personaggi - VINCENZO BUCCINO
MILLE VOLTI, UN VOLTO SOLO: RIONERO SOTTO LO SGUARDO NARRANTE NEI “LEMBI DI VITA” DI VINCENZO BUCCINO.
di Angela De Nicola
“A vederlo per strada, corto e affumicato com’era, sembrava un tizzone, un fumacchio a cui si voleva bene. Lo meritava per la sua innocenza. La percorreva a sghimbescio, dinoccolandosi lungo una linea seghettata che seguiva da muro a muro con le sue gambette che parevano avanzi di radici bulbose messe a seccare per il fuoco. E rideva, rideva sempre. (…) Anche due attimi dopo aver espresso collera, senza ragione rideva all’improvviso. I bambini non lo lasciavano in pace ma egli non se ne curava. (…) Bisognoso di tutto, non accettava offerte di soldi o altro. I doni li faceva lui: promesse di tre numeri infallibili, ma solo a chi gli piaceva. Tre numeri che non dettava mai. Promesse di speranze che nessuno nutriva. Ma per lui la promessa era un favore prezioso, impagabile.”
Perché il sud lo si capisce bene solo se lo si guarda bene. E Buccino, a conti fatti, queste due cose le ha sapute fare in maniera ineccepibile, ben sapendo che il Sud è un apparato sociale e sistemico tra i più complessi e delicati che esistano, un non semplice sistema antropologico capace di nascondere le sue più alte ricchezze e i suoi più eloquenti e segreti solo a chi lo sa capire e manovrare con delicatezza. Il Sud è un grande patrimonio da tramandare ma a condizione di doverlo fare “così com’è”, così come esso si presenta a noi. Altrimenti si rischierebbe di non attecchire agli occhi del lettore. Forse in questa sede azzardo molto, ma la mia idea è che in questi racconti Buccino non volesse ragionare spregiudicatamente di massimi sistemi, e questo proprio perché un sistema già completo e affascinante come il Mezzogiorno d’Italia (di cui “Lembi di Vita” assurgono a prezioso paradigma) può e deve parlare DA SOLO e ciò appunto a pieno merito di chi come lui ha voluto e ancora volesse delicatamente scoprirne i codici, facendo emergere il fatto “così com’è” attraverso tutti quei movimenti che sono gli umori, i riti, il ciclo delle stagioni, gli eventi grandi e piccoli, le fisime della natura così come quelle degli esseri viventi. Una “fenomenologia” tutta da rispettare ed in certo qual modo da non discutere né pretendere di analizzare più di tanto, proprio perché essa ha in sé lo straordinario potere di parlare e di farsi capire da sola. E così (parere di chi scrive) forse meglio ancora de “La Mala Sorte”, questi “Lembi di Vita” - proprio perché racconti paradigmatici - possono iniziarci all’intera poetica di Buccino, a quello “sguardo globale” che lo scrittore imparò ad avere su Rionero e di conseguenza sulla Lucania e sul Sud. E’ verissimo: Buccino uomo del ritratto psicologico ed umano, Buccino uomo dell’ironia che va di pari passo con la denuncia svincolata da qualsivoglia pregiudizio … eppure a mio avviso è e resta centrale, quella che intravedo come una personalissima “POETICA DELLO SGUARDO”, o, in altre parole, una certa volontà da parte dello scrittore rionerese di ritrarre fedelmente, anzi filmicamente e plasticamente senza necessariamente passare attraverso le manomissioni o i “massimi sistemi” (che pure qua e la si accennano dietro il velo o della mestizia o dell’umiltà di chi ha sempre e solo da imparare dalla vita) “il fatto in sé”, l’economia stessa del “Sistema Sud” che, posti al lettore attraverso una tecnica artistica molto vicina a quella del “Régard” francese, parlano appunto da soli con nettezza, ineccepibilità ed assoluta perfezione. Non che Buccino - ripeto - sia scevro di osservazioni. Non che questi racconti scorrano privi di qualsivoglia commento o di “appunto dato a margine”. Anzi è un fatto che il commento stesso, la capacità critica dello scrittore si incuneino con così tanta naturalezza nella trama di questi racconti da sembrare essi stessi parte integrante del sistema uomo-natura, parte integrante di quello sguardo che domina pressoché tutta la trama. E’ dunque la capacità poetico - pittorica di Buccino, completata a sua volta da un tipo di osservazione mai “arrivata”, mai sentenziante, mai scontata, mai appesantita, mai accademica, a caricare ogni volta di autentica e schietta bellezza la sua penna “tutto sguardo e tutta plasticità” una penna che impreziosisce e rende assolutamente colorato, eterno, vivo, tangibile, ogni angolo di cose e persone a lui care nel resoconto di ciò che fu. Dunque prima che con “la storia”, prima ancora che con “il fatto” o col suo commento o resoconto, lo scrittore ci cattura nelle inestricabili maglie dello sguardo. Allora Buccino è forse anzitutto uno scrittore “tutto sguardo”, sguardo a cercare quella Rionero da cui egli fu fisicamente così lontano ma con il cuore così vicino, sguardo che ricostruisce con ragioni sì di logica - ma anche di spirito e di anima - la sua Rionero. Una Rionero che emerge ogni volta arcana e nuova, una Rionero vissuta ma anche da rivivere attraverso la lettura, una Rionero cambiata ma che infondo non cambia, una comunità dai mille volti che alla fine sono un volto solo, il volto inesprimibile di ciò che fu perduto ma anche ritrovato nell’esercizio della rievocazione. Mille volti e un solo volto, una comunità unica e irripetibile … e non tanto perché i suoi riti e le sue leggende sono necessariamente cambiati, modificati o in alcuni casi scomparsi del tutto a causa dell’erosione del tempo, ma semplicemente irripetibile perché irripetibilmente fotografata nell’attimo in cui rimane attaccata al cuore di chi la guarda così com’è, con i suoi pregi e difetti, con le incertezze e le volubilità ma anche con certe immutabilità della natura e certe inguaribilità della gente, quelle sì resistenti al tempo e ai suoi cambiamenti. Certamente la caratura di uno scrittore è tutta qui: essa emerge nella capacità di tacere come persona o personaggio narrante nella misura in cui è la sua stessa penna a sentenziare e a parlare. Nel caso di Buccino dunque è proprio questa “penna-occhio”, questa “penna sguardo”, è proprio questa “penna-pennello” a trarre paradigmi universali. Paradigmi sono un movimento del volto o del corpo dei suoi personaggi, paradigma è quella parola “gettata lì” dalle sue irripetibili “figurine”, da uno solo dei loro comportamenti. Paradigma è infine anche e sopratutto l’andamento della natura che li circonda. E così ad esempio è la neve a parlare da sola in molti passi di questi racconti, la neve con il suo puntuale ripresentarsi ogni volta a caratteri epici, quasi da “fine del mondo”. E sembra parli da solo anche il rito religioso e a un tempo laico della festa della Madonna del Carmelo, o ancora ci parlano da sole la ricchezza della vendemmia e la “cerimonia” dell’imbottigliamento del vino. La “penna-occhio” di Buccino registra e cattura, fa egregiamente tutto il suo dovere prima ancora che lo faccia ogni commento, prima ancora che sia data qualsiasi spiegazione … e, come in ogni buon libro che si rispetti, non sarà Buccino ma il suo lettore a trarre le dovute conclusioni. Così la natura non è altro se non specchio alle fasi del vivere umano, specchio alle persone, abile controcanto all’uomo, percezione che si confonde e si amalgama con le alterne vicende e con le sorti della società rionerese. E proprio dove la penna di Buccino si fa maestra nello scrutare, anzi semplicemente nel “guardare” il paesaggio, la natura, il rito, la leggenda, l’evento, lì risponde con altrettanta maestria la presenza dell’atteggiamento, del carattere, della tendenza e - perché no - anche della fisima umana. E’ il caso del professor Serpinelli, ritratto di perfetta volubilità e taccagneria che ben si sposa con l’andirivieni delle piogge e dei venti di un’estate rionerese molto incerta; ma anche di Carmine Sportari, il quale fa del vino e della vendemmia una tale ragione di vita che la vita – sia pure per incidente - arriva a perderla; e, ancora, è il caso di Mastr’Andrea il quale acceso di sacro fuoco filantropico - politico, scontra le sue irruenze di spirito con i moti irosi di una nevicata fuori dal comune, per finire con quel capolavoro che è Don Antonio, il “campanaro” della Chiesa Madre, il quale pare vivere pienezza di vita solo nei giorni della “festa grande”. Degli altri, il resto del popolo rionerese, chi ne parla? Essi restano lì, altri lembi di vita ancora da scoprire o che forse nessuno mai scoprirà, infiniti “lembi di vita” come infinite possibilità di esistenza, di conoscenza, di amore o di odio, di realizzazione, di redenzione o di fallimento, lembi di vita da conoscere o da dimenticare di cui certo poco si può dire, di cui anzi niente si dice “né in bene né in male se non il giorno della morte, per tutti unico giorno di gloria unico giorno nel quale si vive veramente” (rif. pag 9-10). I loro moti e i loro movimenti si annoverano forse con quelli delle tante foglie d’autunno spazzate via dal vento di “calitrano” o di maestrale o anche con quelli delle anonime gocce di pioggia che scendono giù annegando nelle pozze (rif. pag 261). Ma intanto anche per loro la poetica del “Régard” è finalmente compiuta: il lirismo, la poesia della vita paesana e della natura hanno donato loro un guizzo di memoria e di vita, uno sguardo solo, un ricordo appena, una possibilità che basta, un omaggio che vale, una celebrazione che è tutt’uno col rispetto e con l’amarezza, con il contegno, con la fede e con la mestizia ma anche con la felicità di chi, come Buccino, essendo indissolubilmente legato al Sud, il Sud ha cercato di raccontare, di porgere, di capire e di tramandare.
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