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JAZZ

 

 

LUCI “SNOB” AL PETRUZZELLI: PAOLO CONTE IN CONCERTO A BARI
- 29 APRILE 2016 -

 

di Angela de Nicola

 

“Oltre le illusioni di Timbuctù e le gambe lunghe di Babalù c’era questa strada / questa strada zitta che vola via come una farfalla, una nostalgia / nostalgia al gusto di curaçao / forse un giorno meglio mi spiegherò …”
(“Hemingway”- dall’album “Appunti di Viaggio”- 1982)

In una ventilata sera di metà primavera, Bari ci accoglie lungo Corso Cavour, a pochi metri dal mare e dai suoi viali commerciali. Siamo diretti al Teatro Petruzzelli, gioiello artistico e vanto architettonico della Città Nicolaiana che per questa giornata riserva ai cultori del Jazz - e non solo - uno straordinario evento in cartellone, un fuori abbonamento destinato ad essere lungamente ricordato fra gli estimatori del genere: Paolo Conte in concerto in esclusiva per il Sud Italia presenta il suo nuovo lavoro uscito nell’Ottobre del 2014 dal titolo “Snob”, quindicesimo in ordine di una carriera che non ha certo bisogno di presentazioni. La sola cronaca della serata basterà credo a coprire l’eventuale mancanza di informazioni intorno ad una leggenda vivente di oltre cinquant’anni di musica indossati con classe ed eleganza e senza nessuno sconto concesso a banalità o a trovate commerciali che lasciano il vuoto che trovano. “Snob”, nella sua libertà poetica di nobile flaneur, riconferma, se ancora ce ne fosse bisogno, l’immutata forza di un comunicatore nato, di un Conte che continua a rimanere - inutile sottolinearlo - un pilastro della musica e della cultura italiana ed europea, del Jazz Nazionale ed Internazionale, del cantautorato d’eccellenza, della comunicazione poetica ed artistica. E non è un caso se ogni suo disco, così come ogni suo concerto, rappresentino una garanzia di prendere parte ad un evento comunicativo a trecentosessanta gradi, garanzia, in altre parole, di ricevere un dono d’arte autentico, un messaggio di conclamato valore uditivo, visivo e concettuale.

Laurea Honoris Causa in Pittura all’Università di Catanzaro (in nome di una riconosciuta capacità figurativa, quasi sempre i suoi lavori sono stati correlati da opere pittoriche autografe) e in Lettere Moderne all’Università di Macerata (oltre a quella conseguita a Parma con lo studio della Giurisprudenza ancor prima dell’affermazione nel mondo artistico) Croce al merito della Repubblica Italiana, Premio Librex Montale e Premio Chiara per i testi poetici delle sue canzoni, e ancora, Targa Tenco nel 2004 – tra le sue molteplici partecipazioni alla Manifestazione - come miglior interprete, David di Donatello come miglior musicista nel 1997 (solo per citare i riconoscimenti più importanti) Paolo Conte è uno dei pochi artisti italiani realmente conosciuti e amati in Europa, particolarmente in Francia per le sue evidenti tracce bohèmiennes, e, meglio, per il suo gusto dell’“ailleurs” così tipico della scrittura postmoderna, nonché per il suo stile riflessivo a metà tra il recitato ed il caricaturale. E contemporaneamente, non dimentichiamolo, la sua figura è conosciuta in tutto il mondo. E stasera a Bari, come accade da circa quindici anni, questo fenomeno musicale si esibisce lasciando che il suo pianoforte si circondi di ben undici elementi da orchestra ad arricchire un groviglio stilistico e sonoro che in cinque decadi ha spaziato dalle suggestioni della Milonga alle ispirazioni della Bossanova, dalla carica del Boogie al ruggito dello Swing, dalla “primitività elevata” dell’Habanera e della Conga al Tango alla Piazzolla, dal Foxtrot fino alle Suites del poeta sussurrante.

E così, l’inconfondibile voce roca dell’Avvocato di Asti, nata per essere - ironia della sorte - quasi naturale gemella dello strumento che da sempre è stato contraltare scherzoso, identificativo e finanche riflessivo della sua musica – quel kazou che anche in questa occasione decide di suonare alternato di quando in quando alle cromie del piano (suonato spesso a quattro mani con lo storico collaboratore Daniele Di Gregorio) - quella voce-scat ancora possente ma al tempo stesso dimessa, quella voce però lucida, altamente plastica, evocativa di esotismi e fallimenti, di ruvide nebbie di provincia e accecanti bagliori africani, di danze “frizou” e grigie tappezzerie, di Bar Mocambo e fughe per un ritorno, quella storica voce si lascia attorniare dagli altrettanto storici slanci di una chitarra acustica (Nunzio Barbieri) dai passi delicati di una chitarra classica (Daniele Dall’Omo) come dai lampi di una elettrica (Massimo Luca) dalle malìe di un contrabasso (Jino Touche) dai volteggi di un sax tenore (Luca Velotti) dalle corse sfrenate di una batteria (Vittorio Volpe) così come dal rombo delle percussioni (Lucio Caliendo) per finire con il contrappuntistico disegno di violino (Stefanino Benni) flauto (Claudio Chiara) e fisarmonica (Max Pitzianti) e dall’immancabile possanza scenica di un enorme vibrafono (vecchia passione dei suoi vent’anni) strumenti posti nelle mani di Maestri che escono fuori dalle migliori Accademie di musica del mondo e che da soli basterebbero a dare onore a tutto il parterre del Petruzzelli. I colori senza tempo dell’emigrazione in “Argentina”, la tagliente ironia della “Favola Snob” di provincia che dà il titolo al succitato ultimo lavoro, lo storico riff di fisarmonica e sax della “canzone perduta” in “Gioco d’Azzardo” abbracciano tutto il teatro in un barlume diamantato, in un “entre-nous” comunicativo di straordinaria potenza. Silenzi assoluti e applausi sentiti si alternano dalla platea fino ai loggioni. Ma la voce di Paolo Conte potrebbe suonare anche da sola. Anche senza nessuno. Saprebbe come affrontare un palco in perfetta, ammaliante ed energica solitudine.

Quella voce manderebbe via anche il piano, supplendo meravigliosamente il tutto con le sole inflessioni del suo dire, con il solo tocco di un ipnotico parlato. Non risentirebbe, l’Avvocato, di quasi ottanta primavere, anzi da quelle ripartirebbe per raccontarci tutto il Novecento, secolo che come nessun altro musicista italiano egli ha saputo disegnare a partire dal “nulla” di una provincia che l’arte può trasformare in centro del mondo. Conte che ci ha insegnato il valore della periferia da dove tutto parte e da dove tutto si vede meglio e di più, da dove spesso l’arte prende il suo colore migliore impastandosi di quella necessaria “idiosincrasia per l’attuale” da cui consegue una voglia di dirsi e farsi “altrove”, inventando e reinventando favole diafane fatte di fumo, di danze e di caveaux, trame impossibili e per ciò stesso credibili e affascinanti, demolendo e ricostruendo figure, strapazzando idiomi, ricordi, desideri e tutto ciò che non potremmo mai avere bensì solo immaginare. Né più né meno che “storie”. Conte chino sui tasti, che gesticola intorno alle ricchissime note liberate dal palco, che ammicca sommessamente a se stesso, che non è stanco di raccontarci di una “Verde Milonga inquieta” sfuggente alle fatiche del musicista, così come di un Impermeabile sotto la pioggia, di un Uomo-Scimmia del Jazz, di un Bar di provincia dal nome “Tropical”. Dalla platea si alza un grido e un applauso: ”Genio!” che penso gli stia tutto, mentre le luci si spengono e la splendida corsa di una mai consumata “Via con me” ha inizio. Come disse un giornalista americano negli anni novanta, andare a vedere un concerto di Paolo Conte è come avere un film di Fellini nelle orecchie. Certo sono mancate perle leggendarie come “Gelato al Limon”, “Una giornata al mare”, “Genova per noi”, “Sandwich man”, “Blue Tangos”, “Sparring Partner”, “Bartali” o “Fuga all’Inglese”, ma all’Avvocato gli si perdona anche questo e quando gli orchestrali si accordano per ricordarci un Ravel nell’ariosa “Max”, in “Aguaplano”o nel tango vaudeville di “Madeleine” per poi inoltrarsi nella cupa eppure sorridentissima “Come di” - senza dimenticarsi di regalare al pubblico gli immancabili dieci ed oltre minuti di “treno in corsa folk su una prateria” dal titolo “Diavolo Rosso” (omaggio al ciclista Giovanni Gerbi) - il pubblico è letteralmente ai piedi dei Maestri che per prodursi non lesinano uno sforzo umano nei continui giri di chitarre, violino, fisarmonica e batteria.
“Suona tutto e niente, una musica …” (*)


Conte ha fatto forse della sua lunga corsa in musica ciò che lo scrittore postmoderno ha fatto del romanzo: eterna irraggiungibilità, elastica trasformazione, imprevedibile distorsione, inconsapevole demolizione … laddove la maggior consapevolezza resta comunque quella di essere sempre liberi da ogni moda o schiavitù stilistica, tentando di ricondurre alla medesima libertà anche il fruitore dell’opera stessa. E credo infondo la vera essenza dell’arte risieda proprio qui: nella sfida continua ai canoni imposti, nel difficile abbraccio con una libertà che viene da una sintesi sempre più ricca ma al tempo stesso sempre più inafferrabile ed elusiva data la complessità dei tempi in cui viviamo. La musica suona tutto e niente. Sì. Perché la musica è capace di essere al tempo stesso polvere di palcoscenico e nuvola di cielo, baratto col nulla e guadagno del tutto. E forse, puntando il dito verso una stella lontana ed inquieta, Paolo Conte a Bari ci ha raccontato tutto questo, indicandoci una costellazione ancora lontana entro la quale probabilmente qualche nuova combinazione tra almeno “duemila enigmi del Jazz”(**) verrà presto trovata, per essere poi nuovamente risolta e poi ancora una volta vissuta, forse sciupata, superata ma per ciò stesso amata.
Angela De Nicola.

 (*) cfr testo: “Elisir” (1995)
(**) cfr testo:“Sotto le stelle del Jazz” (1984)

 

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