Tucciariello.it

blog

12/08/2021

IL TERREMOTO A MELFI

Quel maledetto 23 luglio 1930

di Adolfo Cerillo

 

Il vecchio ottantenne che mi sta di fronte, alla richiesta di qualche ricordo di quella notte del 23 luglio 1930, scuote il capo canuto guardando gli alberi della villa comunale che, immobili, sembrano rispettare il dolore di quei tristi ricordi.

L’aria afosa di questa triste giornata rende l’umile vecchio restìo a parlare: la rievocazione della data e dei ricordi lo rende inquieto e timoroso, come se dovesse ripetersi il terremoto!
Le prime sensazioni che lascia trapelare, si chiamano timore, terrore, poi dolore silenzioso, e tanta pietà per i morti.

Memore del detto virgiliano «...Infandum regina iubes renovare dolorem...», rispettavo il penoso silenzio, anche se l’anima del sapere rendeva il mio animo impaziente.

Egli comprende il mio rispetto e, dondolando lievemen­te il capo come a voler scrollar di dosso l’incomunicabilità stabilita dal doloroso argomento, ricorda quell'infame notte del terremoto del Vulture.

Sembra un cantore dell’epopea greca (le lamentose corifere delle tragedie d’Eschilo...), come se avesse vissuto, sempre.

Col racconto, mi si schiariscono, lucidi, gli avvenimenti tragici di quel 23 luglio: sono trascorsi cinquant’anni e dal racconto li vedo come fatti immediati.

Dormiva a Melfi dopo un giorno pesante, il silenzio che invadeva tutta, mostrando all’uomo la infinita bontà di Dio! Quella notte, sembrava dormisse anche Federico II, perché dalle sue torri maestose non si vedevano i neri nuvoloni, tante volte presagio di grandine e di cattivo raccolto; e che dire della cima del Vulture, vecchio sornione, vecchio quanto il mondo. Sembrava volesse dormire anche lui!

Un raro passante nottambulo cadenzava il suo passo sull'acciottolato; alcuni giovani, com’è ancor oggi consuetudine, seduti sul muretto del castello normanno, tagliavano grosse fette di cocomero rosso nell’esuberanza della loro gioventù, tra nenie popolari e risa sprezzanti: erano gli unici richiami della vita che viveva un piccolo paese di provincia.

All’improvviso, si levò un forte vento, gli animali divennero irrequieti, un boato squarciò l'aria e la terra incominciò a tremare.

Melfi si scompaginava. Qualche strada si apriva, le altre si coprivano di detriti.
Le case, divelte o sprofondate, davano un senso di paura, più dei lamenti dei feriti, più dei resti di uomini morti coperti di macerie... e poi una pace, che chiudeva una tragedia e ne apriva un’altra: l’amico non trovò più l'amico, il padre il figlio.

Resi consapevoli, gli uomini cominciarono una gara di solidarietà, compiendo quell'atto d’amore che si chiama sacrificio.

Si scavava ovunque si pensava vi fosse una vita umana, si approntavano lazzaretti di fortuna per dare una prima sepoltura a chi aveva chiuso gli occhi per sempre.
Non erano pochi, erano cinquecento.
I militari si affannavano a dare soccorsi a quella popolazione stremata dalla paura e dagli stenti... e la vita ricominciava.

La natura catastrofica non aveva indebolito lo spirito dei melfitani: proprio nella sciagura avevano trovato la forza di rimanere uniti e di continuare a vivere per ricostruire.
Il racconto del vecchio non finisce qui.

Rivede come fosse ora i compagni di gioco e di lavoro riversi sotto le macerie, il sangue umano che inumidiva il pietrame arso dal sole cocente dell’estate; riascolta urla e grida disperate di tanti conoscenti cari, onesti e laboriosi, che proprio non dovevano morire così!
Fare i nomi, ricordare i mille altri fatti raccapriccianti non oso, volendo risparmiare altre lacrime perché noi, gente della questione meridionale, di lacrime ne abbiamo ver­sate abbastanza.

Ma i ruderi di Porta Calcinaia, i vicoli del Pendino, Via Bagno, parlano la lingua di quell'ora tremenda, perché i vivi comprendano. E potrebbero comprendere di più, se gli uomini non avessero cancellato la Chiesa dei Morticelli, che sorgeva ove oggi è il Palazzo Catapano in Piazza Abele Man­cini! È un peccato per i posteri ed anche per gli studiosi di sismologia, poiché il Campanile dei Morticelli, rimasto illeso dalla furia del terremoto, sarebbe stato oggetto di studio delle scosse sismiche ondulatorie e sussultorie, di quella notte, che, sembra abbiano dato al sisma anche un movi­mento rotatorio: la cupola del campanile, nella sua forma ottagonale, risultava ruotata sulla sua base.
Di quel campanile, si conservano oggi solo sbiadite fotografie.
E non aggiungo altro. Non per pigrizia.

Ho rievocato solo un lembo di una triste pagina della storia di Melfi per sollecitare altri, meglio di me, a scrivere più compiutamente la nostra storia. In questo momento, mi piace salutare e ringraziare Pasquale Tucciariello e tutti i collaboratori della radio, per questa occasione che hanno dato a me e a Melfi, occasione di stimolo, di studio e di ricerca.

Il cinquantenario del terremoto del Vulture va ricordato soprattutto per l’abnegazione che le popolazioni del Vulture seppero dimostrare alla nazione; la gente umile di Basilicata, chiusa nel proprio dolore, senza chiedere, seppe trovare nella via del sacrificio e del lavoro il riscatto per continuare la sua opera di ricostruzione.

La gente del Vulture si è dimostrata degna della sua civiltà antica, che la vide splendere per la sua industre attività sin dall’era neolitica e ciò sta a significare come questo ricordo sia di monito a quelli che rimasero e che ancora oggi vivono la nostra vita, appena un attimo dell'eternità del tempo.

Adolfo Cerillo


Ritorna alla sezione BLOG per leggere altri contributi