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LA SCRITTURA CHE CURA: NOTE A MARGINE PER
“IL RITRATTO DELL’ANIMA” DI CARMEN PICCIRILLO
di Angela De Nicola
Carmen Piccirillo mi ha affidato il suo lavoro d’esordio per farne una postfazione. Lo ha fatto con delicatezza e un po’ di timore. Il timore nasceva dalla scelta se render pubblico o meno il suo lavoro d’esordio. Si tratta di sentimenti che in genere tendiamo quasi sempre ad avere nei confronti di “creazioni” (che finiscono poi immancabilmente per diventare vere e proprie creature) cui si tiene in maniera particolare.
La passione per la scrittura, seppure al suo debutto, si misura proprio da questo tipo di carezze e di attenzioni, infondo anche un po’ timorose. Perché scrivere un libro, si sa, è quasi come mettere al mondo un figlio.
Ricevo e accolgo tra le mani e nei miei pensieri, il dono di un’amica, un vaso di cristallo da manovrare con estrema gentilezza e con grande rispetto.
Carmen lo scorta dai suoi pensieri verso i miei con lo stesso estremo affetto, quasi con la stessa titubante e dolcissima premura - mi viene spontaneo pensarlo- che di quando in quando ama usare nei confronti di qualche tenero gattino spesso ospite nella sua casa.
Con la spontaneità di quel suo tono semplice, diretto, che non lascia intravedere nessuna sfumatura di auto-celebrazione mi dice: ”Angela, sei una delle pochissime persone cui inizio a far leggere questi racconti.”
Frase che ha avuto su di me, non lo nego, un grande impatto, funzionando nel mio animo come una molla, un trampolino di lancio di enorme responsabilità.
Quanti di noi, con un gesto che potrebbe andare al di là del mero atto formale, forse anche amorevolmente curioso, della lettura di un testo, si chiedono cosa sia veramente scrivere? Porsi questa domanda è un dovere ma è anche e soprattutto un atto d’amore verso chi scrive.
E questo proprio perché scrivere, oltre ad essere in sé stesso un atto di coraggio, è sempre ed anzitutto un enorme gesto di affiliazione. Oltre che dare, è anche e soprattutto gesto votato al chiedere. Che se si pensa poi ad un esordio in scrittura, come quello che abbiamo davanti, la valenza diventa duplice: coraggio, affiliazione e richiesta raddoppiati, appunto, nella loro nobile forza intenzionale.
Quel che fa di un uomo una creatura superiore è certamente il coraggio. Coraggio è letteralmente “azione impetuosa del cuore” e chi usa il cuore non ha tempo per vuoti logorii cervellotici, forse neanche per doppi fini o stratagemmi. Mi sembra pertanto che Carmen Piccirillo, in questi racconti con cui per la prima volta si fa conoscere al suo pubblico, ci abbia messo “tanto coraggio”, che appunto altro non significa se non “tanto, ma veramente tanto cuore”. Carmen ha scritto di getto, dunque ha scritto usando molto, molto il suo cuore. Qualunque atto comunicativo, come diceva Umberto Eco, non può nascere né sussistere per rimanere finalizzato a sé stesso. A questo umilmente aggiungerei ancora ciò: che qualsiasi atto comunicativo ben fatto crea una sorta di “magia”. Una magia atta a divenire proiezione e paradigma in partenza che dipanandosi da una base di domande (e risposte) di grande responsabilità verso sé stessi, arriva a quel punto di arrivo fatto di grandi domande (e forse grandi risposte) nei confronti del resto del mondo che ci guarda. Scrivere pertanto è quell’atto di coraggio che genera il tentativo di un’enorme azione inclusiva, un’enorme azione coinvolgente che proprio per questo diviene (e nel caso di Carmen, mi sento di dirlo, l’affermazione vale davvero il doppio) azione affiliatrice.
Se scrivo è perché comunicando tento di includere, tento cioè di ammettere chi legge al mio mondo, e perché ancora, in altre parole, tendo a voler fondere il mondo esteriore, quello dell’altro, con me stesso e con la mia interiorità. Se scrivo perciò chiedo anche “affiliazione” ovvero “adozione e figliolanza” attraverso l’uso dell’arte, nel difficile e sottile perimetro della scrittura. Se scrivo è perché cerco di togliere dalla mia identità quel surplus di nebbia, o se vogliamo di “contaminazione” o anche di pregiudizio, poiché, in qualità di essere umano, non smetto mai di definirmi e mai mi rendo fisso sulla linea dell’esistere. Se scrivo, insomma, è perché mai ammetterò di essere uguale a me stesso in quanto essere vivente, vitale, complesso. E se mi è lecito scrivere, sembra dirmi tra le righe di questi racconti la mia amica Carmen, è perché non solo appaio legata alla naturale parabola evolutiva di giovane donna alla ricerca del volto più autentico e congeniale al mio io, ma altresì vengo posta con forza incontenibile davanti agli enigmi del nostro vivere contemporaneo così complesso e distratto oltre che solo e semplicemente dinamico. E, come sottende bene l’autrice attraverso l’invisibile “fil rouge” che lega l’apparente diversità di questi racconti, se scrivendo sembro “curare” me stessa, in realtà è l’altro che mi cura (e si cura) nella speranza di una sua risposta e di un’accoglienza nei confronti della mia arte.
Diciamolo pure: il mondo di questi racconti pullula di creature spesso oniriche, fantastiche ed immaginifiche ma esse lasciano alternativamente e generosamente il loro testimone a creature di questa terra, creature reali. Qui tutto è perifrasi dell’animo umano, delle sue fattezze e consistenze che spesso sfumano, per definizione, dall’humus reale a quello immaginario, ammettendo l’uomo nel consorzio delle semidivinità proprio perché capace di far coesistere in se stesso il sondabile e l’insondabile, l’io e il super-io, con tutta l’importanza- è bene dirlo- che l’autrice sembra voler dare a quest’ultimo, alla parte cioè meno visibile delle nostre esistenze, quella legata al sogno, all’evoluzione dello spirito, che, lo dicono bene questi racconti, resta la parte migliore di noi stessi.
Nella solo apparentemente banale “redazione autobiografica” che innegabilmente si cela dietro numerosi passaggi di questi racconti, è evidente a mio parere, il poderoso, generoso e tutt’altro che scontato tentativo di “analisi del mondo” che ogni buon atto di scrittura artistica invita a fare a seconda delle proprie percezioni. Un invito che la scrittura rivolge in molti casi, anzitutto a chi scrive e poi a chi legge: null’altro se non l’affascinante e sottile richiamo che ognuno di noi, superando le barriere delle apparenze, dovrebbe sentire nei confronti dell’“altra parte del recinto” (cit.) intesa non tanto come pericoloso superamento dei propri limiti, quanto invece come tentativo di accettazione e di completamento dell’intera sfera del proprio io.
Ed è di un invito generoso e coraggioso che si tratta e Carmen sembra averlo capito bene: lei lo ha colto nella sua essenza più immediata, ripiena di forza giovanile, carica di speranza, comunicandocelo senza artifizi né particolari filtri, quindi donandocelo bene. Non sarà il sogno, non sarà neanche l’arte a reggere il mondo, sembrano dirci in filigrana questi racconti, ma l’invito è a non togliere vita alla vita, speranza alla speranza, sogno al sogno e dunque arte all’arte.
Così, scrivendo, sembra dirci l’autrice (che cito testualmente): “ho avuto la possibilità, per poche ore [proprio come una farfalla (cit.mia) ] di assistere ad uno spettacolo di un’intensità magica. Ho volato tra le nuvole, vicino alla luna, che illuminava il mio percorso, ho volato tra le tante abitazioni, nelle quali gli umani riposavano dalle loro frenesie, dai loro caos giornalieri.”
Sospendiamo i giudizi, abbandoniamo i preconcetti e godiamoci l’arte: scrivere è come il volare di creature diurne ai confini magici del sogno.
Scrivere, e beato chi riesce ancora a farlo, fa parte di “uno spettacolo unico” (cit. La farfalla e la falena) nel quale non vince tanto chi pensa di “vedersi vivere” ma piuttosto chi riesce a trasformarsi, come farfalla ai confini della notte, nella creatura che nessuno, neanche il proprio io, è mai stato.
ANGELA DE NICOLA