NEL CORTILE DELLA MUSICA: "JAZZ E DINTORNI"
di Angela De Nicola
“L’ODORE DEI SUONI”
ULTIME IMPRONTE SONORE DI UN’ANTICA “ LUCANITA’ ”.
PICCOLI APPUNTI DI ETNOMUSICOLOGIA LUCANA
di Angela de Nicola
Musica e territorio: un binomio da sempre di gran fascino ed effetto, un difficile spazio polisemico solo parzialmente esplorato, un invito alla scoperta, un richiamo che in pochi studiosi hanno saputo cogliere. Cosa significa nello specifico e cosa ci suggerisce la non semplice definizione di “territorialità musicale”? Cosa può raccontarci un territorio regionale o un ambito geografico locale, sulla propria “identità musicale”? Fin dagli esordi della sua storia, nel lontano 1982, l’Università degli Studi della Basilicata, nelle vesti istituzionali di Garante e Formatrice dell’istruzione ufficiale a carattere nazionale, ha voluto rivestire un ruolo di fondamentale importanza nella risoluzione accademica di tali interrogativi, tanto che, prendendo a cuore ed affrontando questo complesso e multiforme ambito culturale, istituisce uno specifico Dipartimento di Scienze Antropologiche (conglomerato oggi nel Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo) ed un Archivio di Studi Demo – Etno - Antropologici (collegato ad una collana di riviste specializzate) in grado non solo di affrontare domande e di dare risposte a quella serie di interrogativi che già si diramavano da questioni territoriali di tale natura, ma capace altresì di affrontare l’urgente e non facile problema della conservazione / catalogazione della cosiddetta “Tradizione Orale”, all’interno della quale la cultura musicale lucana occupa tutt’oggi un peso ed un’importanza non indifferenti.
La nostra regione, per definizione uno dei territori più affascinanti e ricchi di materiale per lo studio antropologico ed etnomusicale, è stata fin dagli anni cinquanta luogo privilegiato di quella particolare esplorazione antropologica che ha fatto capo a ricercatori del calibro non solo di Friedrich G. Friedmann che si occupò dei Sassi di Matera, ma altresì di studiosi come Ernesto De Martino, Diego Carpitelli e Franco Pinna, i quali, con le loro leggendarie “spedizioni” (1952 e 1954) alla ricerca di quei suoni arcaici sia vocali che strumentali altrimenti in via di estinzione, non solo hanno dato l’avvio a quella fortunata serie di studi etnomusicali che continuano tutt’oggi nel Meridione d’Italia, ma hanno altresì contribuito a creare un primo insostituibile e sperimentale “nucleo documentativo” sulla cui preziosità resta ancora molto da calibrare e sulla cui importanza ci sarà da dire ancora per lungo tempo. E sarà sulla base di queste preziose fonti che il Dipartimento di Studi Demo – Etno - Antropologici dell’Università di Basilicata, istituendo gli specifici insegnamenti di Etnomusicologia, fornirà quegli esimi contributi ad opera di professori come Pietro Sassu e Nicola Scaldaferri, i quali, attraverso l’osservazione sul campo e la successiva documentazione sonora e descrittiva (numerose le pubblicazioni specifiche del prof. Scaldaferri che continuano ancora oggi, se pure non più in sede lucana) non solo hanno contribuito ad allargare generosamente quell’antico e via via crescente nucleo documentativo regionale, ma hanno finito altresì per indicare alcuni “luoghi chiave” o “luoghi simbolo” della nostra regione ove questi stessi aspetti risultassero decisamente più radicati: nello specifico, la zona del Parco Nazionale del Pollino e quella della Val Sarmento, in cui risiedono i manufatti sonori maggiormente simbolici e puramente più arcaici del nostro ecosistema musicale, manufatti che vanno sotto il nome specifico di “Zampogna Lucana a Paro” cui fa da “pendent” la forse meno famosa ma altrettanto interessante “Surdulina della Val Sarmento”.
Naturalmente, inutile negarlo, se da un lato fonti, documenti e studi di settore prendono via via corpo ed interesse nel corso degli anni, si resta nello specifico pur di fronte ad una tradizione che poco per volta si va tristemente perdendo. Nonostante le varie Comunità Montane locali, le associazioni, i Folk Festivals, i cultori del genere e nonostante pubblicazioni e gruppi di studio specifici, se si toglie il fatto che le seconde generazioni a partire dai tempi della spedizione De Martino - Carpitelli restano le sole autentiche depositarie di un’arte e di una tradizione le quali proprio perché manifatturiero - orali non possono che essere tramandate se non attraverso il vincolo del legame di sangue o al massimo della passione acquisita, di un forte interesse e di un tentativo di emulazione che difficilmente prendono piede in una società sempre più foriera di tecnologie (e schiavizzata da esse) e ahimè anche segnata da un crescente spopolamento che mina l’esistenza stessa delle piccole comunità della nostra regione, allora possiamo concludere che: o questa tradizione dovrà in qualche modo essere disperatamente salvata e congelata attraverso “scuole di teorizzazione” di tale arte (scuole cioè che possano riprendere almeno in parte la prassi del canto e del suono sia eseguito che tecnicamente prodotto nello specifico della costruzione artigianale degli strumenti) oppure (scelta tanto opinabile quanto fuorviante) ci si deve arrendere alla mediocre eppure unica via di “conservazione” tutt’ora esistente (e fiorente) che è quella della cosiddetta “musica popolare”, la quale, proprio per la natura morfologico - strumentale (strumenti altri) con la quale essa si presenta al grosso pubblico e con la quale essa stessa si produce, resta per definizione totalmente “altra” da quello che in questo contesto sto cercando a grosse linee di illustrare.
In altri termini ancora - e detto molto profanamente - non si può in nessun modo comparare o avvicinare un repertorio di Surdulina di un Carmine o di un Giuseppe Salamone ad un qualsiasi gruppo folk di Basilicata. Pur con tutto il dovuto rispetto da parte di chi sta scrivendo e pur con tutta la buona volontà di chi questa stessa musica cerca di riproporre nell’ambito delle svariate manifestazioni culturali o feste di paese, parlare ad ampio spettro di “sintetizzatori o sintetizzazioni meccaniche” (strumenti a corda o a fiato o tastiere moderne) che pretendono di riprodurre più o meno fedelmente un repertorio sonoro nato da materiale manifatturiero di tipo assolutamente naturale (e parliamo di legno e pelli di capra conciate in primis) o da cultura musicale assolutamente “agrammatica” (chi suona nella maggior parte dei casi lo fa ad orecchio ed è reduce da una trasmissione che proprio perché orale possiede i suoi specifici caratteri di appropriazione ed apprendimento) significa non solo esulare da un territorio musicale che in sé ha quantomeno del “sacro”, ma è compiere, nello specifico, un assoluto “crimine musicale”, un autentico furto ai danni delle nostre più pure ed arcaiche tradizioni, allorquando tramandare è altro. Sì, perché tramandare è altro dal dire : “Io non so quindi rifaccio alla mia maniera”. E’ altro dal dire ai giovani: “Queste cose sono roba da vecchi, perciò modernizziamole, fa lo stesso.” Forse non ce ne siamo accorti, o forse abbiamo fatto finta di non accorgercene, ma abbiamo una nuova strada per il turismo in Basilicata e questa può essere senza alcun dubbio quella etnomusicale. Sì al vino, sì alla riscoperta dei borghi nascosti. Ma perché non inerpicarsi sulle montagne intorno a Terranova Del Pollino o sul maestoso Sirino per riscoprire quali sono gli ultimi costruttori / suonatori di Zampogne? Quanti ne sono rimasti? Quante istituzioni danno loro la dovuta attenzione? Dobbiamo avere la consapevolezza di essere davanti ad un tesoro in via di estinzione.
Un bel libro - saggio di Bruce Chatwin si intitola “Le vie dei canti”: ebbene, ci sarebbe da ripercorrerle queste vie. Si verrebbe a conoscenza anzitutto del primo sorprendente fatto che Zampogna e Surdulina non sono solo quei poetici e forse “un po’ melensi” strumenti da “pastorale” che l’immaginario popolare vede rispolverati solo a Natale, bensì pietre musicali (ancora per poco) vive che in comunità come quelle di San Paolo o San Costantino Albanese vengono sistematicamente usate in tutte le più importanti occasioni di aggregazione sociale (matrimoni, battesimi, fidanzamenti, feste religiose, pellegrinaggi etc …). Si scoprirebbe poi che le derivazioni storiche di tali strumenti sono più che nobili, perché direttamente provenienti in parte dal mondo greco-romano, ma in parte anche da quello balcanico per via della radice arberesh di queste comunità, le quali restano così del tutto uniche ed irripetibili. Si scoprirebbero, ancora, strumenti scomparsi come l’”Arpa di Viggiano” cui fa da glorioso corollario tutta una storia di emigrazione europea e americana, nonché di vagabondaggio musicale che ha ispirato libri, documentari, films, i cui ultimi esemplari sono certamente disponibili, se non in qualche museo italiano ed estero, almeno in più di una casa privata e di cui una delle più importanti ed ultime performances a cura del suonatore - costruttore Rocco Rossetti è stata documentata, insieme al suono della Zampogna a Paro e della Surdulina, proprio nella nostra Rionero in Vulture nel lontano Maggio 1987, in occasione di una rassegna riconosciuta poi di fondamentale importanza dai ricercatori, proprio perché in quella circostanza si ritrovarono insieme gli ultimi storici rappresentanti della tradizione musicale lucana, da Carmine e Giuseppe Salamone a Salvatore Antonio Lanza - (… e non sarebbe male tentare di riprodurre un evento simile proprio ad opera della nostra Amministrazione Comunale e di qualche Sopraintendenza ai Beni Culturali, pronte a riunire appunto le seconde generazioni di questi suonatori - costruttori …) Insomma, si scoprirebbe un mondo. Un mondo di suggestiva ed incontaminata bellezza, un mondo semplice ma sorprendentemente complesso, un mondo unico la cui preziosità risiede nell’avvenuto mantenimento della purezza e dell’arcaicità dei suoni e dei repertori, immediatamente percepibili e valutabili nella loro valenza, pienezza, ricchezza e perfezione anche dal meno esperto degli orecchi. Un mondo che sarebbe un vero peccato lasciare andare in frantumi, nel più ignobile dimenticatoio. Un mondo per la cui ultima possibilità di salvezza saremmo finanche agli sgoccioli. Un mondo di cui certamente andare fieri.