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Rionero e il Mezzogiorno nella letteratura di
Vincenzo Buccino

 

di Pasquale Tucciariello
Rionero, 26 Agosto 2005, Palazzo Fortunato

 

Più volte, nel corso degli anni, mi è stato domandato da persone conosciute ed anche a me poco note quale fosse il mio giudizio sulla scrittura di Vincenzo Buccino.

Confesso che non ho mai avuto dubbi: si tratta – dicevo già dai primi anni Novanta - del maggiore narratore vivente che meglio interpreta la lingua italiana nelle sue forme stilistiche più raffinate.

Ora Buccino non c'è più. Ci sono tuttavia le sue opere, i suoi romanzi, i suoi racconti, una somma considerevole di scritti di grande pregio che fanno della sua scrittura una elevata testimonianza letteraria. E' una letteratura meridionale, dalla quale si possono attingere a piene mani i più alti valori della vita, un sistema linguistico originale che dà alla più ampia letteratura italiana una possibilità di informazione in più, forte di una singolare organizzazione del linguaggio ove certo sono presenti talune parlate paesane per cui alcune informazioni sul passato vengono rese e vissute dal lettore come fossero sorprendentemente vergini, una passione letteraria resa evidente da motivi interminabili toccanti corde emotive da autentica opera d'arte, profonda cultura ovunque sparsa, grande coraggio nell'affrontare le complicate operazioni imposte dalla necessità di fornire allo scritto una congruità ed una coerenza dell'insieme, dell'armonia delle parti, delle forme di scrittura modellate dirette – nelle sue intenzioni – a dare le informazioni proprie del racconto attraverso le agitazioni dell'animo Insomma, è ciò che rende uno scritto un'opera d'arte. E lo scrittore un artista. E si sa, l'arte non muore del tutto.

“ Io non morirò completamente, e molta parte di me sfuggirà all'Ibitina – scriveva Orazio in una delle sue odi più lette e più tradotte, anche liberamente tradotte, come pure io ho fatto quando i miei capelli non erano ancora imbiancati del tutto. Parlo del Congedo, Terzo libro, Ode 30.

“Ho elevato un'opera monumentale più solida del bronzo, più solenne della regale imponenza delle piramidi quale né la pioggia che sgretola, né la furiosa borea possano frantumare, e neppure l'infinito succedersi degli anni e il fugace scorrere dei tempi”

L'arte è creazione, è parte del molteplice dell'Unità, all'Uno tutto torna, ma non scompare del tutto. E' pensiero pagano, è parte del pensiero cristiano. L'arte è consegnata alla storia. Anche Vincenzo Buccino merita le considerazioni della storia, merita di far parte della storia della letteratura italiana.

La produzione letteraria di Buccino comincia a prendere forma già dal 1963 (aveva 43 anni ed era già affermato professore di Italiano e Storia nelle scuole superiori di Cervia ove si era trasferito nel 1948 a seguito di un concorso nazionale che vinse a pieni voti ed ottenne titolarità di cattedra proprio a Cervia, in provincia di Ravenna). Prende corpo – la sua produzione – con il suo primo libro, primo romanzo, LA MALA SORTE, divenuto molto noto, molto letto a Ravenna e provincia e qui da noi, a Rionero e in zona, nel barese e nel napoletano. Un libro recensito non solo dalla grande stampa ma anche da eminenti storici e letterati, italiani e stranieri.

In particolare c'è una interpretazione del libro che francamente mi ha sempre lasciato dell'amaro in bocca – ne parlavo spesso con Buccino - perché essa non aveva reso completamente giustizia delle situazioni denunciate nel romanzo dal Buccino intellettuale.

Marie Brandon-Albini, insegnante di lingue e letterature neolatine all'università francese di Tolosa, scriveva – due anni dopo la pubblicazione de La mala sorte:

“Il romanzo di Vincenzo Buccino è il processo alla società meridionale condotto attraverso uno spirito or lirico, or dolente, ora invece satirico, irridente e dunque tragico, sempre efficace, in cui non mancano scene di uno spietato realismo. E' il romanzo della secolare rassegnazione e della miseria contadina…”

e non si interrogava anche (o invece) delle ragioni delle miserie del Sud Italia e quali le cause originarie, conosciute le quali si sarebbe potuto ed ancora si può oggi condurre il processo, prima che alla società meridionale del tempo, ai poteri forti di una nuova organizzazione dello stato italiano che avevano o voluto quel tipo di società meridionale, o consentito a una certa borghesia di divenire potente, ottusa, volgare, prepotente. Perciò La mala sorte è un romanzo di un lirismo particolare, assolutamente commovente, a volte struggente.

“E il padre arrembava trasportando il cadavere del figlio e pronunziando parole che, a sentirle di lontano, non sembravano propriamente di affanno, né di odio né di pianto, ma erano gemiti indistinti, bofonchianti un linguaggio misterioso che violava il silenzio delle notte, prorompendo dal petto di quell'uomo che non sapeva ancora piangere”.

La mala sorte è perciò opera storica perché rimanda alla storia – come ho già scritto nel risvolto di copertina della edizione 1988 uscita in ristampa anastatica -; è opera storica, sociologica e politica, perché in essa si consumano le tragedie della società meridionale nei primi decenni del secolo scorso, emergono le miserie umane di certa borghesia incapace di darsi la dignità che invece ad essa compete per le elevate possibilità di progresso e di emancipazione di cui è primariamente promotrice e portatrice, perché vengono lasciate intuire forme di organizzazione sociale che avrebbero potuto concorrere all'elevamento sociale e culturale di Rionero e delle popolazioni meridionali finalmente (questo l'auspicio) tenute fuori da sistematici imbrogli, da odiose sopraffazioni, da indegne oppressioni che violano il rispetto e la dignità della persona umana.

Sono, queste, argomentazioni che in parte affiorano in due personaggi Rioneresi cui Buccino dà fiato, intelletto e anima. Sono “due persone tra le più intelligenti del paese, Nicola Pantaleo e Peppino Di Lonardo”. Essi si intendevano di tutto e spaziavano “con larghezza e profondità di cognizioni”, dalla letteratura, alla filosofia, all'economia, al teatro, alla musica. I due, chiamiamoli così, intellettuali, discorrevano del fattaccio avvenuto a Rionero la sera precedente, cioè della morte del giovane Savino Bocchetti procurata (il racconto parla di non completa consapevolezza) dal coetaneo Tuccio Santoro e dal padre Michele. Due famiglie oneste – i Santoro e i Bocchetti - dedite al lavoro e alla famiglia. Buccino, però, le accomuna nello stesso disegno e in una unica cornice. E la comune condizione: la mala sorte.

Provate a rileggere quelle tre pagine ancora una volta. Vi troverete raffigurata Rionero in Vulture quale era 70 anni fa in pieno regime fascista (gli anni sono tra il 1933/34), quali le ragioni di tanta arretratezza culturale e sociale e, soprattutto, una affermazione centrale di Buccino, mutuata da uno scritto di Giustino Fortunato, sulla quale affermazione la critica storica più accreditata certamente non si è mai soffermata finora in modo convincente: “Cosa non è stato detto dei Borboni” – rifletteva Fortunato nel suo “Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano”. Buccino riflette allo stesso modo. Noi dovremmo aggiungere oggi: ”Perché non è stato detto nulla dei Piemontesi!”. Vedete, non dello stato unitario, perché tale ancora non era, se siamo d'accordo di volere considerare unitario solo ciò che non solo accomuna ma anche ciò che è condiviso.

E tale non era la situazione storico-politica del tempo, né la traduzione e l'interpretazione propria del popolo impegnavano le nostre popolazioni a considerare unitario un mondo che tale non era.

Era un mondo disunito, lacerato, non vi era un tessuto sociale dunque intrecciato in quel mondo meridionale perché – come ha notato Tommaso Fiore scrivendo su La mala sorte nel 1968 - quel mondo fatto di contadini per la stragrande maggioranza della popolazione non aveva una propria idea di organizzazione, non sapeva difendersi, rimanendo vittima di minoranze ottuse, offensive, che lo dominavano.

C'è un libro dato alle stampe da qualche settimana - mi pare verrà presentato a Rionero il 15 di Ottobre e si tratta di un saggio del direttore didattico Michele Pinto - ove l'autore ragiona proprio, tra l'altro, su briganti e galantuomini, su borboni e piemontesi (non credo di essere autorizzato a parlarne oltre). Sarà interessante leggerlo.

Cosa non è stato detto dei Borboni! Perché non è stato detto nulla dei Piemontesi! E poi le vicende legate a Crocco, ai suoi uomini che la storia ha chiamato briganti. Se vogliamo rimanere vicini proviamo a rileggere il Brigante, di Donato Gallucci. Non c'è

Bisogno di scomodare altro.

Ma lasciamo perdere. Se ci saranno nuove occasioni, più tematiche sul periodo rispetto al tema di oggi, ne potremo discutere. Per ora lasciamo perdere.

Fatto sta che Tuccio Santoro, uscito dal carcere ove era stato rinchiuso a pagamento della colpa omicida commessa ai danni di Savino Bocchetti, un giorno passò col suo mulo – inavvertitamente – dentro le terre, già mietute, di Carmine Antonio Bocchetti.

“Ad un tratto, inaspettatamente, gli sembrò che il mulo carico gli venisse addosso con tutta la sua mole e già egli aveva cominciato a urlare, al fine di fermarlo quando ebbe l'impressione di aver ricevuto uno spintone poderoso alla schiena e contemporaneamente avvertì una trafittura bruciante. Per istinto corse due, tre passi in avanti, sbiecò un tantino, poi cadde al suolo suo malgrado, perché aveva cercato un appoggio con le sue mani robuste. Gli occhi desideravano volgersi alla terra e si trovarono di fronte al cielo; la lingua bramò un po' di fresco, ma le fu negato da un'arsura irrimediabile. Poi un gran buio – poi Tuccio morì. Carmine Antonio Bocchetti lo aveva ucciso, con due fucilate”.

Vincenzo Buccino, sorto come scrittore nella seconda metà del secolo scorso, può ritenersi fortunato. Egli, come tanti altri narratori del suo tempo, ha potuto attingere fortemente alla tradizione letteraria meridionale, a quella narrativa che ha come capiscuola i due maggiori letterati che per la verità hanno fatto scuola a tutta la letteratura italiana. Mi riferisco al Verga e al Capuano, al verismo, cui essi hanno dato ragione di storia letteraria per un lungo periodo della storia culturale italiana. Che poi la letteratura meridionale si sia ancor più rafforzata attraverso l'ingresso autorevole e riconosciuto del Pirandello, anche questo è un fatto. Perciò Buccino, come tantissimi altri che hanno veramente costruito opere d'arte quali risultati di elevato ingegno, deve molto al Capuana e al Verga. Ma nel caso specifico de La mala sorte, per il modo con il quale ha costruito i personaggi, la psicologia interna, l'esame quasi diagnostico di essi, Buccino deve molto anche a Pirandello. I tre grandi della narrativa meridionale tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento hanno davvero indicato una strada in più per conoscere, attraverso la narrativa, e avvicinare ancor più da vicino la società meridionale del tempo.

Per ciò che concerne il Buccino, Rionero e il Sud certamente gli saranno grati.

Egli ha scritto cosa era Rionero e i Rioneresi nei primi decenni del secolo, quali le ansie, quali le ingiustizie. Ma lo ha riferito non con la penna dello storico che racconta i fatti attraverso una operazione di saggistica. Buccino è il letterato che propone nella sua narrativa un modo suo, originale, di fare opera d'arte raccontando il fatto, il vero, ma dando al personaggio dignità che si alimenta di emozioni, di credenze, di immaginazione, certo anche di luoghi comuni. I suoi contadini, i suoi personaggi in genere, la sanno lunga. E' tutta gente che ha una montagna di esperienze, che divengono poi ancora più vissute per essere esperienza e testimonianza di vita sofferta. Lo scrittore Buccino diviene il grande interprete della società meridionale attraverso La mala sorte.

L'opera d'arte – egli scriverà – non è frutto di impostazione geometrica o di dimostrazione rigida e cruda. Per lo scrittore autentico c'è la necessità di manifestare il vero ma con il gusto e la perizia con cui si rappresentano i sentimenti che commuovono il cuore e agitano l'anima. E questa certo non è operazione di natura matematica, geometrica insomma di scienza sperimentale. Anche in questi motivi sembra di poter scorgere Buccino ancora dentro una polemica antipositivista sorta tra la fine dell'Ottocento ed i primi del Novecento come risposta ad una cultura scientista le cui pretese erano quelle di assegnare ai moti dell'animo, agli stati d'animo, come dire al tempo della coscienza e dunque della vita le stesse possibilità di misurazione, di segmentazione, di geometrizzazione che invece appartengono a ben altri procedimenti, appartengono al metodo sperimentale sulle scienze introdotto dal Galilei nel Seicento, le fasi del metodo sperimentale che avevano aperto i nuovi orizzonti alla scienza moderna.

Vincenzo Buccino è perfettamente uomo del suo tempo, ma del suo tempo migliore ove le antiche credenze, le tradizioni sedimentate, i più alti valori della letteratura e della vita – quelli veri, non quelli presunti tali, per capirci (voglio dire non quelle avanguardie letterarie spocchiose, sfuggevoli, velleitarie, forse anche improduttive) - dico i più alti valori della letteratura e della vita lasciano il segno in profondità perché graffiano, non sono stucchevoli, non sono lascivi né rammolliti, ma penetranti e che alla fine davvero finiscono per diventare lavori di autentica opera d'arte.

Mi diceva sempre “Pasquale mi raccomando, quando scrivi fa' in modo di lasciare sempre un segno. La scrittura deve mordere, deve graffiare… e deve dare un contenuto morale”.

Vorrei dire ancora di più. Raccontare aneddoti poco noti ma significativi, con molta precisione e molti particolari. Quanti ricordi personali, culturali, professionali in 25 anni di rapporti e di frequentazioni, tra noi due interlocutori. I rapporti, si sa, hanno degli alti e dei bassi. Tutti i rapporti. Quanti ricordi. Quante iniziative fatte insieme.

Ma mi sono imposto di non parlarne, probabilmente perché non interessano nessuno, ma fors'anche perché potrei provarne commozione tale che avrei difficoltà a prolungare queste considerazioni. Troppo è ciò che personalmente io ho perduto, nel giro di pochi mesi quest'anno: il giorno delle Palme con la scomparsa di Enzo Cervellino e il 12 di Luglio con la morte di Buccino.

Il mio non è un lutto figurato, elaborato. La mia è una condizione di tristezza che mi è compagna e amica, suggeritrice e sostegno, storia e racconto.

Il nostro scrittore era figlio di vari filoni del pensiero filosofico novecentesco. Amava la fenomenologia quel tanto che bastava, si interessava all'esistenzialismo heideggeriano con non grande passione, prediligeva Jaspers ma certo non rinunciava al sonno per leggerlo. Pur non amando i filosofi che – a suo dire – pretendono di conoscere con ragioni di assolutezza il mondo e suoi saperi, era anch'egli nella situazione che certamente vedeva da par suo, da occhio d'artista. E si sa che l'intellettuale e l'artista – quelli veri - vedono il mondo con un occhio in più, con quel terzo occhio che scorge ciò che ad altri non è consentito vedere. Le cose stanno proprio così. L'arte è un campo molto specialistico ove operano persone molto specializzate che fanno della ricerca una via di comunicazione in più.

La cultura va comunicata, è un bene sociale, va posta in relazione con la situazione che vive. Io non so proprio a cosa serve e a chi possa giovare una biblioteca inerme. Io non so a cosa e a chi possa servire un museo inanimato quale contenuto della storia e dei saperi e tanto basta. Non siamo interessati ai depositi di libri o di beni culturali in genere che non abbiano una efficacia e una ricerca come via di comunicazione, come strumenti di relazione, come strumenti di linguaggio e di una interpretazione che individui problematiche ed indichi nuove possibili risposte. Le opere d'arte, piuttosto, sono metafore, sono trasmettitrici di valori di un mondo storico. Che, ripeto, va comunicato.

La politica – ora lo dico anche al mio amico sindaco della mia città, della nostra città, al sindaco che ho sostenuto, come hanno fatto tantissimi di noi, a cui auguro ogni bene politico e di vita amministrativa, io apprezzando e non poco i suoi sforzi operosi entro una situazione complessa che non è semplice e né facile, al mio amico sindaco della comune città io ribadisco – la politica, ha la responsabilità di agire. Di scegliere e di agire. Sono certo che, dopo questa parentesi estiva, l'Amministrazione comunale di Rionero nel suo complesso e nelle sue articolazioni procederà per le scelte che riterrà più ragionevoli e che meglio si dispongono per il bene comune. Se ci sono rami secchi, la politica li tagli. O se non li può proprio tagliare, che almeno li indichi alla pubblica opinione. La politica - ci diceva Cervellino – è l'arte del possibile certo, ma – aggiungeva - può diventare anche l'arte per rendere possibile l'impossibile purché si operi per il bene comune. Cervellino era solito far sua l'affermazione di padre Semeria: “A fare del bene non si sbaglia mai”. Buccino aggiungeva “quando l'aria è netta non c'è paura che tuoni”.

La politica ha la responsabilità di agire. Perché oggi, per nostra fortuna, la politica non vive la società della mala sorte.

Ciò che a quell'opera mancava, a La mala sorte di Vincenzo Buccino, piuttosto, era l'indicazione di una strada, un'altra via che indicasse qualcosa di nuovo. Ne La mala sorte mancava la speranza, mancava una possibilità in più di cambiamento, mancava la volontà in vista di un bene. Mancava ciò che spesso l'intellettuale che vede con occhio d'artista, con quel suo terzo occhio, denuncia, forte della sua poderosa cultura umanistica o fisico-matematica che sia. Nella società della mala sorte mancava la volontà. Perché mancava la speranza. E non combatteva. Né il clero locale nelle contrade meridionali era in grado di fare molto, o perché vittima degli stessi poteri e dunque indebolito, o perché incapace per sua scarsa preparazione culturale, o perché inefficace nella sua azione per un lungo periodo in cui soffrì per isolamento in un mondo massonico-liberale-anticlericale che l'era cavourriana prima e giolittiana poi impose.

Nel regno de La mala sorte che investiva e attanagliava nella sua morsa l'intero Sud, Rionero ne era la capitale. Ma Rionero diventerà “Il paese di Dolceamore” in quella che a me pare la maggiore opera di Vincenzo Buccino: Il Sanamalati. Certo, Il Sanamalati e Lembi di Vita sono due testamenti letterari diversi l'uno dall'altro, ma sono due opere scritte da mente di elevato ingegno letterario.

Tra “La mala sorte” del 1963 e “Il Sanamalati” del 1969 Buccino aveva pubblicato, nel 1966, “La strada difficile”. E' un'opera poco conosciuta dal pubblico della nostra terra. E' un libro ambientato nella Romagna. La storia di un contadino che si avvia a percorrere una strada che è difficile, ma egli è fiducioso, già sa che può farcela. Ce l'hanno fatta in tanti, ce la farà anche lui.

La strada difficile non è il racconto della secolare rassegnazione dei cafoni del sud. E' il contrario, come se il destino gravante sull'Italia avesse diviso la penisola in due: da una parte – la Bassa Italia – la disperazione senza appiglio; dall'altra – l'Alta Italia – la capacità di elevarsi e di farsi gran signori. Di qua la dannazione e la perdizione, di là salvezza e dignità umana.

Non mi soffermerò sui contenuti del racconto de La strada difficile e né su quelli artistici, più disposto, io, anche per il tema assegnato, a discorrere dei contenuti rilevanti che servono a farci riflettere sulle condizioni passate – ed in un certo senso anche attuali – delle nostre popolazioni.

Passerò oltre. Riferirò dell'opera maggiore che pochissimi hanno letto.

Il Sanamalati, cos'è? E' un coltello, anzi un coltellaccio, anzi una mezzasciabola, insomma un dannatissimo affare avente un manico semicurvo, una lunga lama tagliente e appuntita, alla sua estremità si curvava quasi come roncola, nato – quel malarnese - più per scannare bestie che per offendere persone. E invece nel racconto di Buccino quel diavolo di strumento omicida guarisce i malati. Nelle mani di Ziè Rosa Capodilana fa miracoli, nelle mani di Caniuccio Lagonigro e di Zì Seppe Coppa brigante al seguito di Crocco, era servito per sgozzare galantuomini e piemontesi.

Come diavolo se lo ritrovasse tra le mani la più temuta e rispettata fattucchiera del paese di Dolceamore non si dice. Ma tra un bicchiere e l'altro, la donna racconta a chi era appartenuto.

Il Sanamalati è la maggiore opera di Buccino. Qui egli vola alto, spinge la penna tra i più elevati orizzonti dell'arte, il racconto si articola e si intreccia tra le vicende della nostra terra che vive la sua storia tra gli eventi dell'età pre-unitaria, del terremoto del 1851, della caduta dei Borboni che non affrontarono mai seriamente una battaglia che possa dirsi tale con i Piemontesi, delle promesse di Garibaldi mai mantenute, delle uccisioni di massa e delle fucilazioni senza processo dei Savoia, della formazione di Carmine Crocco quale protagonista e soggetto della grande storia, della ribellione ai Piemontesi e alla condizione di conquista esercitata a scapito dei contadini prima nullatenenti, ora anche a rischio di fucilazione.

Bisognava portare verso la campagna viveri per non più di una persona e per un sol giorno nel Sud conquistato e spogliato dai Piemontesi, non avere armi con sé neanche un coltello, lungo i tratturi non camminare in crocchio ma ogni mulo o bestia doveva procedere dall'altra distante almeno un centinaio di metri, non avvicinarsi agli altri, e poi tanti altri no.

E come portare da mangiare ai mietitori in campagna in presenza di siffatti divieti?

Ci hanno provato due innocenti fratelli di Dolceamore, di 14 e di 15 anni: presi presso un posto di sorveglianza, privati dei viveri che portavano nelle campagne, allontanati o arrestati i conoscenti che giuravano sull'innocenza dei giovinetti. Sul posto, tutto in pochissimi minuti. Questi erano gli ordini impartiti da Torino: “Mirat, puntat, fuoco”. Fucilati. Altro che liberatori. Assassini.

Il Sanamalati è un romanzo. Questa volta non un romanzo sociologico o politico. E' romanzo storico. Ma quanta poesia, una poesia che si fa tenerezza .

“I soldati napoletani ammiravano la campagna all'intorno e seguivano la strada, la quale si inerpica lungo i dossi che degradano dal monte carico di querce e di castagni, e là dove si vede una radura, il bosco si fa più chiaro e bello sotto il sole.

“La linea della montagna poi discende e si perde tra le brume della fiumara, però su di essa, a mezzogiorno di Dolceamore, altre montagne massicce, che descrivono una capricciosa linea spezzata, fissano il loro intoccabile regno, un povero regno di casali e di umili masserie sperdute, lontane una dall'altra, piccoli punti biancastri, che l'occhio raggiunge facilmente passando dall'una all'altra, ma in realtà così distanti tra loro da dar luogo a mondi diversi, ogni casale o masseria un mondo a sé, un mondo silenzioso di povertà e di estrema rassegnazione”.

E' poesia, come vedete, fa tenerezza al cuore, senti l'aria di Rionero, un'aria meridionale respirata da chi ama profondamente.

Io posso testimoniarlo. Buccino amava Rionero come perdutamente un giovane inesperto ama perdutamente il suo primo amore. Rionero era il grande amore di Buccino. Ma è anche vero, tuttavia, che Buccino non è che tu lo potessi scorticare tanto facilmente. Non era inesperto!

Sentite cosa scrive nell'introduzione a carattere storico-letterario al “Michele Di Gé – l'ultimo brigante di Basilicata”, nel 1971:

“Ogni terra scolpisce, nelle anime, dei solchi entri i quali scorrono fluidi misteriosi che influiscono sui caratteri. (….) A Rionero e in Basilicata non c'è chi non dica: - Questa è una terra santa, ma è anche una terra maledetta e beato chi se ne scappa e va a mettere radici fuori, dovunque sia. Poi se il fuggiasco torna per dieci giorni a far poesia, la ritrova santa. Ma non appena la terra ti comincia a calamitare con minaccia di fagocitarti, chiudi gli occhi, chiudi le valigie, chiudi lo sportello se vai in treno, chiudi il portabagagli se vai in automobile, chiudi quello che puoi, chiudi le orecchie alle voci di richiamo del cuore e degli affetti, chiudi - frate mio – chiudi e scappa scappa prima che i tentacoli della benedetta terra maledetta ti avvolgano, perché dopo sai bene come finiresti.”

Però, circa vent'anni dopo, si profila una qualche onorevole retromarcia. Buccino si ravvede, In qualche modo, però. Ricevuta una lettera all'età di vent'otto anni dal Ministero con la quale gli veniva comunicata l'assegnazione della sede di titolarità a Cervia per l'insegnamento di Italiano e Storia, è preso avvolto in una somma di emozioni, di progetti, di commozioni, di malinconia, anche per ciò che avrebbe risposto a familiari, amici, conoscenti.

“Io non sapevo che cosa rispondere. Avessi confessato di essere scontento, sarei stato ipocrita. Però non riuscivo ad occultare (nemmeno a me stesso) l'indefinita amarezza di dover abbandonare, forse per sempre, persone e cose care, insostituibili. Mi rendevo conto che è arduo tirare avanti nel nostro ambiente, ma è altrettanto malagevole chiarire tutto di tutto della nostra esistenza convulsa. D'altro canto, per me, il momento era difficilissimo. Uno di quei periodi in cui la mente è compressa in una morsa spietata: il pensiero concreto dell'avvenire contro il richiamo penoso della terra e degli affetti; il senso dell'opportunità; forse dell'egoismo, che prevale a forza sulla tenerezza dell'amore soffocato per viltà. Partii, ma nella nuova sede – e per molti anni – non potei sottrarmi al rimorso che quella partenza fosse stato un atto di diserzione”.( LEMBI DI VITA).

Tra che le cose più misteriose della vita, io penso, vi sono momenti nei quali l'ascolto - quella forma di misteriosa auscultazione proveniente dalle più buie e remote e ancestrali zone dell'anima - diventa decisivo; è una sorta di volontà metafisica di indecifrabile provenienza che prorompe urtando fino a far perdere l'equilibrio nell'immediato e ti sospende. Ma è un attimo. Non dopo, ma in quell'attimo chi ha orecchie disposte all'ascolto dovrà capire e decidere. Se sbagli sei fritto per la vita. Usi solo pezze, rattoppi, rabberci qua e là. Si perde, cioè, la disposizione all'amore per le cose che più contano: le tradizioni, le radici, la famiglia.

Certo che gli mancava qualcosa. Ma Rionero era il suo amore perduto, ritrovato, perduto, poi ritrovato e poi ancora perduto. Non ci sono stati né tempo né occasioni perché ritrovasse la sua Rionero prima dell'ultimo viaggio.

Ma quanta prosa, cari concittadini, Buccino ha scritto prima di rendere l'anima a Chi gliel'ha data! E non prosa stomachevole – come egli definiva certa narrativa -. La sua prosa è coerenza logica e chiarezza verbale, è inventiva originale, è aderenza essenziale ai problemi veri della vita nelle trasfigurazioni dell'arte.

Così mi scriveva Buccino in una lettera:

“Bisogna fare in modo che ogni narrazione sia aderente al vero, abbia sui personaggi una introspezione psicologica, non lasciarti imbrigliare da quei filosofi che vogliono dettar legge, e quando fai cronaca giornalistica lavora per una onesta denuncia dei mali cronici della società, eleva sdegnosa la tua protesta contro ogni forma di sopraffazione comunque camuffata, mira a un superiore equilibrio delle intime forze individuali per l'armonia della vita dei singoli e di quelli che agiscono negli organismi dello Stato per un superiore grado di civiltà nella vita collettiva”.

Questo, nel Settembre 1980, dopo la nostra pubblicazione – con il concorso di alcuni autorevoli amici - del volumetto “1930-1980: Cinquantenario del Terremoto del Vulture”, pubblicato da Radio R2R nel Luglio 1980 e in questa stessa sala presentato, con Enzo Cervellino e con Michele Pinto, dal compianto Ubaldo Mottolese.

Qual è la vita che conducevano i poveri più poveri del Sud? Seguiamo Buccino nella introduzione al Di Gè:

“Il cafone viveva così che la giornata di lavoro era pagata, senza un carlino, a misurine di olio, a cucinate di fagioli, a mezzetti di grano, a sporte di cicorie; e la giornata del pastore si remunerava con un chilo di pane al giorno, un litro d'olio alla settimana, un chilo di sale al mese, una pecora all'anno e mai un carlino. Un tornese che fosse un tornese, mai. Un pastore doveva esser ladro per forza.”

Anche con Buccino la narrativa meridionale ha fatto il suo dovere nei confronti della società meridionale e nazionale insieme, sia per i suoi contenuti artistici, sia per le indicazioni di natura etica rivolti alle popolazioni.

Che poi qualche volta e molto spesso noi siamo sordi o facciamo finta di non sentire o non sappiamo far tesoro degli insegnamenti che prorompono da quelle idealità, non è meraviglia. E neanche che i giusti abbiano dovuto pagare a caro prezzo l'ostinato disegno moralizzatore. La storia è ricca di martiri, da chi è stato costretto a bere la cicuta, chi a pendere santamente da una Croce versando sangue per tutti, chi a bruciar vivo su un rogo. Ma né Socrate, né Cristo, né Giovanna d'Arco, né Giordano Bruno, né Tommaso Moro sono morti invano. Perché hanno lasciato segni profondissimi nel corso della storia della civiltà dell'uomo e del suo interminabile cammino a vantaggio delle generazioni future.

L'amore esclusivo di Nunziata Spera è una storia triste e di tristezze. Gira intorno alle vicende di una maestra di scuola elementare, in pensione, ai suoi quattro figli, alla famiglia. Anche questo libro è ambientato a Rionero in anni a noi molto più vicini rispetto a quelli più abituali per lui. E' una storia di grande commozione. Confesso che ho fatto fatica a leggerlo, nel 1998, quando l'ho ricevuto. Buccino sembrava provasse gusto nello spingere un coltello nelle carni del lettore e portarlo alla commozione, al dolore per la ferita, alla lacerazione della carne. Ma è un romanzo di pietà. Queste storie, raccontate da chi le sa raccontare, rendono migliori. La letteratura se ne giova. La sensibilità umana pure.

L'ultima sua fatica letteraria è “Il miraggio dei guerci”. Diceva che sarebbe stata veramente l'ultima ultima, tre anni fa.

- Poi ristampiamo “Il Sanamalati”.

Con “Il miraggio dei guerci” il prof, Buccino torna agli anni che gli sono oramai scolpiti nella mente. Incancellabili gli anni Trenta.

Qui, trovi invece Ziè Manuela Tessitora, magnificata in ogni dove come maestra nel praticare con discrezione, a Rionero, l'arte di scoprire e sottomettere forze occulte della natura. Ziè Manuela Tessitora leva i malocchi, non li mette, non sia mai. Da lei arriva gente da ogni parte, si vogliono guarigioni, combinare matrimoni, disbrigare matasse. Si chiedono in particolare interventi di magia bianca per ottenere guarigioni da crisi di epilessia. Altri, di ritorno da ospedali di Milano, di Bologna, a lei ricorrevano per il loro ultimo, disperato tentativo. Era gente disperata.

“Ritrovandosi debole o addirittura impotente a fronteggiare le bizze della Natura ostile, che qui imperversa con fenomeni atmosferici a sterminio, là con infermità, altrove con terremoti cui si aggiungono le trame dei malviventi, gonfi di odio e di invidie brutali, tanta gente s'indirizza a pagamento dal mago, dalla fattucchiera, dall'interprete dei sogni, perché il debole à facilmente convinto che costoro, a cui si dà il nome di sensitivi, hanno il potere di trasportare la nostra vita in un ambito misterioso, considerato più rassicurante del nostro ambiente usuale. I pavidi, gli incerti e i bacati sono sicuri che in quell'ambito è facili ai padroni del mistero, ritenuti dotati di capacità soprannaturali, rettificare clamorosamente gli eventi dell'umana esistenza”.

La mattina del 14 Luglio alle 4 e mezza io e Maria Rosaria, mia moglie, siamo partiti nella mia anziana ma fedele auto e siamo arrivati all'Ospedale Villa Serena di Forlì poco dopo le 11. Nella camera mortuaria, una recita del Rosario quale acconto per la fedeltà al professore, all'amico, al maestro. Nella bara, quella sua statura in vita elevata, superba, austera a noi sembrò minuta. Per carità, nessuna menomazione. Ma il corpo ci sembrò esageratamente piccolo rispetto alle dimensioni della testa che sembrava occupasse metà della cassa. Una testa grande, che aveva contenuto ricordi non lievi ma chiari nelle linee e nelle sfumature, nei contorni e nel centro dei fatti, nei colori e nei chiaroscuri e nelle luci e nelle ombre, giganteggiava, mostrando una fronte ampia ancora disposta a contenere chissà quali e quante altre immagini della vita e disposizioni alle idealità, alle virtù, alla sapienza.

E' stato solo un piccolo acconto, caro professore. Non siamo carogne. Ciò che tu a noi hai dato in termini di studio, di possibilità e capacità di penna e di lavoro, noi a te lo restituiamo in ciò che io a Maria Rosaria sappiamo fare. Pregare, anche per te, professore, perché Iddio ti conceda pace e serenità che in vita ti furono piuttosto avverse.

Fatti i conti, tirate le somme, rimane il totale compiuto.

Lo scrittore rionerese Vincenzo Buccino ha fatto la sua parte, fino in fondo, anche da lontano. E qui arrivava nelle occasioni più solenni, se chiamato, se invitato, sempre, non si è mai tirato indietro, generoso e amico. Rionero egli ha raccontato, ha animato, ha accarezzato, ha accompagnato. Interessato per un suo scritto, che so, un racconto, a tutti rispondeva: L'Informatore del Vulture e Primula che abbiamo aperto insieme, a Valori, a Partecipare, senza reticenze per scelte editoriali anche lontane dalle sue sensibilità politiche (era un liberale). Intratteneva rapporti epistolari con moltissimi a Rionero, inviava riceveva auguri e telegrammi per fatti lieti o dolorosi, si teneva informato. Rionero era la sua vera casa, non solo di nascita. Rionero l'ha adottato, perché Rionero Buccino ha cantato. Rionero gli deve molto. Cosa ancora io non so. Qui ci sono il sindaco e l'assessore. Certamente l'Amministrazione comunale di Rionero e l'intero Consiglio Comunale vorranno regolarsi per il meglio. Sono certo che Rionero in Vulture non sarà sorda e anche per Cervellino, anche per Buccino si renderà onorata per le scelte di gratitudine verso chi molto ha operato e segni profondissimi ha lasciato.

Rionero, 26 Agosto 2005,
Palazzo Fortunato

 

 

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