JAZZ
di Angela de Nicola |
“Sono cresciuto assieme al pianoforte, ne ho imparato il linguaggio mentre iniziavo a parlare”. (Intervista a Panorama, giugno 2011)
Luce e silenzio. Una fattoria dell’ottocento in un anonimo fitto bosco del New Jersey. Migliaia di volumi, una collezione di vecchi spartiti. E ancora, un’imprecisata quantità di vecchi orologi meccanici, alcuni di essi a pendolo. Un uomo è chino su uno Steinway, forse un grancoda. Sembra in preghiera. Attende, questo non è dato sapersi, l’inizio o la fine di un Dialogo. Appena fuori dalla fattoria, l’acqua di un fiume scorre velocissima. Una goccia sta per cadere dal cielo. E’ una goccia di suono. Pura, assoluta, divina. L’uomo l’attende, l’orecchio teso. La sua è una corsa lieve alla cattura, prima che la goccia, precipitando a tradimento sui tasti bianchi e neri, si dissolva in infinite molecole, negando la sua consistenza. In un’inaudita e forse spaventosa solitudine, ciò a cui sarebbe dato di assistere, altro non si chiamerebbe se non lotta: un combattimento di natura infondo impari tra la mente umana e la genesi del suono, il rincorrere senza fine quella Goccia che viene dal Cielo e che cade, atomo divino di musica, accecante bolla di sapone, ad accarezzare direttamente i poveri tasti ebano e avorio con dolcezza e furia, con impeto e con malinconia, segno diretto di quella Forza che muove l’intero universo. Keith Jarrett. Il pianoforte. Una storia, una vita. Lui, il compositore statunitense che più o meno in questi termini inaugurò il fenomeno del “Piano Jazz Solo”. Ad oggi uno dei maggiori compositori viventi.
Chiunque si ponga davanti all’intera storia umana e musicale di Jarrett o anche dinanzi ad una sola tra le sue immagini più emblematiche e riassuntive, non può negare almeno uno dei tre assiomi riguardanti la fenomenologia dello strumento da lui suonato e cioè che un pianoforte è rispettivamente Vita, Domanda, Sacrificio. L’intera esistenza di Keith Jarrett è trascorsa davanti ai tasti bianchi e neri. Ognuno ha le proprie ossessioni si potrebbe dire. Le sue sono state perdonate dall’intero mondo del Jazz. Enorme la sua produzione. Dita che hanno dialogato con bemolli e semicrome per stagioni intere. Il mood del suo jazz ha tracciato per almeno due generazioni più domande aperte che risposte chiuse: la natura e i suoi ritmi, le categorie dell’universo, le contraddizioni umane, la voglia di divino, il capriccio del suono così come esso è, sono tutte questioni che dal suo pianoforte partono diramate senza mai far ritorno in maniera decisa. Da qualche anno mi convinco sempre più del fatto che definire Keith Jarrett semplicemente “un jazzista” equivale a fare un torto assoluto alla sua personalità. Onestamente, si tratta di un’etichetta che rischia di andare di traverso fino a fuorviare buona parte del lavoro di questo enorme personaggio con tutto il suo cumulo di significato. Ma allora chi è veramente l’autore del Kolhn Concert? Una mente - miracolo? Un universo che qualcuno non si è fatto scrupoli a definire autistico? Un uomo non privato delle sue sofferenze? Uno che attraverso la musica ha saputo donare completamente se stesso all’altro, al pubblico? Non poco.
Alla maggior parte degli appassionati di Jazz è bastato il Kolhn Concert per consacrare la sua musica nell’Olimpo degli Dei. Un pianoforte ginnasta, flessibile, elastico, forse anche contorsionista, senza dubbio magico ed incantatore. Con Keith Jarrett, il Jazz diventa dubbio e materia di inganno, si pone domande, valica i confini della propria ideologia al punto di poter affermare che finalmente esso è il nonsenso dell’ultima nota, il rischio dell’ultima risorsa. Jazz è sparire, cancellare, rifare punto e a capo. Semmai Keith Jarrett catturasse un ascoltatore nelle maglie del proprio pianoforte, allora sarebbe la fine e questi sarebbe perduto. Facile, così come difficilissimo perdersi nei percorsi delle sue produzioni. Come rincorrere acqua di fiume. Come immaginarsi davvero quella Goccia che cade sul pianoforte, quella corsa all’impazzata fin dentro l’energia molecolare della Musica. Facile, difficile e forse anche rischioso, come gettare l’occhio dentro la corrente magmatica di un vulcano in piena eruzione.
Da assoluta ammiratrice della sua opera, non posso e non voglio utilizzare queste righe per dar sfogo ad opinioni e teorie azzardate circa la complicatissima genesi del suo mood. Non ne ho la competenza. Chi volesse farlo troverà, tanto in rete quanto all’interno della vasta letteratura a lui dedicata, tutto il repertorio (a volte utile, a volte un po’ meno) vertente l’analisi metodologica circa la sua tecnica dell’improvvisazione. Evito con piacere di tuffarmi in un’acrobatica vivisezione dei tempi, dei modi, dei luoghi e degli oggetti che si muovono entro gli avvenimenti pianistici di un tale prodigio vivente. Lascerò invece parlare il cuore, raccontando semplicemente quanto di bello e di miracoloso accade ascoltando la sua musica. Musica che nasce in una casa di vetro e legno immersa nel verde di un anonimo fitto bosco americano, musica che pretende l’isolamento dalla città così come da molti esseri umani e finanche dalla stessa parola, perché del suono si possa percepire l’eco più docile e pulito, la genesi per quanto più possibile primordiale, l’eco alla Vita stessa eppure - per chi suona - limitante quella stessa Vita.
Da lì i concerti in tutto il mondo, la mania di perfezione e gli eccessi dei suoi live, così come le sorprese dei suoi dischi, tanto diversi l’uno dall’altro quasi da non apparire suoi; lo schivare o il non tener conto alcuno né del pubblico e né degli applausi, né tantomeno del successo, la tecnica copiata da molti e carpita da nessuno, le registrazioni dei classici (da Bach a Handel) e ancora l’influenza fondamentale di Miles Davis con il quale tutto cominciò, per non dire infine della leggenda del pianoforte malfunzionante sui cui tasti, in una fredda sera di Gennaio del 1975, prese appunto vita il miracolo del concerto di Colonia. E allora cosa potrebbe e cosa dovrebbe fare un ascoltatore di fronte al trasudare di tanto genio? Credo poche, pochissime cose. E ancora meno analisi. Qui ci vorrebbe solo orecchio ma soprattutto molto, molto cuore. Sedersi da qualche parte e rimanere così semplicemente fulminati. Siamo gli spettatori privilegiati di un miracolo. Tutto il resto è come avvolto in una nube: perché è al cuore che spesso la genialità parla. Essa è come un lampo nella notte. Stupisce. E azzittisce. Non serve molto altro. E che se ne parli, che si provi a recensire o anche a farne detrazione, per quanto ciò possa provenire da menti senza dubbio preparatissime, è - a mio umile parere - cosa di poco conto, dovendo la critica dare all’ascoltatore nient’altro che un mero aiuto tecnico all’ascolto, alla conoscenza e all’approfondimento. L’eredità che Keith Jarrett sta provando a lasciare al mondo della musica - non solo quella Jazz - è talmente enorme che ancora non ne siamo pienamente consapevoli. Ci vorrà qualche decennio per digerire il tutto. Ma ciò che intanto il pubblico può cominciare a fare è maneggiare questo “tutto” con una cura affettuosa e rispettosa, rispettosa delle fatiche fisiche e mentali che sporgono da dietro quei tasti, cura rispettosa del carattere non sempre facile o malleabile che spesso si cela dietro ai grandi artisti, cura rispettosa del fuoco sacro che proviene dallo sforzo del catturare musica in presa diretta davanti ad un pubblico, cura rispettosa - perché no - di crisi, di stanchezze, di nevrosi, di ripensamenti, di rinascite. Un pubblico rispettoso, detto ancora in altri termini, della storia di un uomo. Che in definitiva è la storia dell’Uomo in Dialogo con una delle forme più affascinanti del Divino, la Musica appunto. Storia umanissima che si pone dietro altre storie, tutte in coda verso l’Infinito, nel tentativo di amare comunicando, di comunicare amando, di dar voce senza parlare, sfiorando il Silenzio.
Lezioni di piano. E lo si può ben dire. Lezioni leggerissime, delicatissime, lezioni che non impongono nulla se non la loro dirompente e forse imbarazzante Verità, lezioni che rischiano di mettere in sincero ridicolo ogni altro linguaggio, umili lezioni che segnalano impotenze e debolezze umane a non saper definire CHI e CHE COSA, timidissime lezioni che ogni volta paiono scommettere sulla forza di gravità del mondo e delle anime. Note. Nient’altro. Eppure esplosioni immense. Impensate. Scoperte mozzafiato. E’ questo ciò che riesce, chissà perché, a nutrire in maniera incredibile vite intere. Quelle di chi ascolta così come quelle di chi compone. Note. Nient’altro, sì. Così spoglie di tutto. Così piene del solo profumo divino. Che sprofondano affannate, che lottano con la forza del piede battente in nervosa ricerca sul pavimento (come si può chiaramente sentire nella registrazione di Colonia). Note che muoiono. Che riemergono freschissime e come mai udite prima. Che insegnano a rinascere ogni volta. Sussurri discreti che gridano quanto sia grande il Tutto che ci circonda. Si dice che Marcel Proust nutrisse una sana invidia per i musicisti, ritenuti da lui portatori di un’intelligenza superiore e completa. Credo non avesse tutti i torti. Avrebbe certamente amato Keith Jarrett. Le Parole hanno grossi limiti, si sa. Si fermano sempre a ridosso di un cieco burrone. A salvarle ci pensa spesso la Musica, con un paio d’ali. L’unico linguaggio capace di circoscrivere davvero il Silenzio e perciò l’Infinito, il Divino. E anche a me ora è dato di tacere con queste povere parole che hanno cercato di dire in definitiva non so cosa. Cala il mio sipario. Se ne apre un altro, ed è una tenda rossa: signore e signori, ecco a voi Keith Jarrett.