JAZZ
La letteratura del montaggio
di Carmen De Stasio
La vita umana, anche ammesso che superi i mille anni, sarà sempre chiusa in uno spazio ben limitato … ma questo spazio di tempo che per legge di natura scorre velocemente, anche se la ragione vorrebbe prolungarlo, è inevitabile che vi sfugga subito: siete voi che non sapete afferrare e trattenere o anche solo frenare questa che è la più veloce di tutte le cose; ma ve la lasciate scappar di mano come se fosse un accessorio qualsiasi che si può sostituire.
[Seneca, Il tempo, Stampa alternativa, Roma, 1994, p. 15]
Quasi duemila anni ci separano dal tempo in cui Seneca ebbe a scrivere queste parole. Eppure, se non se ne conoscesse l’autore, si potrebbe coltivare l’idea che a partorirle sia stato da un pensatore contemporaneo, tanto attuale la materia.
Il tempospazio: indolente ondeggiare che frena sovente la pulsione innovativa e colloca in irrigidimento la tensione creativa, complottando affinché gli affari umani siano accantonati come oggetti inutili. È soprattutto con l’avvento plateale della tecnologia (al servizio di) nuovi mezzi di comunicazione che la svolta perda la monodirezionalità prospettica per alludere e amplificare la propria materia esistenziale in un’immediatezza sensile e intellettiva. In un tempo (il Novecento) disposto all’interno di un alchemico montaggio, le arti – avulse dalla lineare posizione di icone contemplabili – perdono la vaganza per appropriarsi dei codici del nuovo, confluendo in un’energia complessa di movimenti tanto interiori che esteriori. Il riscontro pertanto è in un rinnovamento che mira a estirpare un immobilismo intellettual-creativo tendente a consolidare il fatto e mietere vittime come su un campo di battaglia, dove ciascun individuo perde la sua originalità e diviene cumulo di macerie, frantumazione di corpi in un anonimato assimilabile a disprezzo.
Questo il motivo per il quale s’intenda come la maniera di trattare l’arte attraverso il cinema acquisti un’evidenza maggiorativa di contro all’aspetto meramente visuale-contemplativo, talora caricaturale, con una finalità limata dalla copiabilità mediale del quotidiano. Di fatto, la neo-letteratura cinematica non si sottopone a metafore e simboli, ma è incline, attraverso gesti che riattivano la sanguignità delle cose, a includere, nell’aspetto organico, anche il valore. Valore del vivere.
Comprensiva – oltre alla semplice pagina scritta e all’arte pittorico-scultorea – della mobilità (pari alla mobilitazione delle potenzialità individuali), suffragata dal congegno cinematografico, la letteratura cinematica è luogo di esplorazioni intellettual-immaginative, nel quale la pienezza d’intervento dell’artista sembra scandire una traiettoria segnata dalla necessità di agire in cultura; di conoscere le basilarità della sintassi e del lessico specialistici per ottemperare a quella che definisco meta-ortografia sinestetica, sostenuta da un montaggio scenico meditativo, intenzionale, estensivo (di livello orizzontal-materico e intenzional-volontario), che agevola la pianificazione e la tensività dei volumi creativi.
Tutto ciò è preambolo alla letteratura del montaggio, coincidente con il tempo del (cine)dada, quando l’evocazione di una letteratura (nella specificità etimologica) riscontra, di fatto, potenzialità in continua evoluzione, che non ignora il fermento, ma lo dispone in una circadianità che evita, per ciò stesso, di paragonarsi a un’intelligenza agente in seconda mano.
È la cinematica dalle significazioni in svolgimento simultaneo (Le pensée se fait dans la bouche ‒ afferma Tzara nel Manifesto dada) che concorre al rifiuto di saperi consunti. Questo il motivo per cui anche nell’azione dadafilmica lo spostamento avvenga senza la prevalenza di atti primari e/o secondari, la dominanza dei soggetti protagonisti rispetto alle comparse, la scenografia rispetto alla coreografia, eccetera: la collocazione «è» continuo mutamento: ciò che si presenta nella velocità d’esposizione ha una rilevanza di forma interiore-esteriore-obliqua dal valore implicito, con un’originalità che presume la conoscenza di canoni pregressi, ai quali opporre una distanza perché l’accadimento affluisca nella contemporaneità.
In tal senso, la simultanea rappresentazione aniconica di elaborate inferenze e interferenze ‒ com’è nella vita quotidiana – realizza il montaggio inatteso d’imponderabilità. Inventato da G. Grotz e J. Heartfield, pionieri del montaggio fotografico, il sistema si consolida specialmente nel cinedada: qui, mediante una più sofisticata tecnica (che dà forma all’aspetto nomade, virtuale), il filtraggio genera un’immagine che richiama all’unisono le cosiddette arti topiche: scrittura, pittura, scultura, fotografia, eccetera, proponendone una cornice di totalità immaginativa. L’effetto ricercato è immediato, sicché ciascuna scena (singola e nella globalità) accartoccia e comprime, manovra il tatto come un’installazione e si appropria delle confluenze comuni distogliendole dall’abitudine stanca.