Tucciariello.it

blog

31/12/2020

Mediterraneo Mezzogiorno nord Africa
di Antonia Flaminia Chiari

 

Che cos’è il Mediterraneo? Un ampio specchio d’acqua sulle cui sponde sono fiorite e si sono confrontate tutte le grandi civiltà dell’antichità classica: dalle più remote e misteriose, alla intraprendenza navale dei Fenici, alla grandiosità degli Egizi, alla industriosità terrestre e marittima degli Etruschi e dei Cartaginesi, alla poliedricità del mondo ellenico, seppe raggiungere le più elevate espressioni del pensiero umano e produrre forme artistiche di insuperata bellezza. Il Mediterraneo è “mille cose insieme” – scriveva Fernand Braudel. “Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une alle altre…. E’ un crocevia antichissimo, in cui da millenni tutto confluisce, complicandone e arricchendone la storia”.

Il Mediterraneo è un crocevia di umanità così complesso che non si può sintetizzare con l’espressione mare nostrum, ma occorre riferirsi ad un mondo mediterraneo. Per troppo tempo il Mediterraneo è stato visto come un dépliant turistico, o come una frontiera politico-culturale tra mondi opposti, e infine come luogo di morte, il cui conteggio di migranti morti in mare si accompagna al numero degli sbarchi in Grecia o in Italia. Sole e mare, confini e guerre, miseria e disperazione: una miscela di immagini e paure senza un denominatore comune. Oggi, invece, la bellezza dei paesaggi va combinata con la ricchezza di un pensiero antico e con la virtù della speranza.
Il prof. Gianfranco Miglio sosteneva che imporre le stesse regole dalle Alpi alla Sicilia è come mettere addosso a un nano il vestito di un gigante. Perciò sosteneva, da grande studioso del fenomeno politico e da grande pensatore politico qual era, la divisione del territorio nazionale in macroregioni.
L’idea di una macroregione del Mezzogiorno è una suggestione intellettuale o può rappresentare una strada praticabile per curare le mille ferite che affliggono questa parte del Paese?

Aldilà dello storico divario di reddito e di crescita economica tra parte meridionale-insulare e parte centro-settentrionale del Paese, ciò che preoccupa è lo stato e la qualità dei servizi pubblici, insieme all’aumento delle povertà materiali e alla crisi dell’industria. La macroregione del Mezzogiorno, per rappresentare una strada praticabile, ha bisogno di determinare un progetto comune di sviluppo incentrato su alcuni fattori-chiave; ed ha bisogno di un Forum di Regioni del Mezzogiorno come assemblea, affiancata da una struttura tecnica, che possa gestire gli interventi.

La pandemia che si è propagata dalla Cina al resto del mondo ha fatto tantissimi danni, non solo alla salute del genere umano, ma a tutti gli assetti economici, sociali e civili dei Paesi più poveri e arretrati del pianeta. Tutta l’economia del nostro Mezzogiorno, ancor prima del Covid, mostrava già segni di evidente sofferenza. Dobbiamo rassegnarci? No, anzi, dobbiamo intraprendere un nuovo percorso di riscatto civile, attraverso la costituzione di una Macroregione del Sud.

Un grande meridionalista, il prof. Franco Cassano, nel suo pregevole saggio “Il pensiero meridiano”, sostiene che il Mezzogiorno deve percorrere una strada autonoma che non segua modelli emulativi e soprattutto che non cerchi di fare del Sud un Nord sbagliato. Il Sud deve essere soggetto del pensiero e non oggetto della riflessione altrui. Il Sud va visto con gli occhi del Sud. Ciò che manca alle Regioni del Sud è un modello di programmazione, con una visione originale dello sviluppo economico, con standard burocratici opposti a quelli dello Stato. Il sud continua a spopolarsi, e tanti nostri uomini politici ragionano ancora con schemi ottocenteschi.

Un dato risulta incontrovertibile. Nell’Unione Europea del terzo millennio, come può una Regione come la Basilicata pretendere di contare qualcosa a Roma o a Bruxelles con una popolazione pari a quella della provincia di Reggio Emilia? Cosa spera di ottenere la Calabria se la sua popolazione è pari a quella di Torino e del suo hinterland? La Campania è la regione più popolosa del Mezzogiorno, ma il suo PIL è inferiore alla media europea, con un numero di addetti all’industria pari ad una città del Nord. E la Puglia contribuisce solo in minima parte alla ricchezza nazionale. Il discorso cambia se il Mezzogiorno diventasse Macroregione meridionale, con una sola voce e con progetti sostenibili. Una Macroregione che avrebbe un peso sullo scacchiere geopolitico del Mediterraneo. Di fronte alla invadente presenza dei Turchi e dei Russi al largo della Libia e della Tunisia, una ipotetica Macroregione del Sud potrebbe rivendicare la sua collocazione strategica nel bacino del Mediterraneo.
Per avviare questo percorso, forse è giunta l’ora di superare i localismi e quel malinteso senso delle identità che ci condanna a vivere deboli, distanti e senza voce in capitolo.

Le macroregioni esistono già in Europa, e noi non possiamo arrivare ultimi ai decisivi cambiamenti della Storia.
Il Mezzogiorno d’Italia, per la sua posizione strategica, può essere cerniera dei due grandi blocchi geografici: Europa e Africa Mediterranea. Ma è necessaria una politica che organizzi nuovi modelli concettuali e operativi, così da incrementare il benessere economico e sociale delle popolazioni, attraverso l’accessibilità dei territori, l’efficienza dei trasporti, il rilancio del settore manifatturiero che possa creare ricchezza in territori allargati. L’Europa e l’Africa sono due continenti posti oggi a confronto con diversità coniugate dal Mar Mediterraneo, dove transita buona parte del traffico mondiale delle merci, con problemi di dialogo e di sicurezza. Cosa fare? E’ necessario che il Meridione d’Italia entri nella competizione globale dei flussi commerciali. A questi obiettivi bisogna dare concretezza con il potenziamento della tecnologia e delle connessioni marittime. Il Mediterraneo adesso è una parola che fa paura, che ci divide e ci indigna. Non importa più la sua storia: importano i disperati che vi affogano ogni giorno, importa la crisi economica che da anni lo attraversa come una tempesta.

L’Africa del Nord è una frontiera dello sviluppo che costituisce l’opportunità principale non solo per L’Europa ma soprattutto per il Mezzogiorno d’Italia. In questa prospettiva dovremo sostenere il miglioramento delle condizioni esistenti, in termini di democrazia, in Egitto, Algeria, Libia, Tunisia, Marocco.
Le politiche promosse dall’Unione Europea hanno fallito il loro obiettivo. Il divario tra le due rive del Mediterraneo, separate e unite dallo Stretto di Messina, si è aggravato a causa delle scelte delle istituzioni finanziarie internazionali e del difficile e caotico clima politico che ha caratterizzato la storia di queste Nazioni. La situazione va ulteriormente aggravandosi: i cosiddetti paesi terzi mediterranei non progrediscono nel loro indice di sviluppo umano che rimane basso, e le spese per le politiche sociali e di welfare in questi Stati stanno diminuendo drasticamente. A questo si aggiunge la stratificazione sociale sempre più marcata e la qualità della vita che peggiora di giorno in giorno.

Ancora più grave è che la frattura apertasi all’interno del mondo mediterraneo aggiunge al divario politico ed economico una lontananza culturale che rischia di aggravare le condizioni dell’area; una frattura che l’Europa, con i suoi atteggiamenti di chiusura verso i paesi arabi, contribuisce ad approfondire. Tutto ciò risulta evidente dall’analisi del fenomeno migratorio all’interno del Mediterraneo e di come esso viene affrontato in Europa.

I tentativi europei non sono stati in grado di cogliere le opportunità fornite dal mare fra Mezzogiorno e nord Africa. Ricomporre la frattura fra le due Rive significa creare un orizzonte condiviso che permetta alle differenti culture di incontrarsi, evitando politiche di imposizione di modelli economici e culturali.

Occorre, insomma, proporre un partenariato mediterraneo, basato sul dialogo politico, economico e socio-culturale. Movimenti culturali possono stimolare la cooperazione, unendo nello stesso fine popoli diversi, legando i contesti locali a quelli internazionali e dimostrando come, attraverso il Mediterraneo, le idee possano circolare fra le diverse società, venendo reinterpretate alla luce delle diverse tradizioni grazie ad uno scambio all’interno del quale nessuna forza cerchi di imporre la propria forza alle altre.

Una proposta concreta: una Università condivisa da Napoli e Tunisi o da Palermo e Alessandria d’Egitto, con uguale numero di professori e di studenti e con l’obbligo degli studenti di trascorrere un ugual numero di anni in entrambe le sedi. Esempio questo di una politica condivisa dai Paesi delle due sponde, tra i quali il Mezzogiorno è l’indispensabile motore, per valorizzare le caratteristiche del mare e costruire un sentiero comune nel quale le differenti culture imparino a ripensare se stesse, rafforzando anche i rapporti umani.

Cosa si intende per identità meridionale? L’identità si qualifica in una forte consapevolezza di tutti quei fattori che indicano un complesso di esperienze maturate nei diversi luoghi del tempo, e raccolte dalla memoria. L’esperienza storica ci insegna a non imporre la propria cultura come egemone, ma di volgere lo sguardo fuori dai nostri confini. L’esigenza etica spinge ad impegnarsi nella costruzione di una identità aperta al mondo, di un Mezzogiorno proteso al Mediterraneo.

L’identità di cui oggi il Mezzogiorno può giovare è articolata, riconoscibile, fatta di condivisioni e differenze. E’ un pensiero locale, non localistico, in quanto rimane radicato nella sua terra, senza per questo rinunciare a volgere lo sguardo curioso al mondo. L’identità aperta diventa così un potente fattore di senso civico, in quanto orienta le direzioni di un governo del territorio; sostiene la creazione di nuovi strumenti di valutazione delle politiche; rafforza il capitale necessario per lo sviluppo, inteso come crescita economica che rispetti le dinamiche dei singoli territori e le peculiarità delle rispettive comunità. Si può restare Sud scoprendosi Nord di altri.

L’Italia contemporanea ha trascurato il Mediterraneo, non tessendo legami duraturi e consistenti con un mondo che è rimasto lontano. Si è dunque cercato di rendere il Mediterraneo un mare nostrum solo nei termini di una politica aggressiva di potenza, ma, una volta che questa politica ha mostrato la sua inconsistenza, il Mediterraneo è tornato mare altrui.

E’ difficile parlare di Mediterraneo in un Paese che ha molto debole il senso della politica estera, che evita ogni scelta netta, e in cui durante le campagne elettorali ogni riferimento alla situazione internazionale è assente.

Persi i tragici sogni imperiali, i possedimenti coloniali e lo spirito avventuristico, l’Italia rinuncia al suo posto al sole, e a partire dal secondo dopoguerra in poi, si rivolge a nord e ad ovest. Dal nord arriva lo sviluppo economico, la tecnologia, una idea di efficienza; dall’ovest atlantico arrivano il mercato, la Nato, uno stile di consumo, una serie di mode all’americana. Persino Fabrizio De André si lamenta della mancanza nella cultura italiana di un legame forte con culture antropologicamente vicine. Da un punto di vista culturale, si assiste ad una frattura tra un mondo intellettuale che cerca di riportare la questione mediterranea nel dibattito delle idee, e un mondo politico che sembra guardare altrove.
Pensiamo all’epoca delle repubbliche marinare: i Genovesi e i Veneziani sapevano che il loro mondo non finiva con la loro cittadina o il loro quartiere. Le attività di quelle repubbliche erano tutt’altro che nobili, ma comprendevano che per avere un’esistenza degna bisogna guardare ad un altrove ancora non ben definito e cercare uno spazio in un mondo più grande.

Oggi, l’immagine mediatica su cui si basa la politica mediterranea è quella di un mare inteso come linea di frontiera rivolta contro un mondo caotico e ingovernabile. In altre parole, lo spazio mediterraneo è evocato come confine condiviso con Paesi da tenere lontani e con popoli da arginare in ogni maniera. 

I luoghi del Mediterraneo vivono la contraddizione tra essere luoghi desiderati per le vacanze e il confort, e luoghi evitati per la vita quotidiana e il business. Il Mediterraneo è dunque ridoto ad una periferia senza avvenire, ad un ambiente da sfruttare come fuga dalla vita accelerata, ma da considerare come una parentesi accettabile solo grazie alle sue caratteristiche geografiche.

Inoltre, nella questione mediterranea entra anche la frantumazione dell’universalismo: ogni microidentità rivendica la propria estraneità a qualsiasi tendenza unificatrice e coltiva la sua piccola patria a prezzo di esclusioni, di nuove frontiere, di tragedie umane. E la logica del settarismo e delle etnie da difendere mostrano come le valutazioni di Camus sul Mediterraneo come “segno della misura” dominato dalla luce e dal sole, siano solo suggestioni letterarie astratte.

Eppure il Mediterraneo esiste come molteplicità di legami antropologici e geografici, come intreccio di scambi e di traiettorie. Differenze senz’altro, ma in divenire, mobili, pronte ad inserire altre differenze e a rivedere i propri circuiti, in una continua affermazione e invenzione di intrecci e mescolanze.

I popoli del nord Africa hanno estrema necessità di innovazione sociale, a cominciare dal bisogno di dare un nome ai bambini orfani di guerra; hanno bisogno di ricucire, dal basso, le possibilità di una convivenza dignitosa; hanno bisogno di occasioni di lavoro per popolazioni in età lavorativa in forte crescita, segnati dalla mancata occupazione giovanile e da una significativa disoccupazione intellettuale. E non possono fare tutto questo da soli.

La sfida del dialogo mediterraneo, come società civile, sta nel mostrare concretamente che questo mare può separare e unire allo stesso tempo i popoli delle sue sponde. Su questo tema è inopportuno fare della retorica. Per dialogare, scambiare e intraprendere azioni concrete, occorrono soggetti capaci di considerare con realismo l’interesse reciproco alla collaborazione: soggetti capaci di costruire spazi di interazione equa e inclusiva, dove tutti – forti e deboli – possano essere protagonisti.
L’approccio tecnocratico allo sviluppo raramente produce inclusione, protagonismo e dignità delle persone, sviluppo realmente sostenibile. Come diceva Emmanuel Mounier, “lavorare è fare un uomo al tempo stesso che una cosa”: l’intelligenza progettuale è sterile senza un percorso di relazioni durature, di formazione e di sostegno, in cui sia possibile sperimentare la cooperazione e apprendere la resilienza.

Chi, come tante popolazioni del Mediterraneo, conosce per esperienza sia la fatica paziente del costruire, sia l’assurda rapidità della distruzione, deve trovare buone ragioni per costruire daccapo, nonostante tutto: nella certezza, o almeno nell’intuizione, che le persone, non le cose, sono eterne.

Antonia Flaminia Chiari

Centro Studi Leone XIII - www.tucciariello.it


Ritorna alla sezione BLOG per leggere altri contributi