in pericolo di crollo ed eventualmente, una volta demolito al suo posto costruirvi una moderna struttura residenziale.
Il probabile poco edificante destino di tale singolare edificio, uno dei pochi rimasti a Rionero, dopo la storica chiesetta di S. Antonio Abate, con particolari caratteristiche architettoniche, sta suscitando allarme e preoccupazione sia nei cittadini cultori della storia cittadina e sia in organismi culturali che si occupano della tutela e conservazione di monumenti storici. Qualche anno fa interprete di tali preoccupazioni è stato il Cine Club “Vittorio De Sica” di Rionero, nella persona del suo direttore artistico Armando Lostaglio, che con l’O.L.A. (Organizzazione Lucana Ambientale) ha inviato lettera all’arch. Paola Raffaella David, allora Soprintendente per i Beni Ambientali e Architettonici della Basilicata, con cui è stata avanzata richiesta di avviare l’iter burocratico necessario per la dichiarazione di interesse pubblico con la conseguente emanazione del vincolo monumentale di cui alla legge 1 giugno 1939, n.1089, per l’edificio e le aree circostanti.
Una iniziativa encomiabile che mira a salvare quel poco che ancora resta di storico a Rionero in Vulture e meritevole di essere tramandata alle nuove generazioni come testimonianza di quanto nel passato hanno fatto i nostri antenati per fare della città del Vulture quel centro di attività imprenditoriale e produttive da tanti invidiato nell’intera Basilicata.
Ci si augura ardentemente che tale lodevole iniziativa trovi adeguato accoglimento da parte di chi di dovere e, soprattutto, produca i positivi risultati auspicati.
di Antonia Flaminia Chiari |
Nel mondo contemporaneo l'esasperazione della contrapposizione fra natura e cultura, la negazione della rilevanza dell'elemento corporeo nel contribuire alla definizione della sessualità umana e l'enfasi sull'autodeterminazione individuale svincolata da ogni riferimento valoriale oggettivo, hanno condotto ad una svalutazione estrema del sesso come realtà data, fissa e stabilizzata, a favore del genere inteso come struttura culturale flessibile e decostruibile e quindi dipendente dalla libertà del soggetto.
Il genere è una costruzione culturale, un artificio fluttuante, non risultante dal sesso. Insomma ciò che conta è come ci sentiamo e soprattutto come vogliamo essere.
L'ideologia GENDER c'è. Eccome! Ed è diffusa a piene mani da molti che ne parlano esplicitamente, e da molti che la negano.
Le varie teorie Gender sono unite da un dato: separare l'essere maschio o femmina dal ruolo che l'individuo vive nel corso della sua vita. Dunque l'identità sessuale è differente dall'identità di genere.
In Italia, nel dibattito pubblico, i promotori del Gender fanno appello all'uguaglianza, alla non discriminazione e al rispetto: valori questi teoricamente condivisibili, se l'uso dei termini non fosse funzionale a confondere, ad omologare, ad eliminare qualsiasi differenza.
Gravi le conseguenze etiche, dalla omogenitorialità alla fecondazione in provetta, all'adozione, al capovolgimento del concetto di famiglia, e non solo. E' dunque caos educativo.
Alla domanda cosa facesse Diogene con la lanterna accesa di giorno, egli risponde: cerco l'uomo.
La sfida è ancora una volta antropologica: Chi è l'uomo? Dove si dà l'umanità? L'uomo si riconosce nelle sue scelte e basta?
Sono queste le domande alle quali dobbiamo rispondere in momenti di riflessione e di dialogo, per condividere una verità fondata sulla roccia: l'amore umano è corporeo e il corpo lo riceviamo in una realtà che viviamo. Noi non abbiamo un corpo, ma siamo corpo per conoscerci e riconoscerci esseri umani fatti per amare.
Delle teorie Gender è oscuro il punto di partenza e ancor più quello di arrivo. E' in gioco il destino della nostra civiltà, minacciata anche dalla legge sulla Buona Scuola relativa all'educazione sessuale, spinta da ogni dove verso nuove frontiere.
Non taccia l'etica!
|
Alle ore 18,00 del 6 gennaio 2016 padre Gianfranco Todisco, Vescovo della Diocesi di Melfi, ha aperto la porta “Santa” del Santuario del SS. Crocifisso di Forenza. Bonifacio VIII né gli altri papi, fino a papa Francesco, avrebbero pensato di far “nascere” il Cristo della Misericordia anche a Forenza. Mi sono ricordato di quanto diceva il profeta Michea a proposito della piccola Betlemme: “E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore di Israele”. Ma papa Francesco ha voluto portare il Verbo, attraverso la Carne del Cristo, nelle periferie, nella periferia come Forenza di Basilicata, dove ci sono ancora tante anime o, se volete, tante “pecorelle” del gregge divino, che vivono nell’isolamento quasi totale, se noi per un attimo abolissimo tutto ciò che non s’ispira alla Verità ed alla Carità. Che poi è la gran parte di tutto ciò di cui veniamo a conoscenza attraverso i mezzi di comunicazione.
Un vento furioso era scoppiato all’improvviso verso le 16 del pomeriggio, costringendo il Vescovo, il Provinciale, padre Emanuele Bochicchio, il Parrocco, don Rocco Saulle, ad attivare l’anteprima nell’auditorio comunale concesso dal Sindaco Leonardo Lorusso presente con la sua fascia tricolore. Il vento era talmente violento fuori, che, quando si è avviata la processione verso la Porta santa, c’è stato un bel da fare per procedere e solo la calca composta ha impedito qualche incidente. Per un momento ho collegato al terremoto ed alla tempesta di vento che si levò dopo che Cristo sulla Croce disse: “Tutto è compiuto” :Ma una volta che il Vescovo ha spalancato la Porta santa e sono riuscito con mia moglie a trovare posto all’interno della Chiesa, all’improvviso tutto quel gran trambusto di gente,che cercava di entrare e trovare posto, cessò e davanti ai miei occhi, seduto com’ero in buona posizione, mi si presenta, ai piedi del grande Crocifisso ligneo, una moltitudine di autorità le cui figure mi apparvero senza nome come fossero pitture giottesche che parlavano solo con gli occhi. E subito i miei occhi corsero e ripercossero per l’ennesima volta, da quando ero piccolo, il corpo del Cristo sulla croce con la Madonna alla sua destra e S. Francesco alla sua sinistra.
Il suo, del Cristo di Forenza, è un corpo insanguinato che poco si discosta da quello del film di Mel Gibson. E ricordo che il tanto sangue che scorre sul suo corpo veniva contato a goccia a goccia nella “S. Lettera di Gesù Cristo ... Copia di una lettera di orazione ritrovata nel S. Sepolcro di N.S. Gesù Cristo in Gerusalemme conservata in una cassa d’argento di sua Santità e dagli(sic) Imperatori e Imperatrici cristiani.... Desiderando S. Elisabetta Regina d’Inghilterra, S. Matilde e S. Brigida sapere alcune cose della passione di Cristo .... apparve Gesù Cristo favellando con esse dicendo....”. Me l’aveva data, la lettera che ancora oggi posseggo, mia nonna, fervente cattolica , contadina analfabeta, morta in Inghilterra lontana dal suo adorato Crocifisso. E ricordo ancora, studente liceale, la celebrazione della pittura del Crocifisso di Cimabue e a me stesso incominciavo a ricordare che i nomi importanti che conosciamo non sono quelli tutta la verità, ma un piccolo frammento in cui spesso si annida una prepotenza atea perché legata agli onori ed ai piaceri, contro i quali nel VII libro della Repubblica si scaglia Platone quattrocento anni prima di Cristo. Dicono che il Cristo del Santuario sia miracoloso e che la testa, non riuscendovi lo scultore, si trovò la mattina dopo sul corpo reclinata sull’omero destro e con lo sguardo che, guardato da destra, dal centro e dalla sinistra, rappresenta gli ultimi momenti di vita. “Ma lei è credente?” chiede, credo, Lilly Gruber a Corrado Augias che ha la fortuna di poter presentare i suoi libri per televisione. “No, io sono ateo”. “E allora perché s’interessa tanto della storia di Cristo?" “Perché sono innamorato di Gesù”, risponde con sulla faccia un sorriso incomprensibile. Spero che non sia, come diceva il mio professore di greco al Liceo, che anche lui, Corrado Augias, non sia uno che vive sui morti, un saprofita, come i funghi, e funghi sicuramente poco sicuri.
di Michele Traficante |
Non ospiterà più carcerati. Un tempo si chiamavano così coloro che erano rinchiusi nelle patrie galere. Oggi si chiamano detenuti, anzi meglio, ospiti delle Case circondariali. Ma sempre carcerati sono. Oggi, poi, che si trovano in strutture sovraffollate e in condizioni con compatibili in uno Stato civile.
Ci riferiamo al piccolo ma caratteristico edificio di Rionero in Vulture, posto in Largo Mazzini, attiguo alla chiesa della SS. Annunziata, che ospiterà il
Centro di Documentazione Storica e Mostra Permanente del Brigantaggio post-unitario, già sistemato in alcuni locali a piano terra del Palazzo Fortunato.
Un tempo dependance del convento dei frati francescani “Santa Maria degli Angeli” di Atella, poi divenne carcere borbonico e poi ancora, con la caduta del Borbone, carcere mandamentale, cioè di passaggio in cui i carcerati venivano trattenuti in attesa di giudizio e infine circondariale, vale a dire utilizzato per un territorio più vasto: Rionero, Barile, Ripacandida, Ginestra, Atella.
Si tratta di un edificio singolare noto ai rioneresi e non solo ad essi come “il carcere”, ma che, a ben guardalo ha tutto l’aspetto di una fortezza con tanto di mura di cinta e di feritoie.
Sulla storia e sul ruolo avuto nel corso dei secoli di questo immobile si è ripiegato con tanta pazienza ed interesse di storico il mio amico e validissimo compagno di defatiganti ricerche storiche prof. Leo Vitale con questa importante pubblicazione dal titolo “Evoluzione di un fabbricato. Da grangia a carcere a museo”. Ad incominciare dall’esatta dizione (pronuncia) del nome grangia o grancia con la prima a accentata e non grancia con l’accento sulla i come giustamente sostiene il prof. Leo Vitale. Anche se, purtroppo, la pronuncia del nome Grancìa (con la i accentata) è molto diffusa e ripetuta, specie con riferimento alla nota manifestazione del Cinespettacolo “La Storia Bandita” sul brigantaggio che si tiene da anni e con successo a Brindisi di Montagna. Torniamo al lavoro di Leo Vitale sulla grangia e la sua evoluzione nel tempo.
Una storia che viene da lontano poiché essa è sorta come dipendenza del convento di Santa Maria degli Angeli di Atella, una grangia per l’appunto.
Leo Vitale, da “consumato” topo di archivio e di biblioteche ne fa un interessante excursus storico, dando un’esauriente conoscenza sia delle origini, sia della funzione e sia delle trasformazioni di uso nel corso dei secoli. Da grangia a carcere il fabbricato racchiude un po’ la storia di Rionero da casale di Atella a Comune autonomo e a centro propulsore dell’intera area del Vulture. E Leo Vitale lo fa da par suo, con ricchezza puntigliosa di riferimenti bibliografici e utilissime note esplicative a piè di pagina.
Con il trasferimento dei frati dalla pestifera valle di Vitalba al convento di Santa Maria degli Angeli, agli inizi del XVI secolo, il complesso monastico di Santa Maria degli Angeli rinasce a nuova vita. Infatti, grazie alle numerose donazioni da parte dei feudatari e dei proprietari terrieri, i frati ricostruiscono la vecchia e malandata struttura, oltre che accrescere notevolmente il loro patrimonio. Tanto da consentire loro la costruzione della grangia a Rionero nel bel mezzo dei loro possedimenti agricoli. Come ben spiegato da Leo Vitale in questo volume, la grangia del convento di Santa Maria degli Angeli di Atella assolveva la duplice funzione, in primis di luogo di ristoro per i frati in non buono stato di salute e poi “è probabile che la grangia desse ricetto ai monaci colpiti da malaria o da altre malattie o convalescenti” oltre che di centro di gestione dei terreni e pascoli (simile ad un’azienda agricola).
Con l’arrivo dei francesi nel 1807 i frati furono costretti ad abbandonare il convento di Santa Maria degli Angeli e di conseguenza anche la grangia di Rionero, che passarono in mano a dei privati (i De Martinis di Rionero). Successivamente tutto passò ai Catena in seguito al matrimonio di Pasquale Catena (1800-1865), nel 1827, con l’ultima rappresentante della famiglia De Martinis, Anna Rosa Maria, che gli portò in dote tutto il cospicuo patrimonio di famiglia. Sicché il casato dei Catena divenne una delle famiglie più facoltose di Rionero e d’intorno. Tanto da imparentarsi anche con i Fortunato
“Requisita per effetto della soppressione dei conventi – scrive Leo Vitale –
voluta da Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, la grangia fu adibita a carcere mandamentale, ossia a carcere nel quale erano detenute le persone in attesa di giudizio per reati lievi oppure condannati a pene fino a un anno”.
E qui il lavoro di Leo Vitale si fa particolarmente interessante perché con le vicissitudini della grangia ne viene fuori uno spaccato dell’evoluzione sociale, economica e culturale di Rionero. Infatti, con l’acquisto del convento di Santa
Maria degli Angeli di Atella e annessa grangia a Rionero entrano in scena i maggiori proprietari terrieri rioneresi (i De Martins, i Catena, i Giannattasio, i
Corona) i quali ebbero un ruolo non secondario nel destino della grangia prima e del carcere dopo. Leo Vitale, da esperto ricercatore di documenti storici, ci presenta un importante e utilissimo iter giuridico e legislativo dell’esistenza del carcere rionerese nell’ultimo secolo. Con alcuni significativi episodi, fra cui quello di essere stato utilizzato come infermeria durante l’epidemia “Spagnola” nel 1918 con ben 209 morti come riportato da Luigi Liccioni nel suo volume “L’epidemia “Spagnola “In Basilicata (1918-1919), Calice Editore, Rionero 2000, e del vaiolo nel 1919-1920. E poi l’episodio verificatosi dopo il terribile sisma del 1851 che colpì duramente la regione del Vulture, che provocò devastanti danni alle celle del carcere e i detenuti fuggiti anziché dileguarsi com’era da aspettarsi si presentarono alle autorità cittadine offrendo la loro disponibilità nel soccorrere gli sventurati cittadini rimasti seppelliti sotto le macerie. Fino alla sua definitiva soppressione avvenuta in concomitanza con la chiusura della pretura di Rionero nel 1998. In verità già dal 1963 in poi non ospitò più detenuti e la struttura aveva perso la sua funzione e di carcere. Rimasta pressoché abbandonata la struttura subì gravi danni in seguito del terremoto del 23 novembre 1980. Anzi servì da deposito per collocare il materiale cartaceo del municipio svuotato per i necessari lavori di ristrutturazione in seguito ai danni del medesimo terremoto.
Tuttavia si pensò anche al fabbricato del carcere, ormai abbandonato ma contenente suppellettili e importanti documenti cartacei, affidato in custodia all’ultimo carceriere Francesco Catenacci (1913-1970). Si progettarono così le necessarie opere di consolidamento, di restauro e soprattutto alla sua destinazione d’uso.
In un primo momento, nel 1998, sindaco Armando Urbino, su proposta dell’associazione di giovani “Oltre le sbarre”, si ipotizzò di destinare la struttura a centro di aggregazione giovanile per attività creative e artistiche. Poi si fece strada, anche su argomentate indicazioni del prof. Antonio Pallottino, l’opportunità di destinare i locali a sede definitiva del Museo del Brigantaggio già allocato da qualche tempo nei locali del Palazzo Fortunato.
Prima dell’inizio dei lavori si provvide, nel 1994, a liberare i locali di quello che ancora vi era rimasto, appunto suppellettili e documenti cartacei dell’ex carcere. Fra questi, secondo la testimonianza dell’insegnante di scuola elementare
Pasquale Catenacci, figlio di quel Francesco Catenacci, ultimo carceriere, in una scrivania vi era un grosso registro, con copertina di colore marrone, di entrata e uscita dei detenuti, a fianco del nome dei quali veniva annotato anche il grado di pericolosità del soggetto. Registro che, per quante ricerche abbiamo fatto, non risulta più reperibile. Un vero peccato. Una grossa perdita documentale ai fini storici di questo luogo di detenzione. Chissà quanti poveri cristi sono passiti per quelle celle tetre ed umide. Per lo più poveri pastori responsabili magari di
eventuali pascoli abusivi, contadini responsabili di essere andati a fare legna nel
bosco demaniale, autori di qualche furto. Quante lacrime, quante invocazioni
e anche quante imprecazioni in quelle celle. Non è da escludere che, fra i tanti detenuti del carcere, vi abbiano messo piede anche Francesco Crocco, padre di Carmine, dopo il suo arresto e, per qualche tempo, forse lo stesso capobrigante. Il registro d’ingresso del carcere, oggi introvabile, forse avrebbe potuto documentarlo. Chissà che qualcuno, più fortunato e più bravo di noi, non riesca a rintracciarlo.
Oggi restano, e bisogna dare merito alla Sovrintendenza per averle conservate e non cancellate, numerose iscrizioni incise da alcuni carcerati durante la loro
detenzione e che noi, da storici dilettanti, abbiamo potuto fotografare. Ma
sarebbe auspicabile che tali iscrizioni, fotografate da professionisti, venissero
adeguatamente decifrate e interpretate da esperti. Sarebbero le uniche testimonianze storiche del passaggio in quel luogo di tanta sofferta umanità.
Leo Vitale non si esime dall’illustrare i lavori eseguiti a cura della Sovrintendenza per i Beni Architettonici della Basilicata che, ultimati recentemente, hanno dato nuova vita e moderna funzionalità e finalità alla struttura dell’ex carcere. Anzi, cosa resta ed è rappresentativo della funzione di luogo di detenzione della struttura? Noi che abbiamo potuto scattare delle fotografie della struttura dopo il terremoto del 1980, precisamente nel 1987.
Offriamo un raffronto con lo stato attuale dei vari locali dell’ex carcere dopo i lavori di ristrutturazione di ammodernamento, costati non meno di 500 mila euro. Cosa che fa opportunamente e con molta intelligenza l’amico Leo Vitale con questo pregevole lavoro. Il quale, benché pubblicato in occasione del trasferimento del Museo del Brigantaggio e dell’inaugurazione della nuova sede, resta un importante documento storico sociale, economica e culturale di un periodo della storia di Rionero e non solo che riteniamo fondamentale tramandare alle nuove generazioni come “testimone” per ulteriori e più approfondite ricerche e conoscenze storiche, poiché, come sosteneva Giustino Fortunato, la conoscenza del passato e delle nostre tradizioni ci aiuta a comprendere meglio ciò che siamo al presente.
di Angela De Nicola |
“Pochi capivano il jazz…”
A sentire cantare Paolo Conte nel refrain di uno dei suoi brani più famosi, sarei pronta a cambiare immediatamente titolo, mettere punto e andare a capo.
Eppure, al contrario di quanto si potrebbe pensare, il jazz è davvero una passione di molti, un fenomeno fin’anche “democratico” e, stando a quello che succede oggi, dai tratti addirittura “low cost” visto il pubblico sempre numeroso ed entusiasta che popola le diverse manifestazioni anche qui al sud, soprattutto nel periodo estivo. Tuttavia, l’idea che ancora oggi molti hanno del jazz, un’idea dura a morire, è quella di un genere musicale quantomeno inavvicinabile, dall’ascolto ostico, difficile, ed in più con addosso quella contraddizione tipica che fa di esso un sottoprodotto della musica classica. Ma se si tiene conto del fatto che oggi finalmente esso è entrato di diritto tra le materie di studio del Conservatorio, allora qualcosa proprio non torna. E così, tolto di mezzo ogni dubbio tra denominazione di “colto” o “popolare”, il jazz -che oggi rende onore all’improvvisazione facendola diventare addirittura materia di studio - può essere a mio avviso definito un esempio perfettissimo di contaminazione musicale, artistica e culturale, insomma uno dei pochi esempi di “arte colta dai tratti popolari”. Personalmente, pur diffidando dall’ ”easy listening” e dalla “commercializzazione acuta” che negli ultimi anni sta prendendo piede in vari fenomeni modani e che a ragione fa torcere il naso ai cosiddetti “puristi del genere” e lasciandomi per altri versi alle spalle i vari dibattiti degli addetti ai lavori sulla possibile coesistenza e convivenza di due tipi di jazz (quello appunto classico/accademico e quello contaminato che strizza l’occhio alla world music) resto ferma su una grande convinzione: la forza di questo genere musicale risiede principalmente nella grande carica che esso porta con sé … un afflato viscerale, in bilico tra spiritualità e primordialità, capace di trascinare prima l’orecchio e poi l’anima verso due grandi concetti: la LIBERTA’ (in quanto storicamente esso nasce come canto di liberazione a scandire le ore tristi e buie di lavoro manuale degli afroamericani nelle piantagioni di cotone della Louisiana , le cosiddette “blue hours”, da qui la base vocale del jazz che è appunto “blues”) e soprattutto il concetto di ARMONIA, quella creatività cioè che viene dall’anima, dal “soul” da quando ,in altri termini, il genere si è gradatamente affermato nelle prime classiche “jazz band” di tre , quattro fino ad arrivare a nove o dieci elementi ad imitazione della musica da ascolto ma anche da ballo nell’America dello swing anni Cinquanta. Senza contare l’assenza di limiti che il genere ha dimostrato di avere con la capacità di arrivare fino alle coste del Sudamerica,abbracciandone la cultura locale così da trasformarsi ,una sessantina d’anni or sono, nel fenomeno della Bossanova.
E allora, a pensarci bene, forse alla luce di una tale riflessione sembra quasi che il refrain di cui sopra assuma un’aria mezzo ironica: altrochè se pochi capiscono il jazz… a conti fatti questa musica, risultato di un continuum culturale tra vari popoli, sembra quasi voler abbracciare il mondo intero, da Louis Armstrong che la coltivò come forte piantagione in America, a Benny Goodman che l’apparentò alle orchestre classiche europee, fino a modellarsi nelle mani di un Vinicius de Moraes o di un Antonio Carlos Jobim, vere istituzioni della cultura brasiliana. E così oggi mettersi all’ascolto di un brano jazz può significare rischiare di avere a che fare con oltre un secolo di storia della musica: quando si scopre un brano ben fatto e si aprono bene le orecchie non è difficile sentirci dentro tutta la storia, tutto il respiro e tutta l’ispirazione di uomini e di donne maestri di un genere da sempre in bilico tra tecnica ed improvvisazione, tra istinto ed armonia, tra caos e silenzio; quel jazz osannato nelle strade quanto declassato e poi promosso nelle accademie, che da sempre fa discutere ma che – soprattutto – giorno dopo giorno non smette di sorprendere.
di Emanuele Vernavà |
Un titolo del genere può essere fuorviante per il lettore, tutto immerso e intriso nel postmoderno, fatto di pancia, di sensazioni e di rifiuto del culturame libresco. Eppure la nostra storia e la storia che conosciamo tutti è presa dai libri. Anche quella di quando sono nato da chi sono nato. E' presa dai registri dell'anagrafe, quando il mio nome non suscitasse una maggiore curiosità di conoscere "chi fur li maggior tui?". Nessuno o pochi restano ancora abbarbicati all'idea che dietro tutto, anche dietro la storia dell'immigrazione, c'è Dio, anche se spinozianamente lo confondessimo con la Natura, come in Deus sive Natura. Ma noi non provocheremo lei ire di alcun eventuale Sant'Uffizio preposto al controllo della professione della fede giusta, e, se ciò avvenisse, la nostra pancia e i nostri affetti non ne soffrirebbero assolutamente perché non c'è più il Papa Re. Allora, se gli immigrati fossero messaggeri di Dio o, se non sei credente, messaggeri di un ignoto futuro, ci vogliono avvertire, noi società opulente, che ci stiamo autodistruggendo. "Dio maledica l'Occidente epulone", dice Don Marcello Cozzi su il Quotidiano di qualche giorno fa. Quello che mi viene subito in mente che fra venti trent'anni, se non arrivano immigrati, in Italia in particolare non saremo più in grado di assicurare servizi e pensioni degni della persona. Ma su questa questione, immigrati sì immigrati no, accoglienza o respingimento, vorrei ricordare che l'uomo è nato nomade, come tutto ciò che vive sulla terra, come la stessa Terra che hanno chiamato pianeta, come i suoi fratelli che "errano" tutti intorno al sole. Da quando l'uomo da cacciatore e mangiatore di erbe e radici è diventato "contadino", si è fermato nel posto che ha incontrato più adatto per produrre il pane necessario. Ecco allora la nascita delle civiltà, i cui nomi abbiamo imparato sin da bambini a scuola. Ma anche da bambini siamo venuti a sapere di invasioni, di "barbari", che arrivavano da noi, parlo dell'Italia e dell'Europa, e mettevano "a ferro e a fuoco" le nostre campagne, le città, commettevano violenze di ogni tipo, uccidendo donne bambini e vecchi e facendo schiavi gli uomini. Perché c' "invadevano"? Non certo per un istinto bestiale e primordiale dell'uomo cacciatore, ma perché nei luoghi in cui erano stati un po' non c'erano più risorse e quindi dovevano trovare nuove terre che producessero pane. Era una specie di ladang in uso in molte terre dell'Asia. Ma a spingere milioni di persone a cercare nuovi mondi, ci sono , probabilmente ancora oggi, fenomeni come il freddo o la siccità. Oggi, quando la tecnologia potrebbe far vivere in maniera fissa un popolo in quasi tutte le plaghe della terra, si aggiunge un fattore che nei tempi antichi non era presente ed è il fenomeno politico. In tutte le terre del Pianeta in cui lo Stato non è provvidenza per il suo popolo ma carnefice e persecutore, vedi Medio Oriente soprattutto Siria, l'Africa libica e quella Sudsaariana, zona dell'Indonesia, zona tra Messico e Stati Uniti, di là la gente scappa, spesso rimettendoci la pelle ed ormai i morti sono molte migliaia. Le centinaia di migliaia di questi profughi che sono già in Europa e stanno mettendo in crisi in particolare il nostro Paese, sono solo l'avanguardia di milioni di persone che arriveranno nel prossimo futuro, qualcuno dice nei prossimi venti anni.
Ma alle 18 e qualche minuto di martedì 8 settembre la televisione annuncia: "La Germania è pronta ad accogliere 500.000 immigrati all'anno". Io non so come Salvini accoglierà l' inaspettata e incredibile scelta. Significa che nei prossimi anni la Germania aumenterà di qualche milione di abitanti giovani e culturalmente capaci d'inserirsi in tutti i livelli dell'organizzazione economica e sociale. Questa "bomba" mette a tacere all'improvviso e per i prossimi giorni l'interminabile tormentone tra chi vuole accogliere e chi vuole respingere gli immigrati. E questo non solo in Italia, ma in tutta l'Europa e credo che anche nel resto del mondo la "mossa" di Angela Merkel sarà studiata attentamente.
di Emanuele Vernavà |
Voglio sperare, e non può essere diversamente, che, queste parole del titolo, Monsignore Galantino le abbia dette dopo una lunga riflessione personale ed ecclesiale. Le accuse di "comunista" alla sua persona sono già piovute forti e insolenti, come da tempo si cerca di far passare questa infamante accusa anche per papa Bergoglio. Che l'accusa di essere "comunista" sia poi infamante, oggi lo è sicuramente, quando il conformismo politico-sociale è talmente diffuso e forte, che è raro trovare qualche spirito libero, che abbia la forza di resistere alle bordate violente dell'accusa o di qualsiasi accusa. Ma come tutte "le voci dal sen fuggite", la verità quell'espressione la dice tutta, cogliendo, con "harem" in particolare, il marcio dei costumi delle migliaia, in Italia sono circa 250.000 dal Parlamento alle circoscrizioni, di addetti alla politica. Ovviamente dobbiamo anche precisare che in mezzo a questi duecentocinquanta mila ci sono tante persone per bene oneste e capaci, che, essendo eccezione, confermano la regola. C'è da aggiungere, però, che l'harem dei politici non è solo rappresentato da quelli portati in Parlamento o altrove, ma è costituito da milioni di persone da cui i politici attingono la piacevolezza della loro missione, non senza pagare la merce. Ma gli altri che ne sono fuori, lo sono non perché "ho la schiena dritta", ma perché non hanno le qualità richieste dai capetti politici, soprattutto l'essere esperti d'intrallazzamenti, galoppinaggio, complicità. Ma il vero problema che l'uscita di Galantino pone alla nostra coscienza, laica o cristiana che sia, è quello di opporsi apertamente e personalmente al male o a tutte le altre sue forme (razzismo, populismo e cose simili nel nostro caso). La risposta viene dalla coscienza di ognuno di noi o dalla storia che è un lungo fronteggiarsi tra il Male e il Bene. Il cristiano in particolare deve opporsi apertamente al male, secondo il Vangelo, ove è detto: "Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; … se non ti ascolterà prova a prendere con te uno o due , … se non ascolterà questi, dillo alla comunità…" (Matteo, 18, 15-17). La storia è piena di "testimoni" della Verità, dai martiri cristiani a tanti altri, che in nome della propria coscienza, o delle proprie convizioni, hanno preferito la morte, anziché "sacrificare agli déi", che oggi non sono più Giove e la sorella-consorte Giunone, ma quelli che s'intravvedono nel j'accuse di Galantino. Ricordate l'incontro tra il padre Provinciale e il Conte zio? "… lenire, sopire…", come se lo scandalo fosse quello di non far sapere ad altri la verità e non il "peccato" in sé. Quando nel Vangelo si dice che chi crea scandalo è meglio che si butti a mare con una pietra al collo, per Galantino, in questa situazione della politica corrotta e che sta portando alla rovina il nostro "Bel Paese", lo scandalo del malcostume e del "malpensiero" politico-sociale non consiste nel tacere, ma lo scandalo ci sarebbe se si tacesse. E, poi, ammesso e non concesso, che lo scandalo consista nel portare a conoscenza degli altri il male che hai fatto e che continui a fare imperterrito, come Erode Antipa con Salomé e la mamma Erodiade, che poi è la cognata, chi ha creato scandalo, Erode o Giovanni Battista che denunzia coram omnibus il fatto?
Io credo che dopo Benedetto XVI, oggi papa Francesco, di Galantino ce ne siano parecchi nella chiesa e che non sono tanti, preti e vescovi che la pensano come lui dichiara, Salvini, che sta studiando come farsi acclamare da gente alla disperata ricerca dell'ennesimo salvatore. Il seme gettato da papa Giovanni XXIII sta dando i suoi frutti più saporiti e maturi. E' come se la storia, per chi la vede come un processo della società umana verso una meta finale, procedesse invece all'incontrario verso la Verità, che già si affacciò alla mente di Socrate, e s'è incarnata in Cristo. E' come se l'uomo in questo cammino all'incontrario cercasse di rientrare in interiore homine, quasi un ritorno nel grembo materno, il posto più sicuro in cui Verità e Amore si fondono.
Laboratorio di ricerca come analisi di sostanze nocive nel territorio per tracciare progetti di prevenzione dei fenomeni tumoralidi Antonio Masucci
|
Nell'inquinamento atmosferico sono presenti sostanze solide, liquide, gassose, che alterano in modo irreversibile le condizioni naturali dell'atmosfera, con effetti nocivi alle persone ed all'ambiente.
Le cause del fenomeno sono molteplici ed in continuo aumento. Per questo negli ultimi anni esso viene costantemente monitorato attraverso rilevazioni dei tassi di sostanze nocive nell'atmosfera. Le sostanze che possono alterare la qualità dell'atmosfera si distinguono in naturali – per esempio dovute alla sabbia dei deserti, all'erosione del suolo od alle eruzioni vulcaniche – ed in antropiche, provocate dalle attività umane.
Queste ultime sono certamente più influenti e sono generalmente provocate dalla combustione, dai motori a scoppio delle automobili e dalle varie attività industriali.
La combustione è un fenomeno chimico dovuto alle trasformazioni chimiche tra due reagenti, quali il combustibile ed il comburente, nelle quali avviene l'ossidazione del combustibile e la riduzione del comburente. Risultano, quali prodotti derivanti da tali processi, essenzialmente radiazioni elettromagnetiche, calore ed altri composti, principalmente anidride carbonica ed acqua.
Le reazioni, a noi più familiari e di nostro interesse, sono quelle in cui un combustibile organico – principalmente idrocarburo – viene ossidato dall'ossigeno, trattato con un comburente presente nell'aria. Certamente combustibile e comburente interagiscono in un determinato rapporto, dando così luogo ad una completa combustione. In condizioni di ossigeno in eccesso, i prodotti della reazione sono esclusivamente CO 2 ed H 2 0, la reazione chimica è limitata, il processo di combustione è imperfetto e parziale per cui si presentano condizioni di inquinamento con sostanze fortemente inquinanti come il monossido di carbonio (CO) ed idrocarburi policiclici aromatici, idrocarburi incombusti, fuliggine.
Numerosi studi recenti dimostrano, senza alcun dubbio, che tutte queste sostanze, oltre ad essere agenti fortemente cancerogeni, costituiscono un fattore di rischio per malattie respiratorie e disturbi cardiovascolari, alterando così il metabolismo degli esseri viventi, i quali devono assumere dall'ambiente alimenti ed energie, modificando – sempre per gli esseri viventi – il lento processo di cambiamento degli stessi esseri viventi, processo che riguarda l'evoluzione, alterando le istruzioni contenute nei geni e pregiudicando così la corretta realizzazione del progetto iniziale, incidenti questi sotto il nome di mutazione.
Per tutte queste ragioni ad altre ancora, è diventata impellente l'esigenza di sviluppare apparati e tecniche di diagnostica che permettano di identificare e descrivere la composizione chimica di tutte le sostanze nocive ed inquinanti in modo da monitorare e ridurre sensibilmente la relativa emissione nell'atmosfera e l'impatto che tali sostanze hanno sull'uomo e sull'ambiente.
Così si approfondiscono le nostre conoscenze sulla vita e i suoi processi fondamentali, in modo da modificare i modi spontanei del vivere. Che fare poi di certe capacità tecniche che abbiamo acquisto come le terapie intensive, la fecondazione artificiale, l'analisi e la terapia genica. Quest'insieme di problemi costituisce ormai una disciplina a sé stante, quale la bioetica o etica della vita.
In questo ambito si inquadra lo sviluppo di una struttura sperimentale per caratterizzare la presenza di sostanze nocive, quali in particolare quelle derivanti dalla combustione dell'etilene con l'ossigeno.
Qual è la domanda filosofica del nostro tempo? La più importante è una domanda ecologica: ”Come è possibile per gli esseri umani combattere contro la catastrofe climatica”?
Se continuiamo a mantenere l'attuale stile di vita, con questi consumi ed emissioni di CO 2 ed altre sostanze, il Pianeta, così come lo conosciamo, potrà reggere?
Ed allora, veniamo alla risoluzione del problema. Possiamo conoscere con molta completezza ed esattezza quali sono sostanze, composti chimici ed elementi presenti nel nostro ambiente, in modo da tracciare diagrammi e progetti di prevenzione nei riguardi di guai tumorali. Certamente scienza e tecnologia dispongono di studi e di strumentazioni per monitorare le condizioni dell'ambiente: spettrometria di massa, spettroscopia nello studio della ionizzazione di molecole in fase gassosa nella separazione dei diversi ioni prodotti e nella loro rilevazione. In sede più specialistica, si può elencare il modo di conoscere le serie radioattive, la presenza del Radon, responsabile in buona parte della radiazione naturale esterna ionizzante, una volta formatosi relativamente libero nelle rocce più profonde e che si diffonde attraverso le fessure e le faglie acquifere fino a disperdersi in aperta atmosfera.
E così: è possibile integrare la ricerca di sostanze per combattere i tumori con l'istituzione di un laboratorio che provveda ad analizzare, con i procedimenti spettroscopici, la qualità dell'ambiente, prima che alcune sostanze nocive abbiamo compiuto il loro lavoro di distruzione delle cellule?
Si può, con un poco di buona volontà e di conoscenza del problema. Il Crob può farlo.
di Pasquale Tucciariello
|
Rionero, piazza Giustino Fortunato, tarda mattinata dei primi giorni di Luglio 1980. Mi sento chiamare, mi avvicino. E' il rag. Pierino Brenna, a quel tempo titolare dell'alimentare Superette Brenna, nella stessa piazza. Con lui un distinto signore dai folti capelli bianchi che mi fissa fitto fitto, portamento intellettuale, indaga. Mi dico: avrà una sessantina d'anni, il doppio dei miei. Pierino fa le presentazioni. Mi presenta come titolare e direttore della radio R2R, come maestro di scuola elementare, come cattolico democristiano molto vicino al sindaco Enzo Cervellino, come uno che scrive e non ha paura per ciò che scrive e via via tanti altri aspetti relativi alle mie esperienze di quegli anni giovanili mentre l'altro, il distinto signore dai folti capelli bianchi, continua a fissarmi e sicuramente coglie imbarazzo e disagio per quello sguardo fitto fitto di uno che si posiziona autorevole, augusto, padrone del tempo e dello spazio, fronte ampia spaziosa disposta a raccogliere e selezionare, elaborare, costruire, teorizzare, pontificare.
Il distinto signore? Come non lo conosci? Questi è una cosa grossa, scrittore di primissimo piano, illustre figlio di Rionero, è il professore Vincenzo Buccino, autore della Mala Sorte e di tanti altri romanzi di successo. Voi due dovete diventare amici, incalza in mezzo a noi tre il caro Dantino Nigro, mobiliere capace come pochi e come pochi risoluto a dettare legge. Voi dovete diventare amici.
Finalmente, dico, posso conoscere di persona il famoso prof. Buccino dopo averne sentito parlare tante volte dal prof. Enzo Cervellino.
Senta giovanotto, mi dice Buccino. Lei, come responsabile di una emittente privata, non può lasciare che avvenimenti importanti della nostra terra del Vulture e della Lucania restino fuori della memoria. Oggi pomeriggio, alle 16 in punto, l'aspetto nella mia abitazione estiva qui a Rionero. Sia puntuale.
Quel pomeriggio, nella sua abitazione, avrebbe preso corpo l'idea di scrivere e pubblicare – tempo una decina di giorni al massimo – un volumetto il cui titolo era già scritto su un foglio: (23 Luglio 1930 – 23 Luglio 1980) Cinquantenario del terremoto del Vulture. In quei minuti vennero messi su carta i nomi degli autori: Vincenzo Buccino, Pasquale Tucciariello, Emidio Nigro, Mario Falaguerra, Carmelina Capobianco, G.D., Maria Rosaria Curto. Il 3 Agosto, nella bibioteca Fortunato, il volume Cinquantenario del terremoto del Vulture, Radio R2R, Tipografia Zafarone e Di Bello, pagg. 84, Rionero 1980, venne presentato, per volere di Enzo Cervellino, da Ubaldo Mottolese che nella sua Rionero si trovava per un breve periodo di vacanza, lui oramai da decenni residente a Genova. Fu un successo.
E' così che nascevano i libri, i giornali, i dibattiti, le inchieste. E' così che quel genio, Vincenzo Buccino, in poco tempo riusciva a mettere insieme le intelligenze che si rendevano disponibili per evitare che si sonnecchiasse sui fatti determinanti o dolorosi della storia di un popolo. E' così che sono nati tanti progetti editoriali e un'amicizia, seppur con i suoi alti e con i suoi bassi, quale bene d'esistenza.
Buccino amava Rionero. Ne Il Sanamalati Rionero è il paese di Dolceamore, è un amore sottile, ricordi teneri, malinconia soffusa, tristezza delicata. Ci sono le sue opere, i suoi romanzi, i suoi racconti, una somma considerevole di scritti di grande pregio che fanno della sua scrittura una elevata testimonianza letteraria. E' una letteratura meridionale, dalla quale si possono attingere a piene mani i più alti valori della vita, un sistema linguistico originale che dà alla più ampia letteratura italiana una possibilità di informazione in più, forte di una singolare organizzazione del linguaggio ove certo sono presenti talune parlate paesane per cui alcune informazioni sul passato vengono rese e vissute dal lettore come fossero sorprendentemente vergini, una passione letteraria resa evidente da motivi interminabili toccanti corde emotive da autentica opera d'arte, profonda cultura ovunque sparsa, grande coraggio nell'affrontare le complicate operazioni imposte dalla necessità di fornire allo scritto una congruità ed una coerenza dell'insieme, dell'armonia delle parti, delle forme di scrittura modellate dirette – nelle sue intenzioni – a dare le informazioni proprie del racconto attraverso le agitazioni dell'animo. Insomma, è ciò che rende uno scritto un'opera d'arte.
Il mio amico di tanti anni Vincenzo Buccino ci è venuto a mancare nove anni fa, il 12 Luglio 2005, quattro mesi dopo la scomparsa di Enzo Cervellino. Per me – e spero non solo per me – parte l'anno decennale, 2014-2015, per Cervellino e per Buccino, due intelligenze non comuni. Un testimone loro coetaneo, vivente e speriamo ancora per molto, parlo del prof. Antonio Masucci, potrà meglio di ogni altro garantire che si tratta di due onest'uomini. Di due geni.
04/03/2015UN NOSTRO RICORDO DEL PRESIDENTE DINARDOIntervenne a Rionero nel 1996 alla presentazione del libro ”Le Ferrovie Ofantine”.
|
Pubblicato un libro, si pone il problema della sua presentazione. E' stato questo sempre il mio incubo, giacché è prassi che ogni libro debba essere presentato al pubblico ed alla stampa. Oltre ai relatori, chi chiamare come autorità politica (anche questo è di prassi). Debbo onestamente dire che in occasione della presentazione del libro-ricerca di Michele Traficante “Le ferrovie Ofantine” del Novembre 1996 mi è venuta di getto l'idea di chiamare l'allora presidente della Giunta regionale di Basilicata, Raffaele Dinardo, che avevo appena conosciuto, voglio dire più da vicino, proprio qualche settimana prima, a Potenza, dove da pochissimo avevo avuto l'incarico di insegnamento presso il Liceo Pedagogico “E. Gianturco”. Credo di avergli detto più o meno così: Presidente, devi venire a Rionero alla presentazione di un libro sulle ferrovie ofantine volute dal Fortunato. E devi venire per almeno due ragioni, perché si parla di Fortunato e perché si parla di infrastrutture che riguardano la Basilicata. E Dio solo sa quanto valore abbiano infrastrutture viarie e strutture di collegamento territoriali ai fini del decollo economico, sociale, culturale della nostra regione considerata la Cenerentola d'Italia. Ti invito in veste di educatore ed in veste di politico.
Credo di avergli detto più o meno queste cose. Non avevo grandi rapporti con lui, non se ne erano mai presentate circostanze serie. Solo conoscenza e rapporti episodici, niente di più. Ma mi disse subito di sì. Si trattava solo di concordare la data. E tutto è stato fatto in poche battute, molto velocemente, senza filtri presso le segreterie, senza anticamere, senza vedremo che posso fare tu capisci con i tanti impegni che ho. Tutto è filato liscio, tutto in maniera composta, lui asciutto, sobrio, essenziale, puntuale, rigoroso, ordinato, brillante, serio. Grazie, ispettore Dinardo. Il buon Dio saprà ricompensarti.
(p.t.)
________________________________________
Non nascondo che grande è stata l'emozione nel vedere alla presentazione del mio libro sulle Ferrovie Ofantine, il 14 dicembre 1996, l'ispettore scolastico e presidente della Regione Basilicata, Raffaele Dinardo. Ma la sorpresa fu pure più grande quando costatai la sua disponibilità, la sua amabilità, la sua signorilità nel rivolersi a me esprimendo giudizi lusinghieri e calorosi apprezzamenti sul mio modesto lavoro. Glie ne fui, e glie ne sono tuttora, assai grato, anche e soprattutto per i saggi consigli e gli incoraggiamenti a continuare nelle mie ricerche storiche sulla nostra terra.
Ecco perché la sua recente scomparsa mi ha profondamente commosso e, pour non volendomi unire al coro di lodi e di encomi a lui rivolti da autorevoli politici e uomini di cultura, sento il bisogno dell'anima di esternare i miei sentimenti più sinceri di cordoglio e di gratitudine che mi vengono dal cuore. (m.t.)
Da sinistra: Brescia,Tucciariello, Martiello, Attorre, Traficante, Dinardo, Lostaglio, Urbino, Motta.
29/11/2014Amianto, le zone non sono bonificate
|
ATELLA – Siamo in Italia, nel 2014 e dal 1992 e quindi da 22 anni, è stata emanata una legge che ha reso il materiale edile amianto fuori legge e quindi da allora tutti i comuni avrebbero dovuto tutelare i propri cittadini bonificando questo materiale cancerogeno.
Nel comune di Atella sono ancora molte le zone non bonificate, specialmente dove ci abita della gente. In tre vie importanti del comune angioino la presenza di eternit è ancora ingombrante, soprattutto sulle strutture.
In via Marconi, storica via del paese, due prefabbricati comunali abitati il cemento amianto campeggia sui tetti.
La cosa che fa scalpore è che in uno dei due prefabbricati vivono due ragazzi minorenni, un 14enne ed un 17enne.
Altro problema in via Sant'Eligio, nei pressi di un vecchio campanile e della piscina, si può osservare un casolare abbandonato dove sorgeva un negozietto, anche qui è ben nota la presenza di questo materiale fuori legge utilizzato per coprire la superficie.
Il problema è che che lì vicino ci abitano molte persone vista la presenza di un intero quartiere popolare.
Anche qui c'è una bella presenza di ragazzi minorenni che frequentano ancora le scuole elementari e medie.
Ultimo passaggio: viale dei Fiori, anche lì sorgono diversi prefabbricati con copertura in eternit e all'interno di questi ci vivono giovanissimi. Lì vicino sorge l'oratorio frequentato da giovani di tutte le età. Queste tre zone formano un vero e proprio triangolo dell'eternit che “abbraccia” l'intera zona.
Il messaggio dei cittadini è chiaro: bonificare l'amianto ormai neanche più in buone condizioni. E questo rappresenta il vero pericolo dell'eternit. Le crepe e l'usura infatti provocano la dispersione delle micidiali microfibre responsabili di problemi anche molto gravi.
di Pasquale Tucciariello
|
" La grande novità di queste elezioni europee sta nel fatto che per la prima volta il Parlamento Europeo, che uscirà dalle urne del 25 Maggio, eleggerà direttamente il Presidente della Unione Europea, che non sarà più il portavoce dei governi che lo hanno scelto, ma il vero rappresentante istituzionale dei ventotto paesi che formano l'Unione. Un piccolo passo per la burocrazia, ma un grande salto per la politica.
I due candidati dei partiti maggiori, sono, per ora, Jean-Claude Juncker, del PPE (Partito Popolare Europeo) e Martin Schulz, del PSE ( Partito Socialista Europeo).
Si va delineando così un sistema bipartitico che potrebbe essere molto importante per la nascita di un vero e proprio Governo europeo. Siamo quindi ad una svolta molto importante, di cui dovremmo occuparci di più. Ci siamo già lamentati che in Italia le elezioni europee si siano trasformate in una sorta di sondaggio su i consensi di Berlusconi o di Grillo. Ma i sondaggi d'opinione si consumano presto e la realtà politica finirà con l'imporsi. Per ora dobbiamo constatare quanto siamo lontani da quello che accade in Europa.
Matteo Renzi, appena diventato Segretario del Partito Democratico, con il suo cipiglio decisionista ha risolto una vecchia questione: ha fatto aderire il Partito Democratico italiano al PSE, Partito Socialista Europeo, che presenta candidato alla carica di Presidente dell'Unione europea, Martin Schultz.
E' probabile che moltissimi elettori del PD non sappiano nulla di Martin Schulz e non sarà certo il suo nome ad aumentare il voti del partito di Renzi. A disturbare i rapporti fra Renzi ed il candidato Schultz, è giunto anche un intervento molto inopportuno del candidato socialista, il quale, ricordandosi di essere tedesco, aveva, con poca intelligenza politica, ricordato all'Italia, che prima deve adempiere ai propri compiti, mettere a posto il bilancio, e poi dare dei suggerimenti. A questa uscita Renzi ha giustamente risposto dicendo che l'Italia sta mettendo in ordine i suoi conti non perché ce lo chiede l'Europa, o Martin Schulz, ma perché ce lo chiedono i nostri figli.
Nel secondo semestre del 2014 l'Italia presiederà il governo dell'Unione. Anche se non è esattamente così, dobbiamo pensare a Renzi come se fosse capo del governo e Schulz presidente della Repubblica. Potrebbe essere una grande occasione per realizzare un programma europeo per la soluzione della crisi economica superando le troppo dure strettezze imposte dalla Merkel, ma né Schulz ha dato prova di grande interesse a questo problema, né Renzi ha avuto il tempo di farsi apprezzare in Europa. Questa dissonanza allontana, ancor di più, se ce ne fosse stato bisogno, tutta la sinistra italiana dal vero contenuto politico delle elezioni europee. Andiamo così ad un elezione che sa di bipartitismo con il partito italiano aderente al PSE che non è sulla stessa lunghezza d'onda del candidato social democratico europeo.
Non mi meraviglierei se al momento della verifica, ossia al momento della elezione del Presidente Europeo il candidato Schulz dovesse pentirsi amaramente di non aver prestato più attenzione alle vicende italiane senza lasciarsi trasportare da un giudizio così banalmente tedesco della situazione italiana. Del resto queste sono riflessioni tutte teoriche perche ho l'impressione che Renzi, se durerà fino a giugno, guiderà il governo europeo con un Presidente eletto che sarà del PPE
In un precedente articolo ( http://bartolociccardini.net/2014/03/28/elezioni-europee-un-consiglio-a-renzi/ ) avevo consigliato a Renzi di fare una campagna elettorale “europea” impegnando tutti i socialisti d'Europa in un forte progetto “antirigidità”. In altre parole, facendo una pressione sulla Merkel, non da “italiano”, ma da “socialista”, per rompere l'accerchiamento che il caso Berlusconi ha creato contro di noi. Ma forse non era realistico pensare che Renzi, impegnato quotidianamente nei capricci italiani, avrebbe potuto occuparsi della campagna europea.
Per una strana specularità la situazione non è migliore nell'altro lato dello schieramento. Il candidato del PPE è il Signor Jean Claude Juncker, Governatore della Banca mondiale dal 1989 al 1995 , Jean-Claude Juncker assunse dal 1995 la responsabilità di Governatore del Fondo Monetario Internazionale e di Governatore della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. E stato presidente dell'Eurogruppo, carica da cui si dimise per protestare “contro le ingerenze franco tedesche”. Già capo del governo del Lussemburgo fin da giovane è presidente del Partito Popolare Europeo. E' un personaggio carolingio di quell'area franco-tedesca che ha dato molti uomini all'Europa.
Juncker è il candidato della Signora Merkel. Ma questo non sarebbe un difetto, dato che la signora Merkel è la vera leader del Ppe oltre che essere la Cancelliera della più forte tra le nazioni che compongono la Comunità Europea. Il suo difetto più grande è quello di essere il candidato sbagliato della signora Merkel. La Merkel ha realizzato la sua supremazia sul PPE commettendo due gravi errori. Il primo errore è stato quello di prendere il potere in Germania eliminando in malo modo, in maniera ruvida e non del tutto corretta, una personalità politica come Elmuth Khol, grande leader europeo democratico cristiano a tutto tondo. L'attacco fatto dalla Merkel su presunti errori morali di Khol, ha liquidato in modo innaturale la grande politica di Khol. Il grande politico tedesco voleva la Germania dentro una forte Europa perché aveva paura di una Germania troppo potente. Diceva di voler salvare la Germania da sé stessa. Era riuscito a raggiungere l'obbiettivo, ritenuto da tutti impossibile, dell'unificazione tedesca, dicendo che attraverso l'Europa voleva opporsi ad ogni volontà egemonica rigida ed inflessibile che è sempre stato il lato oscuro del nobile civismo della nazione tedesca. La Signora Merkel, nata ed educata nella Germania orientale comunista, figlia di un pastore protestante, cresciuta nella ostile neutralità della chiesa luterana sopravvissuta nel duro regime comunista, non ha nulla della grande sensibilità europea dei democratici cristiani, Adenauer, De Gasperi e Schumann educati nel cattolicesimo democratico che parlava la lingua delle università tedesche.
Il secondo errore della Merkel è conseguente al primo: la Merkel ha accettato i partiti conservatori nel PPE tradendo l'essenza intima della Democrazia Cristiana europea. Non è stata solo una sua colpa. Purtroppo ha potuto farlo perché è improvvisamente finita la direzione morale e culturale che la DC italiana aveva saputo dare al PPE.
Ma con la Merkel il Ppe non è solo diventato la destra europea, ma ha perfino accolto nelle sue file con archi di trionfo e disprezzando i democratici cristiani italiani, il partito di Silvio Berlusconi, che ancora oggi è il membro italiano più importante del PPE.
Ora questa contraddizione è venuta al pettine a causa di una uscita infelice di Berlusconi che rimprovera i tedeschi di aver cancellato il ricordo dei lager, cosa incredibile più che stupida, essendo i tedeschi, non i soli ad aver fatto i campi di concentramento in Europa, ma i soli a ricordarlo e a condannarlo.
A questa offesa ha reagito in modo deciso come era giusto la Cancelliera ed in modo ancor più preciso il lussemburghese Juncker, Presidente del PPE. Ma non potevano pensarci prima? E qui appare tutta la sua debolezza.
Alla fine di questa analisi non meravigliamoci se le lezioni europee si sono trasformate in una noiosa rappresentazione della crisi italiana con la irrimediabile decadenza del povero Berlusconi, con la paurosa follia del povero Grillo, con la fatica immane del povero Renzi per tentare di fare riforme in un paese confuso e stralunato.
Cosa succederà, allora? In Europa, andrà tutto bene. La Merkel otterrà la sua vittoria, ma dovrà ritirare il suo candidato ed accettare un candidatura forte, probabilmente suggerita dai conservatori inglesi o comunque scelta nell'estremo Nord. Gli italiani saranno danneggiati comunque dal fatto che non ci sarà una forte affermazione del PPE, che non sia berlusconiana. Alfano è alle prime armi e Casini alle ultime.
A sinistra il PSE perderà con il suo candidato Schulz che non sa essere leader, perché non è riuscito a mobilitare un Presidente francese, Holland, in sala di rianimazione ed un promettente Premier italiano in rodaggio, considerato “troppo italiano”.
L'unica speranza è che ritorni a volere l'Europa la Germania vera, quella di Adenauer e di Khol, quella dei democratici cristiani che guardavano con rispetto e con fiducia alla “strana” Democrazia Cristiana italiana, che non riusciva ad essere un partito conservatore e non voleva ammettere i conservatori nel PPE, specialmente se inglesi euroscettici. Un sintomo buono c'è. I vescovi tedeschi hanno fatto un appello ai cattolici tedeschi per difendere l'Europa “sociale”. La Merkel è avvisata. I Vescovi italiani , invece non hanno ancora fatto appelli per l'Europa.
Bartolo Ciccardini "
Caro onorevole, ho gradito moltissimo la sua riflessione sull'Europa e sullo stato delle cose in corso in questa campagna elettorale europea ove si contendono la leadership due persone in procinto di diventare personaggi che pochi conoscono, certo gli addetti ai lavori, ma non il popolo europeo non ancora elevato a dignità di popolo europeo forse perché si hanno scarse idee sul come elevarlo appunto a dignità di popolo col suo ethos specifico, intendo con la sua teoria del vivere, insomma con la sua etica. E pur non conoscendoli, i due leader o presunti tali, il popolo europeo (chi andrà a votare) voterà, per il candidato socialista che anche i cattolici italiani voteranno o per il candidato cristiano del Ppe che anche laici e liberali voteranno. Vi è in campo un miscuglio di contraddizioni in partenza, ciascuno con il proprio bagaglio che si porterà dietro, per tentare di realizzare un progetto che non c'è perché manca un laboratorio progettuale di area di riferimento. Eppure, accidenti, ci sono le persone (parlo dell'Italia ora) in grado di realizzare una zona di laboratorio ove si producano idee e progetti. Ci sono tanti gruppi cattolici, tutti molto poveri di seguito ma ricchi di cervello, in grado di fare scuola, di fare i formatori, di costruire una nuova classe dirigente italiana in grado di sfidare i tempi. Voglio dire che occorre formare persone in grado di poter diventare personaggi, cioè leader, carisma, popolarità, seguito.
Caro onorevole. domani sarò a Roma, Consiglio nazionale di Rinascita Popolare, con il caro Publio Fiori che molte energie sta spendendo in questa direzione, cioè in direzione dell'unità politica dei cattolici cui pochi credono, noi disillusi dai travolgenti cambiamenti repentini che hanno travolto mondi con poca identità sentita. Abbiamo ansia comune di respirare aria politica e sociale diversa.
La mia proposta. E se ritiene, la faccia sua, la riorganizzi, la reinterpreti, la progettualizzi.
Incontratevi, voi ex leader e ora nuovi leader di minute formazioni. Potete essere credibili se sarete capaci di incontro e di dialogo, di costruzione di un progetto comune. Non di premiership, affermazione dell'uno sull'altro, ma con umiltà al servizio di un'idea, quella cristiana. Costruite un laboratorio permanente a Roma. Avete risorse economiche. Fate qualcosa di più stabile, per una gioventù che verrà dopo di noi, che sia in grado di realizzare progetti politici e sociali a vantaggio del popolo. Si metta al lavoro, se crede, in questa direzione.
La sua riflessione sull'Europa e sul momento politico attuale verrà inserita nel mio sito, www.tucciariello.it, se lei mi autorizza.
Cordialità vivissime. E buon lavoro. Attinga a Socrate, ad alla migliore tradizione umanistica.
Pasquale Tucciariello
" Caro Tucciariello, autorizzo senz'altro, e mi sento onorato, la pubblicazione. Ho seguito con attenzione Fiori, di cui pubblico scritti ed iniziative. Lo scopo del settimanale on line www.camaldoli.org , che io dirigo è esattamente , nel mio piccolo, quello che tu indichi. Fai, a nome mio, i miei auguri a Publio ed alla sua iniziativa. Bartolo "
di Pasquale Tucciariello
|
" Ristampa del COMUNICATO del 2 aprlle 2014
della avvenuta approvazione del progetto della CONFEDERAZIONE PARITETICA per i DC:
Oggi 2 aprile 2014, si sono riuniti, a Roma, i rappresentanti del CDU - Cristiani Democratici Uniti e della DCN - Democrazia Cristiana Nuova , per valutare la possibilita' di realizzare una Confederazione Paritetica dei rispettivi Partiti in vista della ricostruzione della GRANDE FAMIGLIA DEI DEMOCRISTIANI, con unico simbolo che sara' definito di comune intesa.
Le parti valutano positivamente la soluzione prospettata, e aperta a tutti i partiti e movimenti di derivazione democristiana e liberale, disponibili a ritrovarsi per la difesa degli ideali sturziani e degasperiani.
Gli iscritti ai partiti aderenti alla Confederazione potranno essere titolari della doppia tessera: quella del partito da cui si proviene e quella della Confederazione.
La Confederazione ritiene indifferibile una riforma costituzionale e elettorale che garantisca all'Italia:
a) governi di durata pari alla legislatura, in sistema di alternanza dei partiti al governo, nell'ambito della repubblica parlamentare;
b) i diritti del parlamento e il suo buon funzionamento.
La Confederazione si impegna fin d'ora a mobilitare nel Paese ogni energia per contrastare il disegno costituzionale e la riforma elettorale dell'attuale intesa PD-FI, che cancella pluralismo, rappresentativita' degli eletti e partecipazione, che minacciano la democrazia.
Per le riforme costituzionali e' necessario procedere con il sistema proporzionale puro in modo da garantire tutte le espressioni politiche del Paese. La polarizzazione dei partiti eletti puo' essere ottenuta in sede parlamentare attraverso incisive modifiche del Regolamento, elevando significativamente la soglia minima per la costituzione dei gruppi parlamentari. "
Buongiorno prof. Luciani. Sento di dare una breve risposta a questo tuo comunicato ed agli sforzi che da più parti vengono portati avanti allo scopo di dare forma concreta alla famiglia democristiana e cattolica ora frantumata sol perché impegnata ad esercitare rappresentatività e potere presso partiti e schieramenti vari che sono in grado di assicurarne a sufficienza. I cattolici, già Dc, li trovi dappertutto. Ci sono nel Pd in abbondanza (pensa a Letta e Renzi, solo per citarne alcuni), poi li trovi con Casini (sarebbe, diciamo l'erede naturale della Dc ma in una posizione elettorale così minuta e quasi costretta allo sparimento per effetto della sua lunga assetata ricerca di potere e persino lo ammette quando dice che "siamo partito di governo"), ci sono con Sandri, con Pizza, con Rotondi, con Fontana, con Fiori (io sarei tra questi), poi i Dc sono tra le tante sigle che si stanno formando in attesa di una confederazione (anzi di due se non erro) di difficile composizione, poi li trovi con Mauro, con Monti, con Meloni e La Russa, altri ancora vicini a Fini, a frotte si sono stretti ad Alfano, intere armate con Berlusconi, poi ci sono alcuni con Mastella e il suo Campanile e poi e poi e poi perché l'elenco non finisce qui. Ascolta prof. Luciani. Vogliamo mettere a sintesi politica il pensiero cattolico? Con quale proposta innovativa. Non sarà che le proposte, tutte rispettabili, per carità, siano composte da parole stanche, usate, persino noiose, difficilmente in grado di avvicinare vecchi Dc, per i quali prerogativa essenziale è rappresentatività, visibilità, insomma potere, o nuove esperienze sociali culturali economiche che possono essere attratte secondo me solo da nuovi scenari e prospettive fresche in termini di costituzione di una comunità statale fondata non sul lavoro - retorica costituzionale spudoratamente sbandierata senza costrutto - ma sulla pratica solidale? Mi dici per favore su cosa si fonda il pensiero cattolico? Su tante cose? No. Su piccole cose specifiche, precise, imprescindibili. Mi riferisco alle prime virtù teologali: fede, speranza, carità. Le prime due esperienze sono condizioni interne allo spirito di ciascuno di noi, l'ultima è il nostro impatto con il mondo. E qual è il nostro impatto con il mondo; cioè, mi domando come noi siamo visti dal mondo che ci circonda, quale il nostro status degli ultimi vent'anni e quello dei vent'anni ancora precedenti. Mi dici, prof. Luciani, perché un giovane (sui giovani si costruisce, come sono in grado di insegnare Berlusconi, Grillo e Renzi con i loro messaggi che altri definiscono populisti ma che per me invece sono appetibili, orientabili, spesso per la carica innovativa che conducono) dovrebbe avvicinarsi a noi, altro polo che sogniamo di confederarci senza rinunciare a criteri di rappresentatività, in assenza di proposte che, ripeto, a me sembrano stanche, a volte noiose, lontane anche dagli interessi immediati? Io capisco i temi della costituzione, i temi valoriali come la libertà, la democrazia, l'etica. Vedi, professore. Questi temi vanno bene per uno come me e come te, per Publio, sicuramente per altre energie positive, di buona intellettualità sincera appassionata. Ma vanno bene per chi ha già risolto il problema occupazione (io sono appena pensionato) e non certo per chi è allo sbando sociale senza prospettiva entro uno Stato che poco o nulla fa per chi è in disgrazia. Manca, secondo me, nei nostri programmi di ricostituzione di un ruolo nella nuova società, la parola chiave. Renzi l'ha capito, sicuramente perché ne è convinto. Perciò vince. A me non dispiace la sua vittoria. Dispiace la vittoria del Pd, perché il Pd non è Renzi. Nelle periferie il Pd è potere, clientelismo, malcostume, pratiche ereditate dai partiti della repubblica Dc, Pci, Psi, i partiti della carta costituzionale che si sono assicurati 630 deputati 315 senatori, quasi mille uomini ogni mese che per oltre sessant'anni per mantenersi hanno succhiato linfa vitale al popolo con stipendi altissimi anche rispetto ai paesi più ricchi e con privilegi che un cattolico non poteva e non doveva mai accettare. Ed invece l'ha accettato, sicuramente l'ha anche proposto, certamente non l'ha ostacolato. Il nostro retaggio di mondo cattolico è anche questo. Ed è un retaggio ingombrante. Perciò, diamoci una mossa. Chiediamo scusa innanzitutto. La Dc ha fatto grande l'Italia, ma l'ha resa anche povera, piccola e sporca. Diamoci una mossa. Diamoci una ventata nuova. Nuove idee, nuove proposte, soprattutto credibili, convincenti, spendibili, attraverso il segno della nostra esistenza di vita cristiana sorretta dalle virtù del cristiano che sbaglia ma che si corregge poi sbaglia di nuovo e si corregge fino a proseguire il completamento di esistenza in vista della speranza sorretta dalla fede. Noi, prof. Luciamo, siamo credibili? Ecco la domanda. Ed è inquietante. Spero di non averti annoiato. Ne manderò copia anche al caro Publio, che molte energie sta profondendo in questa direzione.
Pasquale Tucciariello
13/04/2014
20/02/2014
Una vetrina etnografica
Centinaia di oggetti lavorati in legno come possibilità di ricostruzione della vita
Una casuale cerimonia anniversaria (l'80° compleanno di padre Bernardino Traversi) presso la comunità di Sant'Andrea di Atella, un rinnovato scambio di vedute più o meno interessanti con amici e conoscenti del luogo, nuove conoscenze che si fanno e curiosità mosse a garantire una presa col mondo per assaporarne fattezze, umori e sapori. E' così che poi fortuitamente nascono le cose che si conoscono. E' così che incontri persone singolari capaci di catturare l'attenzione e di dare un senso nuovo ad una normale o scontata cerimonia anniversaria.
A Sant'Andrea di Atella vive un uomo quasi ottantenne, Nicola Mecca, cantoniere della Provincia di Potenza in pensione ora contadino a tempo pieno che nel corso di semplici e molto modesti festeggiamenti ad un parroco cui la comunità è particolarmente legato, offre in dono a padre Bernardino un robusto crocifisso in legno con intagli e disegni incisi. E c'è curiosità, ovviamente, per un regalo indubbiamente bello oltre che singolare. Da cosa nasce cosa e scopri che presso la sua abitazione vi sono altre centinaia di oggetti in legno forgiati a mano, non torniati, lavorati allo scopo di utilizzarli per usi quotidiani o semplicemente per ricavare da una massa legnosa un progetto di interesse non economico. C'è di tutto. Bastoni piccoli e grandi con teste di animali noti realizzati con legno di corniolo, durissimo e ben stagionato, scelto forse anche per ammorbidire teste dure o prepotenti riottose al dialogo o alla conciliazione. Croci di acero, cannelle in legno (cannitti in forma dialettale) finemente lavorate realizzate con legno di noce invecchiato di almeno tre/cinque anni, spettacolari catene in legno, simboli e stemmi di partiti tutti in legno (da antico democristiano mostra compiaciuto uno scudo crociato autentico soprammobile simile a quello donato ad Emilio Colombo una trentina di anni fa), portasigarette, portaspilli, posacenere, porta polvere per fucili, taglieri di legno acero, un carretto, zappe, vanghe, cornici, statue raffiguranti animali, scene di vita e numerosi altri attrezzi utili per un'esistenza di famiglia, di campagna, di lavoro.
Presi esteriormente o da un punto di vista semplicemente estetico sembrano belli e sicuramente lo sono. Analizzati un po' più in profondità – operazione fatta quando uno per forza vuole complicarsi la vita – rifletti che attrezzi e strumenti di lavoro o di vita quotidiana di un tempo, raccolti e donati per gratuità dagli abitanti del posto (una quarantina di nuclei familiari in tutto) magari messi in vetrina in un'aula dell'ex edificio scolastico di Sant'Andrea, attraverso osservazioni partecipanti come le definisce l'antropologia culturale, permettono di descrivere un popolo, comprendere la sua cultura, i riti e le credenze. Una collezione etnografica, insomma, come oggetto di analisi e di studio delle discipline demoetnoantropologiche.
Ricostruire la vita sulle scene di vita scomparse che hanno lasciato il posto ad altre scene di vita, oggetti di vita solitaria e di comunità, attrezzi e strumenti usati nella quotidianità. Sembra che parlino, è un linguaggio, sono emozioni, è possibilità di scavare nella verità per scoprire le condizioni della vita contadina, una sorta di ontologia dell'essere di un tempo che può essere realmente esistito solo comprendendo il fatto che si dispiega. E' un'ermeneutica, come possibilità anche di interpretazione di opere d'arte. Si è portati ad appropriarsi della propria esistenza, a scolpire il proprio progetto, si fa se stesso, è autenticità, è esistenza. Ed è una ricerca etnologica come recupero della memoria e dei vissuti del nostro popolo contadino.
C'è materia per l'etnologo in termini di ricostruzione dei sistemi sociali, della storia nel suo ambiente naturale con le sue relazioni familiari ed il rapporto con la modernità. Val la pena organizzarsi e cominciare a raccogliere e mettere da parte, inventariare, catalogare. Un'operazione che il sindaco di Atella gradisce.
“Questi oggetti – dice il sindaco ing. Nicola Telesca – parlano di noi e della nostra storia. Richiamano alla memoria gesta, fatiche e speranze che hanno scandito la vita e gli affetti in un passato contadino neppure tanto lontano. Ritroviamo, con essi, elementi di una civiltà oramai in via di estinzione, con tutti i suoi valori, ad iniziare da quelli del sacrificio e del lavoro. Oggetti, ieri, indispensabili come mezzi di produzioni economiche; oggi, sicuramente preziosi poiché, in un mondo che gira a velocità sempre più folli, ci inducono a fermarci ed a riflettere su chi eravamo e di come si è evoluta l'economia, la cultura e la società”.
Pasquale Tucciariello
di Graziella Placido
|
Ho incontrato Pasquale Tucciariello a Palazzo Fortunato. Si teneva una riunione sul tema del degrado della pur ridente zona del Vulture con i suoi boschi, i laghi di Monticchio, i fossati che dai declini del monte omonimo scendono verso il Gaudo .
Allorché si menzionò il fosso della signora, Pasquale mi comunicò di aver scritto un racconto dal titolo “ Il Fosso della Signora”. Me lo inviò via mail con l'invito ad esprimere un mio giudizio. Gli risposi di aver letto tutto d'un fiato il racconto che evocava in me i luoghi della memoria. Quando, nel periodo della mietitura, da ragazzina con mia sorella si portava, a piedi, nella lontana contrada Pezzelle una robusta colazione ai braccianti. E giù e su per i fossati nel passaggio più percorribile. Per quelli impraticabili esistevano ponticelli che attraversavamo tremebonde per via della paurosa profondità.
In quanto al giudizio non sono un critico letterario né lo stile del critico è nel mio repertorio. Così gli scrissi. Tuttavia decidemmo un incontro per esprimergli, da lettrice, le mie positive considerazioni sul racconto.
Tucciariello, ex docente e giornalista a me noto da decenni, è un uomo dai molteplici interessi: filosofia storia psicologia politica. Da sempre militante nella Dc e nelle sue varie ramificazioni. Più volte candidato. Da qualche anno pensionato, si dedica maggiormente alla scrittura, già sua disinteressata passione, per sfidare l'esistenza. Alieno dai compromessi di comodo è una persona straordinariamente libera che tiene molto alla sua libertà. Ne ha fatto un caposaldo. Ai soldi non si è mai assoggettato, ci ha rimesso spesso di suo. A stargli vicino noti, nell'espressione del viso e nella voce bassa, una vena di pessimismo: il disamore dei giovani per la lettura, il suo distacco dalla politica. Non la capiva più – mi confida - sentiva una certa ostilità ed è sceso dal ring con le sue gambe. Che, a vedere le cose dell'oggi, conta più l'avere che l'essere più l'apparenza che la sostanza Parla poco -Tucciariello - ma ascolta attentamente le mie annotazioni su “Il Fosso della Signora”. E quando gli suggerisco che una simile produzione non dovrebbe rimanere nel cassetto come suo unico privilegio, ma farla conoscere al pubblico trasferendola magari in altre forme espressive come in un corto o in una rappresentazione teatrale, egli appare fiducioso in quello che fa ma più fiducioso in quello che potrebbe fare solo con l'appoggio dei politici che contano. E lui sta da una parte sola: la libertà. Sa essere se stesso – Tucciariello - sincero schietto lucido. La franchezza è la sua forza. Insomma è un uomo autentico e quando uno è autentico è vero.
Dopo il colloquio ci salutiamo. Egli sollecitandomi a scrivere le mie impressioni ed io, consapevole della mia incompetenza, con la certezza di non farne nulla. A darmene lo spunto, invece, sono state le mie nipotine dell'età di Gerardino del racconto e che la stessa sera, guarda caso, irruppero con la loro vivacità in casa al grido di “zia leggici una favoletta.” Davano segni di impazienza e per zittirle leggemmo il racconto “Il Fosso della Signora” lì a portata di mano. Naturalmente non ne ultimammo la lettura ma le bambine entusiaste mi interrompevano ”chi sono le verginelle che la Signora dal lungo abito bianco – la lunghezza era nella loro fantasia - prediligeva nelle sue apparizioni?” Ricevutane spiegazione “che bello !” esclamò una delle due. Si sentivano privilegiate per essere loro le eventuali destinatarie di quelle apparizioni. E l'altra, all'abbandono di Serenella neonata nella ruota del convento, “ è stata fortunata –osservò. Oggi i neonati non amati dai genitori vengono buttati nel cassonetto della spazzatura ”. E' il caso di ripristinare una moderna ruota del convento? Pensai. Ecco i tuoi primi lettori, caro Pasquale. Ecco la purezza e l'innocenza dei bambini. E la loro meraviglia. Aveva ragione Tolstoj, scrittore ribelle , secondo il quale ci sono due modi per arrivare alla verità: l'innocenza dei bambini e l'arte più alta del pensiero. Anche Picasso desiderava disegnare come un bambino e il regista Ermanno Olmi fu definito “un rivoluzionario dal cuore bambino”. Senza la meraviglia dei bambini l'anima si inaridisce. Dalle osservazioni del loro mondo si potrebbe partire per cominciare a migliorare il mondo. E da chi se no.
“Il Fosso della Signora” si diceva. Ad attraversare il racconto è una religiosità intesa non come frequenza alle funzioni religiose “ la Signora non ne perdeva una” ma , per me laica, intesa come profondo amore, come sensibilità generosità gentilezza pietà, come ascolto della voce della propria coscienza, come lavoro. Una religiosità, insomma, immanente che vale su questa terra.
Protagoniste del racconto sono due figure femminili: la Signora del fosso e la spigolatrice Serenella. Non sono creature d'altri tempi ma moderne. La prima vestita di bianco che appare e scompare giù e su per i fossati e galoppando sulla sua cavalla Durlindana, pur eterea è una figura reale. Dolce soave sorridente educata, capace di piangere, sposa contro la sua volontà un ricco agrario rozzo e aspro. L'incomunicabilità tra i due è acuita dalla mancanza di un figlio.
L'amore, dicevo, declinato nelle diverse sfumature, quello segreto delicato puro palpitante della donna per Emanuele giovane attraente per la sua bellezza e gentilezza ma allontanato dalla famiglia “di rango” che non vede di buon occhio quella relazione. L'amore tenero, protettivo dei genitori adottivi che, vecchi e ormai prossimi alla morte, la cedono in sposa al ricco agrario per metterla “al riparo dalla miseria”. E lei, scoperta la verità sulle sue origini di trovatella, pur triste, ascolta la voce della coscienza e acconsente ad un matrimonio forzato. Non vuole tormentosi rimorsi. Il suo bisogno d'amore, che si manifesta nelle frequenti fughe per la valle e i fossati in compagnia della sua cavalla, è il bisogno d'amore di tutti gli uomini perché l'amore è il senso dell'esistenza. Nella incomunicabilità col mondo esterno e nella amarezza della solitudine, meritano confidenze un animale , la cavalla, e una verginella: Serenella. Durlindana mi ricorda la cavallina di “Angoscia” un racconto di Cechov, la sola pronta ad ascoltare le pene del suo padrone Jòna dopo aver questi inutilmente vagato per le strade della città nel tentativo di esternare agli umani l'angoscia per la morte del figlio.
Serenella: una fanciulla bella dolce, oggetto d'amore da parte di tutto il vicinato che “con generosità e solidarietà” l'aiuta a mettere casa in un rudere reso abitabile alla ben meglio. E la protegge dagli sguardi indiscreti dei giovanotti. Entrambe queste figure femminili sono dotate di autonomia; Serenella nella decisione di andare a vivere in un rudere dedicandosi al suo lavoro: una bella dote oltre alla sua bellezza. Sa cucire ricamare, coltiva la vigna l'orticello, raccoglie le olive; e la Signora nel dare lezioni di cucito, di equitazione e di catechismo. Qui il lavoro non è ” improbus labor ”. Non è solo fuga della donna dall'angustia delle pareti domestiche. No. E' la consapevolezza che ognuno nella vita deve fare la sua parte. Solo apparentemente fragile, in realtà ella non subisce , protesta e, alla vista del marito che col fucile sta per ammazzare la cavalla sua unica consolazione, disperata, fa appello a tutta la sua forza e col forcone lo colpisce alla nuca. Creatura si sublime ma in carne ed ossa.
Non manca l'amore sensuale della serva Giocondina verso il suo padrone che nutre non affetto ma attrazione carnale. L'amore verso la natura , inoltre, non fa da sfondo, ma è un tutt'uno con i personaggi. Il modo di dileguarsi della Signora, che non scompare nel buio profondo della morta gora ma si perde lontano “alla linea dell'orizzonte nella sua voce di canto soave e triste” mentre saluta Serenella con ampi gesti della mano, mostra un attaccamento alla vita nella sua semplicità. La cui bellezza è fatta di ”odore del grano del fieno, di pane caldo, del vento che accarezza e scompiglia i riccioli di Emanuele. Dell'acqua della rugiada che lava il viso del giovane, della sua corsa tra i prati, della caccia tra i campi di barbabietole.” E che cosa sono i mazzetti di fiori di campo confezionati da Serenella e gettati nella profondità del fosso, e le spighe di grano “volutamente lasciate” dai mietitori nel campo per la sopravvivenza dei più poveri se non “ pietas” ?
Incomunicabilità solitudine tradimento fuga, bisogno di affetto: sono attimi di verità assoluta. Non solo. A me questo racconto sembra il prodotto di una lunga educazione, di radicate credenze religiose, di severe regole di vita, di una rara e spiccata sensibilità umana, doti che in fondo sono dello stesso autore. E' questi il vero protagonista. E' una piccola fiaccola accesa in tempi di smarrimento come questi che stiamo vivendo. Un bel racconto dunque. E un bel racconto “moltiplica la vita”.
Graziella Placido
di Pasquale Tucciariello
|
“Uagliù, mo arriva Talete!”. Era l'esclamazione spontanea di Nigro all'ingresso in aula del prof. Antonio Masucci.
Il geom. Antonio Nigro, oggi dipendente emerito del Comune di Rionero in Vulture, ricorda con gratitudine e commozione il suo professore della Scuola Media M. Granata di Rionero in quell'anno scolastico 1947/48.
“La bravura del prof. Masucci – ci riferisce Nigro – ebbe subito tanto apprezzamento nella classe. Veniva chiamato Talete. A stupire ancor più non era solo la bravura del suo insegnamento, quanto il “lei” che dava agli alunni, assolutamente inusuale. Per il suo portamento di vita e di sapere ancor oggi gli sono grato con stima e affetto”.
Non da meno il sentimento di riconoscenza espresso dal maestro in pensione Pasquale Calice. “Ho avuto la fortuna di godere di alcune lezioni di matematica dal prof. Masucci nel lontano 1951, anno in cui sostenni, con esito positivo, gli esami di abilitazione magistrale come privatista. Le lezioni del prof. Masucci ebbero il merito non solo di farmi superare agevolmente l'esame di matematica, ma di suscitare in me l'amore per una disciplina piuttosto ostica, come si sa, per molti studenti. Il ricordo più bello? La limpidezza del suo discorso, la brillante esposizione dei concetti matematici fondamentali, l'ordine, la precisione con cui disegnava le varie figure geometriche sempre corredate da procedimenti descrittivi, regole, definizioni ben precisi che esprimeva oralmente e per iscritto. Conservo, tra le mie cose più care, i quaderni di algebra, geometria e matematica con i relativi problemi ed esercizi di applicazione che mi consigliava di eseguire. Ricordi bellissimi”.
Solo un'altra testimonianza di un quarantenne, A. M.(ci ha chiesto l'anonimato): “Lo conosco non da molto, mi è stato presentato da persona di riguardo. I nostri ragazzi, incapaci di ragionare sulle materie scientifiche, presso di lui trovano risorse, entusiasmo, capacità di comprendere le filosofie più profonde che sorreggono le discipline in campo matematico, fisico, chimico e delle scienze sperimentali in genere. E poi la sua generosità. Chi bussa alla sua porta, gli viene aperto, trova risposte positive. Il tutto con assoluta gratuità. Rionero e la scuola di Rionero gli devono molto”.
Solo alcune testimonianze di alunni e conoscenti del prof. Masucci, solo qualche racconto qui riportato, a testimonianza di un uomo – classe 1922 – che ha dato e dà ancora la sua vita alla matematica, alla fisica, all'astronomia, alla chimica, instancabile, a Rionero come a Bisceglie come in altre cittadine della Puglia dove spesso viene chiamato da associazioni e sodalizi, fecondo, preciso, garbato, instancabile, chiarezza espositiva, una mente ordinata.
Di lui ci riferisce un suo biografo e amico, il prof. Pasquale Tucciariello, già ordinario di filosofia e storia al Liceo classico di Rionero, che lo frequenta da quasi un decennio e con lui intrattiene ragionamenti in ordine al rapporto tra scienza e filosofia e tra ragione e fede. Sicuramente ne uscirà una pubblicazione.
Il prof. Masucci ha scritto due libri di fisica ora ancora contenuti in un dischetto – l'itinerario della fisica – per dimostrare come la fisica col tempo sia diventata disciplina autonoma, affrancata dalla sudditanza della metafisica e della filosofia. La ricerca contenuta nei due volumi prende avvio dal mondo greco, dagli ionici, fino a giungere alla fisica classica di Newton. Il terzo volume, a cui sta lavorando, riprende il discorso di Newton, percorre il secolo d'oro della fisica, l'Ottocento, gettando così le basi della relatività di Einstein e le successive meccaniche quantistica, statistica e materiale. Con un'appendice – sul tema scienza, filosofia, fede – una conversazione tra Masucci e Tucciariello ove si spiegheranno le ragioni di fondare un dialogo serrato tra le scienze e la necessità di dover giungere a sintesi, ad incontrarsi, a colloquiare, ad ascoltare, fare ricerca comune, trovare soluzioni condivise per il bene del genere umano.
Ma dove sta andando la fisica, anzi qual è il suo ruolo oggi.
I fisici - sostiene il prof. Masucci nella sua ricerca - ritengono che la scienza non possieda verità assolute né uniche. La fisica si ferma di fronte a precisi limiti, quali il muro di Plank, relativo all'espansione dell'universo e alle bassissime temperature che impongono una rivoluzione scientifica, allo scopo di giustificare l'esistenza dell'ultima particella che fornisce la materia a tutte le altre particelle. E' a questo punto che lo scienziato dovrà fare i conti con un “genitore”, un demiurgo, con chi, insomma ha creato l'ultima particella. Se questa particella appena trovata dai fisici è l'ultima, come essi dicono, prima ancora cosa c'era? Una causa prima? E qual è la causa prima. Qui è il punto. Il momento impone alla fisica di tornare alle radici del problema, alla filosofia greca e alle sue domande fondamentali. E per ciò che concerne l'astronomia, il problema deriva dall'esistenza di buchi neri, materia oscura ed energia oscura. Sarà un gran bene se le scuole di pensiero trovassero un accordo per tentare di arrivare alla verità scientifica.
Un'ultima annotazione. Rionero ha avuto la fortuna di avere tra i suoi figli migliori tre amici coetanei, che molto lustro hanno dato alla città. Mi riferisco ad Enzo Cervellino, a Vincenzo Buccino, ad Antonio Masucci. Tre amici che a partire dalla scuola media, prima insieme e poi ciascuno per la propria strada, hanno segnato stagioni importantissime legate alla politica ed alla promozione culturale in generale, alla letteratura ed alla scienza. C'è da esserne fieri.
Rionero, novembre 2013
di Pasquale Tucciariello
|
Certo, caro Publio: anch'io non ci sto. Premetto comunque che seguirò le direttive della maggioranza di noi in Direzione nazionale e turandomi e incerottandomi il naso lavorerò in sintonia col gruppo. Ma sarebbe un grande sollievo per me non dover scegliere e ciò perché non vi sono le condizioni della scelta. E le condizioni le hai indicate perfettamente. Sono il nostro scopo, la nostra appartenenza, la nostra carta d'identità di cristiani impegnati in un progetto di vita e di società che non si vogliono vendere per un posto al sole incuranti di un mondo che soffre e che piange per una crisi senza fine e per l'incapacità di portarla a sintesi attraverso politiche in direzione delle famiglie, dei ceti produttivi, della speranza nel futuro.
Aver tolto risorse alle famiglie senza destinarle agli assi produttivi ha determinato assenza di prospettiva, cioè di politica, ed incapacità di progettare il tempo futuro guardando il tempo presente. Il prof. Monti ha fatto il ragioniere contabile molto alleato al sistema bancario in perfetta sintonia con i vertici europei. Questa non è l'Europa dei popoli auspicata dai tre Grandi padri. Questa è l'Europa delle banche, di un sistema capitalistico che non si cura del popolo, che privilegia i settori della finanza. Questa è l'Europa delle sofferenze, della grande disoccupazione, della paurosa recessione. Non c'è prospettiva. Ho tre figli che sono studenti, due in medicina uno in fisica, e sono scoraggiati, delusi anche del prof. Monti. Era ritenuto una speranza giovanile rispetto alla vergognosa politica delle rendite e dei privilegi dei gruppi politici impegnati a sottrarre risorse a tutto proprio vantaggio. Rispetto alla sua scelta contro parassitismi e privilegi avrebbe dovuto attuare nel contempo politiche che anche tu, Publio, hai indicato: alla grande recessione del 1929 l'America ha risposto con straordinari investimenti pubblici. E poi con la lezione di Keynes: se indeboliamo la Germania con prelievi forzati a riparo dei danni di guerra non metteremo la Germania nelle condizioni economiche di poterli pagare.
Eppure il prof. Monti queste cose sicuramente le conosce come me e forse meglio di me. Si è lungamente cimentato con i prelievi senza investire un centesimo. Solo politiche di tagli, certo anche di sprechi. Ma anche gli sprechi sono tagli. Ora quei tagli alle famiglie e ai settori produttivi non producono effetti economici positivi, anzi li mortificano. Quest'anno nella mia cittadina di circa 15mila abitanti hanno chiuso 12 esercizi commerciali, 14 imprese artigiane e una grande azienda di 80 unità lavorative. E nella Fiat si lavora solo due giorni a settimana. C'è tristezza sul volto della gente. Perciò tiriamoci fuori dalle politiche senza prospettiva, dai dispetti che i grandi-piccoli stupidi della politica nazionale si fanno come fossero bambini. Denunciamo le brutture questo sì, e studiamo i problemi per indicarne gli sbocchi, nel rispetto, come giustamente dici, della Tradizione, cioè della nostra carta d'identità, poi facciamo veicolare le nostre idee, facciamole conoscere.
E salviamoci almeno noi dal pantano e dal caos. Ci vediamo sabato a Roma. Buon Anno 2013.Rionero, 3 gennaio 2013
Pasquale Tucciariello
Basilicata
di Antonia Flaminia Chiari
|
Per Emanuele Lévinas, la morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima, la metafisica, identità tra metafisica ed etica. L'etica, afferma, implica non soltanto un riferimento al prossimo, ma anche a Dio. Significa allora un'etica rivolta al prossimo, all'altro, un incontro, conciliazione, non separazione.
E già ci troviamo immersi nei problemi dell'etica, in quella che a partire dagli anni Settanta del secolo scorso viene intesa come movimento di riabilitazione della filosofia pratica in grado di indicare “valori, giudicare la realtà esistente in termini di bene e male, giusto e ingiusto”, come scrive Enrico Berti nei suoi “Soggetti di responsabilità”.
L'etica tende allora a farsi disciplina e indica i motivi nei confronti dei quali apre un fronte di polemica.
E' in atto una crisi delle credenze morali comuni quando i concetti tradizionali di bene e di male sono in discussione, le alte idealità e le certezze crollano, la scienza e la tecnica hanno la pretesa di essere assolutizzanti persino nei confronti della costituzione biologica e psichica dell'uomo. Sono in campo un insieme combinato di motivi che sollecitano l'urgenza, ineludibile, di ricerche etiche interessate alla soluzione di questioni morali specifiche.
L'etica, come si diceva, tende a farsi filosofia pratica, una disciplina, a darsi uno statuto, un nome, a decidere sui rapporti con le altre discipline, a darsi autonomia, a sgomitare insomma per farsi strada singolare e misurarsi con i grandi temi della vita e della morte, aborto ed eutanasia, trapianto di organi, accanimento terapeutico, fecondazione artificiale, trattamento degli embrioni, manipolazione genetica, temi che coinvolgono settori di saperi come biologia, medicina, psicologia, sociologia, teologia e naturalmente lei, la filosofia, di cui l'etica è figlia prediletta per lunga tradizione grecoromana, medievale, moderna, contemporanea.
Se n'è parlato a Rionero, nel palazzo Fortunato, in un incontro promosso dall'Università delle tre età “Enzo Cervellino”, relatrice la dott.ssa Antonia Flaminia Chiari, bioeticista nei corsi di scienze infermieristiche e nei corsi di formazione organizzati in ambito medico.
“Il pensiero bioetico si fa pressante in tempi di relativismo, edonismo, crisi di valori in cui si vive per l'apparire rispetto all'essere. Qui si mettono in discussione tutti i valori morali che invece costituiscono l'essenza stessa della persona”, ammonisce.
“Nascere e morire nella civiltà tecnologica”: questo il tema che la dott.ssa Chiari ha sapientemente sviluppato, dopo una dotta introduzione della prof.ssa Giuseppina Cervellino.
Alla bioeticista Chiari, che opera particolarmente a Roma, abbiamo rivolto alcune domande.
D – C'è un'emergenza etica in quest'era che definiamo postmoderna?
R – Il concetto di vita è stato modificato dalla nuova genetica che, se si rivela fondamentale per le scienze empiriche in quanto studia il codice genetico utile nella prevenzione e cura di importanti patologie, pone inquietanti problemi quando va a modificare gli eventi naturali come la nascita, quando diventa eugenetica, selettiva o creativa. Sotto quest'aspetto vi è un'emergenza etica.
D – In pratica la tecnica sostituisce gli eventi naturali umani, anzi li determina?
R – Si sostituisce all'azione creatrice quando si fa della genetica un uso illecito. Le diagnosi prenatali, se da un lato consentono di anticipare informazioni su malattie o malformazioni nello stadio fetale, in molti casi si trasformano in sollecitazione indebita all'aborto volontario. Avanza l'idea che il valore dell'essere umano dipenda dalle future condizioni di salute.
D – Si pone un problema di etica della responsabilità?
R – E' un problema di responsabilità genitoriale, soprattutto materna che, nel caso della soppressione di un feto affetto da malformazioni, si rivela edonistica in quanto cerca il figlio perfetto e quindi ci domandiamo come una madre che avverte fin dal concepimento una stretta relazione con il proprio figlio possa poi soltanto pensare di ucciderlo nel momento in cui non risponde alle proprie aspettative. A livello ontologico, uccidere un feto od uccidere un bambino ha la stessa valenza morale. Artefice di tale atto è la legge n. 40/78, che denomina l'aborto interruzione volontaria di gravidanza facendo passare per lecito ciò che lecito non è.
D – E nelle sperimentazioni avviene la stessa cosa.
R – Certamente. Alle diagnosi si aggiungono le sperimentazioni su embrioni che diventano vere e proprie cavie da laboratorio. La generazione extracorporea, nota come Fivet (fecondazione in vitro e trasferimento dell'embrione) trasforma un evento naturale, come la generazione, in un processo programmato, controllato, modificabile. Anche questa operazione rientra nell'idea di medicina del desiderio perché puoi ordinare un figlio come tu vuoi, con caratteri somatici desiderati. Anche questa pratica è presentata nella legge n. 40 come terapia che fa fronte alla sterilità ed infertilità di coppia. E' un intervento moralmente illecito.
D – Quali proposte allora emergono dalla bioetica, altre questioni di consapevolezza?
R – Bisognerebbe proporre riflessioni, uno stile educativo che porti a riflettere per recuperare il significato del vedere l'uomo in tutta la sua complessità, biologica e spirituale, per abbracciare la vita, dall'inizio alla fine, con intelligenza e con amore, pur non tralasciando ogni aspetto medico-scientifico. Si tratta di promuovere incontri nelle scuole, dibattiti, volti al dialogo, sollecitare riflessioni, proporre interpretazioni sul senso della vita. La nascita non è considerato un evento naturale quando ci si affida alla tecnica; la morte spesso oscilla tra eutanasia ed accanimento terapeutico nell'ottica della perenne salute; non si dà alcun valore salvifico alla sofferenza. Anche la clonazione è intervento tecnico che non rispetta l'unicità e l'irrepetibilità di ciascuna persona. Ecco, sono temi, sono problemi. Bisogna discuterne.
di Pasquale Tucciariello
|
Inoltriamo il comunicato della Segreteria di Stato Vaticana del 4 Ottobre 2008. Repetita iuvant.
“C’è bisogno di un nuovo impegno politico e sociale dei cattolici: necessario un coordinamento permanente dei movimenti, delle associazioni e dei gruppi di ispirazione cattolica”
a cura di Pasquale Tucciariello - 23-11-2010
“Le associazioni, i movimenti e i gruppi di ispirazione cattolica, nonché tutte le componenti della società devono impegnarsi, con rispetto reciproco, a conseguire nella comunità quel vero bene dell’uomo di cui i cuori e le menti, nutriti da venti secoli di cultura impregnata di cristianesimo, sono ben consapevoli.
“L’attuale contingenza politica, anche alla luce delle indicazioni di Benedetto XVI, deve poter riscoprire la presenza della testimonianza cristiana attraverso un rinnovato impegno e prassi ispirata ai principi inalienabili della dignità della persona, del rispetto della vita, in tutto l’arco dell’esistenza e dei più deboli ed emarginati della società. C’è insomma bisogno di uomini nuovi per un nuovo impegno politico e sociale nella prospettiva del bene comune.
“In tale difficile compito un prezioso “vivaio” è costituito dai molti appartenenti ad associazioni, movimenti e gruppi di ispirazione cattolica. Essi, però, stanno da tempo peccando di una sorta di narcisismo comportamentale, di chiusura, di isolamento operativo che tende al protagonismo scandito dalla gara per la visibilità. Atteggiamenti questi che tradiscono la dimensione ecclesiale delle associazioni, dei movimenti e dei gruppi. Tale ecclesialità deve tendenzialmente manifestarsi con la difesa della Chiesa offesa giornalmente dalla tracotanza laicista dei negatori palesi ed occulti della Verità sull’uomo. Occorre allora riscoprire proprio quella “ecclesialità” che sembra affievolirsi in questo contesto politico-sociale.
“Crediamo nella necessità di uno strumento che non sia soltanto nominale ma efficacemente operativo. Ci si riferisce ad un coordinamento permanente delle associazioni, dei movimenti e dei gruppi. Tale coordinamento dovrebbe avere il compito di rinsaldare i vincoli di fratellanza, di operare da ponte di comunicazione tra i soggetti ecclesiali, di favorire una prassi comune nella dimensione politica e sociale.
Più che mai è urgente un impegno visibile del laicato cattolico nella realtà politica e sociale anche nella dimensione di controllo nel rispetto dei diritti. E ciò attraverso la pubblica denuncia delle omissioni, delle manipolazioni e delle contraffazioni specialmente sul terreno dei diritti negati o concessi subdolamente come elargizione dall’alto. Più che mai oggi si assiste ad una sistematica manipolazione del diritto anche nelle sedi istituzionali più alte e rappresentative. Se il laicato cattolico non opera più visibilmente sul terreno dei diritti umani non può dirsi tale, cioè cattolico. Se usa la politica e patteggia con essa rinunciando al suo diritto di critica e di controllo tradisce “l’in sé” del suo essere nella Chiesa e nel consorzio umano.
“Tra le istituzioni laicali della Santa Sede il “Nuovo consiglio superiore delle arti e dell’artigianato” può assolvere a tale compito in quanto soggetto giuridico internazionale che si inquadra ed opera, nell’alveo dei Patti Lateranensi tra Santa Sede e Stato Italiano.
“Il compito che si appresta ad onorare certo comporta non poche difficoltà anche per la ben nota gelosia di autonomia delle associazioni, dei movimenti e dei gruppi, i quali rifuggono da ogni tipo di mediazione ed intermediazione. Il coordinamento non intacca le rispettive ispirazioni spirituali e finalità istituzionali; anzi, se attuato su tematiche ed emergenze specifiche, esalta i carismi di ognuno, riportando le pluralità dell’unità. Diversità dei carismi nell’unità della missione”. Questo il testo della Santa Sede.
Il Centro Studi Leone XIII è disponibile per una azione comune a sostegno delle associazioni, dei movimenti e dei gruppi di ispirazione cattolica per dare risposte positive e concrete alle necessità avvertite e più volte proclamate dalla Santa Sede che tutti amiamo nel nome della Chiesa di Cristo quale Madre comune.
di Pasquale Tucciariello
|
C’è un alunno - mettiamo – di Liceo che agli esami di Stato arriva a 100 ma ha meriti culturali poco convincenti ad ottenere questo voto ottimale. Ce n’è un altro, dalle riconosciute capacità, che invece deve combattere per arrivare al 90. Questi due casi, qualora si verificassero, come definirli se non si trattasse di una errata valutazione orientata, diciamo così, semplicemente da buona fede? Il prodotto di una pratica truffaldina. Sei dipendente di una amministrazione che ti paga affinché tu faccia correttamente il tuo lavoro mentre invece utilizzi l’Ufficio per scopi personali e di comodo. E’ una truffa. Qui non si tratta di esercizi di logica applicata. Qui siamo ai fondamentali, alle strutture, ai primordi della costruzione dello stato moderno quando si teorizzava una carta – la Costituzione - che definisse i diritti e i doveri, ossia il passaggio, tra la fine del 1700 e i primi decenni del 1800, dell’uomo dallo stato di sudditanza a quello di cittadinanza.
Ma sì che la raccomandazione è una pratica in uso fin dalle civiltà greco-romane. Uno schiavo passava liberto, liberatus, anche se poi rimaneva soggetto ad obblighi di fedeltà, perché così aveva deciso il patronus, e il liberatus diventava cliens del patronus e il patronus proteggeva il cliens anche affrancandolo da oneri vari, come i lavori non graditi, per assegnargli compiti meglio remunerati non dallo Stato ma esclusivamente dalle condizioni di capacità personali.
Nell’italietta della raccomandazione tu puoi entrare – mettiamo – ausiliario sociosanitario, un lavoro anche dignitoso perché ti consente di vivere onestamente e subito, anche senza averlo mai svolto un solo giorno che sia uno, passi dietro una scrivania dove si scrive e diventi qualcuno perché quel lavoro dignitoso tu non ci stai a farlo e ne preferisci uno forse di grado superiore al servizio del patronus ma finalmente diventi qualcuno perché hai accettato di vivere la condizione del cliens sub patronus che se ti annulla per dignità ne guadagni perché sei uno che i fatti propri se li sa vedere e ora finalmente puoi comandare anche tu e schiatti in corpo chi avesse invidia.
Ma da cliens? E che te frega! E’ il danaro ciò che conta.
La dignità? Roba d’altri tempi.
A parte il discorso sulla dignità, il decoro, l’onestà e altra mercanzia di questo genere che non sono le condizioni sulle quali si reggono la società meridionale e quella lucana, c’è da dire che il clientelismo, quale fattore per la conservazione del potere, poggia sulle società in ritardo culturale ed economico ove meglio si alimenta perché un sistema di povertà assai diffuso materializza la necessità di trovarsi un protettore. Dove? Nella politica, ovviamente, dispensatrice dei grandi favoritismi e degli stipendi da 100 mila in su, non potendolo trovare nell’economia (regione arretrata), nella cultura (litterae non dant panem), nella religione (il cristianesimo predica il valore della povertà). Nelle società più ricche, il clientelismo non sembra risultare una pratica condivisa. Non lo è per i politici, perché essi non ottengono il consenso dalle pratiche clientelari ma dalla capacità di soluzione dei problemi generali. Le società più ricche guardano all’efficacia, all’efficienza, ai tempi della risposta, alle pratiche immediatamente evase, ai quartieri puliti e ordinati, alla disciplina del traffico. Le società più avanzate vanno alla ricerca del dipendente che pensa, che abbia una testa ben fatta e la capacità di riflettere sullo stato dei saperi e sulle sfide che caratterizzano la nostra epoca. E’ questione di capacità di riflettere e di rispondere alle sfide in tempi immediati. Lentezza e incapacità producono noia, abbandono, povertà, clientelismo. E il clientelismo è condizione per la conservazione del potere. Mantenere il cittadino meridionale e lucano in uno stato di sudditanza è l’unica risposta possibile alla debolezza dei partiti, alla crisi delle ideologie, alla povertà congenita. In Sicilia era sorta la mafia, in Calabria la ‘ndrangheta, in Puglia la sacra corona unita, in Campania la camorra. E la Basilicata, isola felice? Tranquilli, anche noi abbiamo qualcosa: il clientelismo.
Il clientelismo diventa dunque risposta, alternativa, una sorta di ammortizzatore sociale, di tampone, di male minore condiviso. Ma il clientelismo bisogna anche saperlo fare. Ci vuole tempo. Tempo per adottare provvedimenti blindati e spesso inattaccabili giuridicamente, ma sottratto allo studio del territorio e alle soluzioni da adottare.
Per fare clientelismo non occorre “una testa ben fatta” come scrive Edgar Morin nel suo omonimo saggio.
Continuare su questa strada si può. Ma i danni si conteranno nei prossimi dieci anni. Proprio come noi oggi contiamo i danni prodotti nel decennio 2000/2009: incapacità di impegnare forti somme di denaro proveniente dall’Europa. Non perché si è stupidi, ma solo perché si pensa ad altro. Al clientelismo.
di Pasquale Tucciariello
|
Pubblicato su La Nuova Basilicata - Il Giornale di Rionero| 08-07-2010
Caro Presidente, l’antica comune appartenenza alla Dc prima e al Ppi poi informano ora sul carattere amichevole e confidenziale della presente lettera e mi dispone verso una riflessione aperta, capace anche di memoria, di ricordo, di testimonianza ad un progetto impegnativo, centrale, sicuramente non secondario nei gradi dell’esistenza.
L’informazione del Ministro delle Finanze Giulio Tremonti secondo la quale le regioni del Sud spendono meno del dieci per cento delle somme rese disponibili dai fondi europei va letta nei termini più esatti: una informazione e una sollecitazione. E non si può certo rispondere che egli voglia usare questi argomenti quali diversivo dalle attività di governo nazionale. Quelle si vedranno in altra sede e in altri tempi. Ora si ragioni sulle sue informazioni. Risponde al vero o no che anche la Basilicata non ha realizzato progetti tali da poter impegnare consistenti somme di denaro pubblico per operazioni di crescita, di sviluppo, di occupazione seria, duratura, produttiva, non certamente quella – è solo un esempio – delle giornate di, chiamiamole così, “lavoro forestale” di braccianti buoni solo a scopo di salario e a scopo elettorale per i potenti della regione ma non certo braccianti per riforestazione o di manovalanza per opere di ingegneria applicata alla montagna lucana a salvaguardia dell’ambiente, delle sue indiscutibili ricchezze e dell’uomo che vi abita!
Le nostre informazioni dicono che in questa nostra regione pianificazioni e progettazioni vanno molto a rilento. Una classe politica seria si domanda sulle ragioni delle lentezze e dei ritardi e non certo rimandando al mittente accuse che tra l’altro si rivelano, purtroppo per noi, vere. E preciso ovviamente che Tremonti non ha bisogno di essere sostenuto dalla mia povera penna. Sono rimasto il democristiano dei movimenti più che degli apparati dei partiti. Già, caro amico, perché sono gli apparati, come tu sai, la risorsa determinante per la conservazione del potere. L’apparato è il tutto, fatto di uomini e di cose, di postazioni e di osservazioni. E’ la garanzia. In un tempo medievale si chiamavano “missi dominici”, in quello barocco “intendenti”, con Napoleone “prefetti”, oggi “soggetti di postazioni” (o vogliamo chiamarli burattini nelle mani di più alti burattinai quasi – ma solo quasi - al pari di come Hegel intendeva la Storia fatta dallo Spirito più che dai grandi condottieri che invece erano veggenti o profeti). Caro presidente, i tuoi studi simili ai miei ti informano correttamente sui significati dei termini qui in uso. Faccio ricorso ad essi per dire che missi o intendenti obbedivano e riferivano, erano la lunga mano, erano il potere centrale allungato nelle periferie. Null’altro. E mi domando quale significato attribuire a chi si dispone ad essere l’intendente rispetto a chi invece è chiamato, per responsabilità di ufficio, ad elaborare strategie in grado di rispondere a programmi e progetti atti a migliorare i settori della pubblica amministrazione! Ma come si possono impegnare produttivamente importanti risorse economiche europee in presenza di una burocrazia asfissiante fatta di lentezze, impossibilitata, perché ha ben altro da fare, ad osservare il territorio, documentarlo, ridurlo a numeri parlanti per significato e per interpretazione, proporre strategie, abbozzare progetti, voglio dire riflettere sulle ragioni di tanta incapacità di gestione e di sentirsi responsabili di fallimenti clamorosi in tema di lavoro, di occupazione, di cose fatte bene in una regione definita dai numeri scarsamente abitata, popolazione residente in caduta libera, docenti rimasti senza alunni perché i giovani non pensano né a me né a te, andavano via e continuano ad andar via perché come te e come me non vedono spiragli di luce in una regione che pure dovrebbe essere illuminata a giorno per le risorse enormi del nostro territorio quali ambiente, acqua e giacimenti di petrolio!
E’ esageratamente distante la visione del mondo e della società che si riconosce nello Stato, o nella Nazione, da una società che ha la pretesa di riconoscersi in società comunitaria. Pensiamo solo per un attimo ai valori della comunità di appartenenza, ai legami, all’identità non di individui ma di persone che si ri-conoscono, vivono e sostengono virtù etiche perché radicate nell’éthos, nel costume, tali da informare pratiche di comportamento fondate su valori comuni e tramandati e rinnovati e storicamente resi vitali per noi dal recente intervento del Santo Padre che tutti chiama alla memoria, al ricordo, alla responsabilità. Chi opta per la concezione di Stato e dei suoi individui non riesce a capire chi invece pensa all’altro come persona.
La società lucana soffre di mal di politica. Te lo dice uno che non la fa più da parecchio tempo. O meglio non fa la politica come la intendono quei lupi famelici avidi di potere che piombano – metti – anche negli ospedali come il Crob-Irccs di Rionero per dimostrare di esserci ancora attraverso magari una “posizione organizzativa” in più od inventarsi stravaganti esclusioni ai danni di chi quei ruoli li assolve da un decennio senza aver mai preteso riconoscimenti di natura economica. Anche a trascurabili cose minime si aggrappano, buone a soddisfare qualche appetito, ma indicative dello stato di degrado in cui versa l’amministrazione regionale. Ma i nostri studenti, tirate le somme, lasciano e vanno via. Quale squallore. E che disgusto. Cialtronerie passeggere, ovviamente, buone solo per un’occhiataccia come si fa quando si danno frattaglie ai cani. Niente di più. Perciò conviene fare spallucce, andare oltre, verso la strada indicata dalla storia che ciascuno di noi si cuce addosso. La tua, presidente, torni ad essere quella che un tempo lontano ti riconoscevo. Una storia di un cristiano, che decide di far politica come impegno primario, per l’affermazione della storia che ti sei cucito addosso. In questa storia c’è posto primariamente per l’osservazione del mondo, la sua interpretazione, l’ipotesi di lavoro e deduttivamente il lavoro da fare, anche per tentativi, per correzioni. Ma non c’è posto per gli sciacalli in questa storia. Quelli, al massimo ed in via assolutamente eccezionale, possono solo essere usati per un’astuzia del momento. E’ solo piccola storia spicciola spicciola. Ma la grande storia va avanti. E’ irreversibile. E’ il vestito che ciascuno di noi ha deciso di cucirsi addosso. Tu, nel tuo partito e nel ruolo primario che ricopri, interpreta e realizza i doveri imposti dalla tua condizione. Ciao, presidente. E buon lavoro.