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22/01/2022
La mia Lucania VIAGGIO NEL TEMPO |
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di Rosella Tirico |
C’è una terra che unisce due mari, attraversa le montagne e profuma di erba. I suoi campi sono scuri e profondi, questa terra è piena di alberi di castagni e di acque sorgive che risalgono dalle sue profondità. Le sue strade si accavallano lungo le curve che all’improvviso sembrano buttarsi nelle vallate, mentre invece salgono verso il cielo. E mentre si ammirano dall’alto le terre piene di verde e di colori si crede quasi di poter volare fino ad arrivare all’infinito. L’infinito invece si rispecchia negli antichi laghi di origine vulcanica. Sembrano poggiati sui crateri inattivi come due cerchi in cui riflettersi dall’alto e che un po’ abbandonati da Dio e dagli uomini, arrivano a toccarsi nelle loro circonferenze. E come se dovessero intrecciare dei destini, assistono muti al passaggio delle stagioni e stanno lì a guardare il cielo quasi a considerare l’inutilità del tempo. Sulla montagna la terra si unisce all’aria, i rumori sono ovattati e tra le sempre più rade costruzioni inizia a dominare la natura.
L’erba gialla si distende per chilometri e chilometri insieme alla strada: tutta la Lucania pare distendersi davanti agli occhi. È Terra solitaria e misteriosa, bella e povera, dall’anima nera e dai paesi lontani nel tempo. Ha villaggi immersi nel verde, case semidistrutte cimelio di terremoti, inondazioni, frane e povertà, ma anche tanta ricchezza umana ed una energia mentale che sale dalle viscere del vulcano. Tra le colline le poche pecore rimaste sembrano sparse tra pietre e cespugli, stridenti elementi in mezzo a ponti sospesi nell’aria ed auto con navigatori che parlano all’interno degli abitacoli, mentre fuori c’è un irreale silenzio. È in quella stessa aria, che sentiamo avvolgerci, le donne intrecciavano la lana tra i ferri sottili fino al tramonto, nell’attesa che gli uomini tornassero.
È in quella stessa aria che gli uomini si sedevano alle tavole sudati, per cenare e per consumare salsicce piccanti, peperoni secchi cucinati con uova, o baccalà lesso condito con olio fritto, mentre si tagliava la lunga panella poggiandola sul petto e tirando a sé la lama del coltello con l’abilità di un cavaliere medievale. Molti trascorrevano le sere mangiando e bevendo vino rosso, per avere l’illusione di trionfare sulla morte. Ed è solo in quell’aria che cibo, parole, odori e ricordi si mescolano insieme all’odore della terra mentre ci appaiono improvvisi coloro che furono prima di noi. Al centro di ogni casa un braciere raccoglieva familiari e compari e pulsava come se fosse vivo. La sera la nonna di mio padre sgranava fave o piselli o puliva le verdure piene di terra per contribuire alla preparazione della cena. Per tutto il pomeriggio aveva lavorato ai ferri per fare calze da notte o mantelline. Ascoltava e non parlava, aveva occhi profondi e scuri molti vividi. Era praticamente vissuta da sempre in quella casa ed anche quando la sua unica figlia, sopravvissuta ad una epidemia di difterite, si era sposata era rimasta lì in un angolo, come se appartenesse a quelle mura. Da quando suo marito l’aveva lasciata per rifarsi una vita in America lei non aveva più vissuto che per Rosinella sua figlia e per i figli di sua figlia che ogni anno erano sempre più numerosi. Nella lentezza delle sue giornate appariva zio Vito che si sedeva insieme a lei davanti al braciere. Lui poggiava il mento sul suo bastone e mentre gli si illuminavano gli occhietti vispi e quasi felini, iniziava a raccontare della guerra in cui aveva perso due dita per colpa di una granata. Rosinella trafficava intorno alla cucina economica mettendo qualche panno ad asciugare sui ferri bollenti, controllando che il fuoco della stufa non si esaurisse. Poi si sedeva insieme a loro allargando le braccia sul suo grande grembiule nero su cui si intravedevano ombre di antiche macchie e Dio solo sa quale mescolanza di odori quella stoffa emanava. Ma nessuno sembrava farci caso.
Intanto l’acqua del lungo bollitore ovale di alluminio che si trovava sulla cucina economica cominciava a gorgogliare e così saliva il vapore che inondava i panni stesi ad asciugare. Mentre dai cerchi concentrici di ghisa le scintille del fuoco sembrava che cercassero la fuga. Ed in quell’atmosfera perennemente autunnale e misteriosa si sarebbero potute liberare insieme alle fiamme tutti i pensieri. Anche l’immaginazione non avrebbe avuto limiti ed accompagnati dall’odore delle castagne abbrustolite e delle pannocchie di granturco, dai chicchi marroncini e dolciastri, si poteva anche credere di essere in un momento senza inizio e senza fine. In un tempo sospeso in cui i fusti umidi delle pannocchie per noi bambini diventavano spade disordinatamente sbocconcellate, con cui intraprendere delle battaglie. Le nostre armi erano la fantasia e tutti gli oggetti che si trovavano nel cortile e che si nascondevano dietro ogni angolo di strada ed ogni immagine. Ogni oggetto, magicamente, superava qualsiasi futura virtualità digitale, viaggiando velocemente senza alcuna fibra o necessità di byte. Durante le lunghe estati ci si sedeva sui freddi marmi dei gradini per godere la frescura e si giocava con quello che si trovava, come le strisce di plastica colorata della tenda che riparava l’entrata: vinceva chi riusciva ad emettere più schiocchi consecutivamente, oppure si correva per tutta l’area del cortile antistante la casa, toccando i portoni o tutto ciò che fosse fatto di ferro. Rincorrendosi gridando “tocco ferro” e non pensando se fosse brutta o bella quella vita mentre le campane misuravano il tempo.
Rosella Tirico
CENTRO STUDI LEONE XIII
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