Scrivono di Lui
IL VULTURE IMPRESSIONISTICO DI PASQUALE TUCCIARIELLO
di Angela De Nicola
Ho letto tutto d’un fiato i “Racconti del Vulture” di Pasquale Tucciariello. Sono racconti che si lasciano leggere con piacere, come del resto l’intero blog, un quadro armoniosamente assemblato dal quale emergono, ben disposti, gli svariati colori di una multiforme e ultradecennale attività culturale, professionale e artistica. Pasquale è un caro amico, una di quelle persone che quando lo incontri ti lascia sempre qualcosa e col quale si chiacchiera sempre con interesse e piacere. La sua umanità ha sempre valicato i confini della penna così da far trasparire con assoluta nettezza quella non comune coerenza tra ciò che si scrive e ciò che si è. Perchè la cultura è prima di tutto coerenza. Da umile lettrice e da rionerese non posso che esprimere tutta la mia gratitudine verso un insieme di pagine che mi hanno lasciato saggiamente intravedere due matrici: la prima, proveniente dal bisogno di “essere e raccontare storie”, la seconda che sembra superare, -con slancio emozionale e tocchi di penna vivacemente ritrattistici- quelle storie stesse. Il nostro territorio è stato da decenni oggetto di acuta osservazione da parte di Tucciariello; un Vulture che è sud e che in quanto tale ha saputo da sempre regalare le ricchezze di una sapienza antica, ricca di sfumature talvolta anche difficili da decifrare, quelle che solo l’amore e il gusto per le proprie radici possono far esplorare, ricercare ed interpretare con puntualità ed acrimonia. Ma ancor prima di tutto questo, credo che nelle svariate scene che popolano i “Racconti del Vulture” ci sia anzitutto la grande e nient’affatto semplice capacità di “affascinare” il lettore, di catturarlo in una generosa trafila di situazioni e di immagini che pongono tra l’occhio e la storia “così com’era” un velo di colore, il quale oltre a ravvivare ”ciò che era” spesso ha la capacità di farlo tornare a splendere con assoluta pienezza. E così da lettori attenti può capitare di respirare aria di neve su piazza Fortunato -uno scenario che ora si ritrova solo su vecchie foto o cartoline- spinti quasi fisicamente da un “vento di calitrano” che fa saltare in aria i cappelli o che si infila tra giacche e pantaloni; oppure può capitare di ascoltare il dialogo tutto colorito e quasi filmico tra un Peppotto e un Mastro Ciuffetta il barbiere, rappresentante di una situazione culturale oggi superata dai nuovi mezzi di comunicazione - quella del vecchio salone da “barba e capelli a prezzo fisso” - dove la barba era quasi un pretesto per l’incontro tra amici e dove lo scambio di opinioni avveniva con l’onestà di chi si guarda in faccia e dopo si rispetta ”più e meglio di prima”; o ancora può capitare di ripercorrere con i piedi di un bambino la salita che dal cimitero porta al monte Vulture, la montagna-madre che nel suo ventre di terra e mistero da sempre è pronta ad accogliere, ad ispirare, a dare calma e pace ma che al tempo stesso non nasconde il suo volto minaccioso, quasi del tutto identico alla carica di un terremoto o di una bufera improvvisa. Vero “trait-d’union”,assoluto e silente protagonista, il Vulture sembra quasi umanizzato prima ancora che trasfigurato fra visione pittorica e realtà “terra terra” (nel senso letterale del termine). La montagna veglia, dorme, ascolta e parla. E un personaggio come Vincenzuccio riesce ad avere un rapporto del tutto particolare con essa, un rapporto quasi viscerale, da sesto senso, risultato di una cultura ormai estinta che addirittura sembra non essere mediata dalla volontà e che ci riporta a contemplare la terra e l’uomo con i loro umori, i loro respiri, i loro sapori, i loro presentimenti, un’intelligenza oserei dire “osmotica” la quale sembra andare a concorrere o a sovrapporsi al sapere “canonico”, a quello che si apprende dai libri. E alla fine, perchè no, ecco che da quella stessa terra può capitare di vedere sorgere e tramontare - in un gioco tra continue apparizioni e sparizioni - un sogno, una figura onirica, un fantasma gentile a cavallo tra pura invenzione e umana realtà, una silhouette esile ma al tempo stesso gigantesca per fascino, per bellezza e per tristezza di altri tempi come quella della “Signora”, quella “Dama del fosso” che tanto e tanto ha popolato i sogni (o gli incubi) di noi bambini; un dramma tenero e struggente, la signora e la sua cavalla, leggerezza ed intensità a un tempo, un’autentica perla incastonata nello scenario di questi racconti, una leggenda che nei suoi colori così tenui ma vivi si presterebbe tanto ad incantare il mondo delle fiabe di una bimba prima di andare a letto, quanto la mente di un bravo sceneggiatore pronto ad adattarla per il teatro. Sono tanti i colori che Tucciariello ha saputo scegliere e mescolare per la tavolozza di questi racconti, eppure non c’è dicotomia tra il mistero, il “fatto”, la pura immagine e la riflessione sociale; non si nota distacco tra il documento storico ed il pensiero sulla politica (la bella politica di chi ci credeva) sulla scuola o sulla televisione: tutto ciò che di bello è disseminato in questi racconti è orientato verso un’immagine del tutto armonica ed il messaggio viene portato sotto gli occhi del lettore senza alcuna pedanteria, anzi in un contesto sempre puntuale e mai scontato, un giusto contrappunto sotto il filo di una sottile e piacevole “maieutica”. Il contenitore di queste “storie”che Tucciariello lascia a noi lettori affascina infine per un ultimo motivo: anzitutto rappresenta un’ occasione di continuità con il passato della nostra comunità e del nostro territorio, ma a ben guardare esso si presta anche ad essere stimolo per chi quelle stesse storie potrebbe continuare a raccontare alla luce dei mutevoli eppure sempre uguali movimenti della storia, del costume e della società i quali pur cambiando restano infondo sempre gli stessi sia per motivazioni che per atteggiamenti psicologici e sociali. Si tratta dunque di un contenitore non del tutto riempito, di un vuoto che non è a perdere ma che può “riciclarsi” all’infinito. Spetta al lettore e all’osservatore di buona volontà reiterare con consapevolezza, senso critico e creatività, il filo continuo di queste storie che sono come non mai le “nostre storie”, in modo tale da far coincidere il proprio naturale sentimento di gratitudine verso chiunque riesca a donare qualcosa attraverso la scrittura (qualcosa che va dritto al cuore) con la concreta possibilità che: “(…) Un’altra storia corr(a) tra i colli del Vulture, portata dal vento di Calitri intorno, accarezzata da leggere onde dei laghi, sospinta da aliti musicali discendenti dai microclimi della dorsale e ora consegnata a chi quei racconti può scrivere. O ascoltare.” |