Angela de nicola
“L’ASSURDO” DI UNA PAROLA-MUSICA: SAMUEL BECKETT
di Angela de Nicola
Non è facile parlare di Samuel Beckett. Non è facile affermare che chi scrive lotta. Tremendamente. Beckett. Scrittore, drammaturgo, poeta, regista televisivo e radiofonico. Le molteplici sfaccettature di un personaggio, il quale prima che autore è stato anzitutto comunicatore e più che scrittore, sofferente artigiano, manovale della parola. Beckett, che in una delle più famose allocuzioni critiche è stato definito “il meno letto degli autori più noti e il più noto tra gli autori meno letti”. Ma soprattutto Beckett martire assoluto della parola in un disegno artistico sulla cui consapevolezza di non compiuto, di non finito, di non detto, di quasi assoluta rinuncia al dire, è rimasto convinto sostenitore per tutta la vita.
Quel Nobel per la letteratura giunto nel 1969 non fu un caso bensì una conferma, un’asserzione assoluta da parte di tutto il mondo culturale che finalmente riconosceva - suffragandolo universalmente - chi era e cosa avrebbe potuto fare davvero uno scrittore postmoderno, postatomico, post-avanguardista, un artista insomma a stretto contatto lungo tutta la vita con il concetto più puro, più assoluto, più destrutturato e più decontestualizzato di ARTE. La disperazione di un Michelangelo attorno ad una Pietà o ad un Mosè (l’atto supremo del “levare” con fatica una sembianza umana già vista perfettamente nell’informe pietra) l’attimo estremo di luce che proviene dal taglio violento operato sulla tela nuda di un Lucio Fontana, le astrazioni geometriche di puro spazio e di puro colore di un Ellsworth Kelly, le strutture minimaliste e concettualistiche di un LeWitt o - per restare in tema - l’epica lotta di un Flaubert a ripulire, limare e rifinire la pagina e, ancora, la scoperta del potere deflagrante di una “parola nuova” perché ripronunciata e riposizionata in un contesto “diverso” da parte di un Arthur Rimbaud, così come anche la programmatica “novità del non detto o poco detto” operata dal Nouveau Roman francese negli anni cinquanta … sono questi alcuni paragoni a mio avviso imprescindibili ed essenziali per capire il mondo artistico di un tale gigante della scrittura anglo-franco-irlandese.
Eppure Beckett è e non è tutto questo. Come ogni genio che si rispetti, Beckett resta una monade, un universo a sé, un intoccabile, un isolato. Certo, “Aspettando Godot”. Come si potrebbe non chiamare in causa il suo capolavoro, una pièce teatrale tradotta in quasi tutte le lingue del mondo e che ancora oggi registra il tutto esaurito nei teatri. Ma gli si farebbe un torto. Perché Beckett non è Godot e Godot è solo la punta dell’iceberg, solo la tessera - non la prima e neanche l’ultima - di un puzzle sistematicamente complicato eppure fortemente affascinante. Beckett non ha fondato nessuna scuola di pensiero, eppure ha lasciato al mondo della scrittura e dell’arte in genere un’abbondante quanto iperbolica eredità. Egli è stato uno dei pochi, se non il solo, ad aver avuto il coraggio di mettere sotto processo il concetto stesso di arte ed in particolare l’ontologia stessa della PAROLA, la quale, privata di senso, porterebbe comunque - all’interno delle sue opere- UN SENSO fino all’ultima sillaba, in modo tale che dopo di lui l’unica vera domanda che ci si è potuti porre è stata: “che cos’è davvero la parola?” o se vogliamo: “cos’è veramente scrivere, fare arte?”. In altre parole, Beckett ha operato un terremoto così forte nella letteratura europea del dopoguerra che dopo di lui la sola cosa che abbiamo potuto fare è stato ricostruire e ricominciare. Ricominciare a narrare, a dire, ad inventare una storia e una trama che non c’erano più, che erano scomparse, che si erano sciolte, liquefatte … ricominciare qualcosa, qualsiasi cosa, purché nuovamente associabile ad un “frame”, ad una trama, ad un “discorso” decorrente tra locutore ed ascoltatore.
“Molloy”, “Malone Dies”, “Worstward Ho!”, “All strange away”, “Company”, non sono romanzi ma sintesi, stimolanti approcci minimalisti, pagine deformate, accennate, ristrette, monconi di storie, canovacci o altrimenti detto “spazi di narrato” che si aprono al lettore come per dire “io ho scritto LEVANDO con fatica la parola dalla pagina, ma tu che leggi hai il compito di applicare la tua mente per capire ciò che io non ho detto tra le righe, riempiendo dei tuoi spazi significanti l’infinito spazio che sempre la parola lascerà alla pagina vuota e che mai essa sarà in grado di riempire”. Concetto senza dubbio ostico e di non facile approccio. E certamente accingersi ad una di queste letture non è compiere una passeggiata letteraria. Eppure il richiamo al nulla della pagina da riempire e che mai si riempirà o l’anelito allo “stage vuoto” che ammalia in quanto tale (non solo guardando “Godot” ma anche altre pièces teatrali come “Finale di partita”, “Non io”, “Atto senza parole”, “L’ultimo nastro di Krapp”) creano nel lettore e nell’estimatore di Beckett una sorta di miracolo: il miracolo della coautorialità. In altre parole, ciò che Beckett ha compiuto percorrendo la strada sterrata del “narratricidio letterario” altro non è se non una sorta di invito per il lettore a non restare passivo ma a collaborare nettamente nella “creazione mentale” della pagina.
Ma tutto questo passando necessariamente per la via obbligatoria di una domanda, la domanda per eccellenza: “cos’è un romanzo?”, “cos’è scrivere?”, “che cos’è la scrittura se la parola nella sua duttilità arriva ormai a farsi spogliare e privare di ogni senso al punto di lasciarsi morire?”. E ancora: “chi uccide la pagina è ancora uno scrittore? può ancora definirsi tale?”. Uccidere la parola, ridurla a moncone di suono ancorchè significante (non come gli avanguardisti che programmaticamente privavano di significato quasi tutte le loro opere) è un atto dolorosissimo che apporta isolamento ed incomprensione, tanto più se uno scrittore come Beckett si ritrova a vivere un bivio linguistico che lo porta a produrre in entrambe le lingue o - quel che è peggio - ad autotradursi dall’inglese al francese e viceversa. E allora ci si chiede come mai un autore che si autoannulla come tale, annullando a sua volta libro e palcoscenico, come mai Beckett, l’autore del silenzio, del vuoto ,del nulla, dell’”échec”, è stato alla fine tanto amato, coccolato dalla critica ed insignito di premi? La risposta è semplice. Chi meno dice, dice tutto. Perché Beckett pur negando tutto riafferma tutto, pur dichiarando fallimento non fallisce. Ed è proprio nel far sparire storie che egli continua a narrare più di tutti; è proprio nell’uccidere la parola che egli la fa rinascere come nuova e mai detta; è proprio nel destrutturare che egli ristruttura. E’ proprio nel far silenzio, insomma, che Beckett parla più di ogni altro autore. Non è stato facile capire, comprendere, rendersi consapevoli del titanico lavoro di un tale genio della scrittura capace di sovvertire regole e prospettive del narrare in un percorso artistico-biografico strettamente personale e non di scuola o di gruppo letterario.
“L’uomo dell’Assurdo”, senza pace concettuale, né letteraria, né linguistica, né ontologica, l’uomo dell’afasia, della mancanza di parola che come testamento letterario ci lascia uno scritto dal titolo “Come dire” (“What is the word” / “Comment dire”) non può che a mio avviso trasformarsi da scrittore a puro, decentrato - e se vogliamo umile - “indicatore della scrittura”, un silenzioso metronomo che batte il “tempo della parola” in storie che si sciolgono dentro qualcosa che somiglia ad un’assoluta partitura. Partitura appunto. Quasi a lasciare posto ad una “musica o musicalità del dire” che si schiude al nostro occhio e al nostro orecchio nella misura in cui il dire stesso getta la spugna a favore di un linguaggio nuovo che è speranza di trovare un nuovo medium comunicativo, speranza di un nuovo “esperanto” del linguaggio. Parola-partitura, parola-musica. Luogo cioè dove la lettera che pare scritta per la prima volta, la frase che appare pronunciata per la prima volta e la storia scritta “così come è”, altro non sono se non lampi di luce, visioni, freschezze, sensazioni, scoperte, per chi legge e per chi ode. E’ vero: Beckett ha firmato (a suo stesso dire) un mare di “capitolazioni letterarie”, ma è proprio facendo questo che ha avvicinato la scrittura alla musica in un amalgama fra parola e non parola, fra compiuto ed incompiuto, fra disordine e chiarezza, fra rumore e silenzio, fra umano ed indicibile, mostrandoci forse paradossalmente - e proprio da ateo - il punto più estremo dove il genio umano può arrivare per poi lasciare il resto della propria arte ad un volere proveniente direttamente dal divino.